Il Messaggero, 18 giugno 2023
Intervista a Marco Tardelli
È stato un grande calciatore, un buon allenatore, uno stimato opinionista televisivo. Ma è con una corsa irrefrenabile e un urlo liberatorio di sette secondi che Marco Tardelli l’11 luglio 1982 è entrato nella Storia non solo sportiva del nostro Paese. Sette secondi travolgenti in cui c’è dentro parte della sua vita, nel bene e nel male, e un po’ anche della nostra. Gli stessi elementi che ora Tardelli ha provato a cercare nella sua nuova avventura tv, L’avversario – L’altra faccia del campione, sei incontri settimanali – in onda dal 5 giugno ogni lunedì, in seconda serata, su Rai3 – con altrettanti fuoriclasse: Antonio Cassano (nella puntata d’esordio), Federica Pellegrini (in programma domani), Roberto Mancini (sarà recuperata perché prevista il 12 giugno, giorno della morte di Berlusconi), Lea Pericoli, Michel Platini e Franco Menichelli.
Che fa adesso, se la gioca da storyteller?
«Ci provo. Queste chiacchierate mi sono piaciute tanto. Spero che la pensino così anche a casa».
L’idea è sua?
«Sì. Volevo fare qualcosa tipo
Sfide per raccontare le vite degli sportivi senza omettere i problemi».
In assoluto il suo avversario più duro chi è stato?
«Mia madre. Che non voleva assolutamente lasciarmi fare il calciatore: per lei ero mingherlino, sudavo troppo, e rovinavo i pochi vestiti che avevo. Mamma era anche manesca, al contrario di papà – operaio Anas e contadino – ma quando capì che potevo fare qualcosa mi lasciò giocare».
In quei sette meravigliosi secondi c’era anche questo?
«Sì, c’era tutto quello che aveva passato e superato fino a quel momento».
Sognando, nella sua cameretta, era arrivato fino al Mondiale?
«No. Io volevo solo giocare nel Pisa, la squadra della città, perché così in vista avrei potuto agganciare qualche ragazza in più».
A proposito, nel 1983 lei ebbe una relazione con Moana Pozzi e durante un ritiro le prese una stanza nello stesso albergo della squadra. Per raggiungerla usò le scale antincendio ma rimase bloccato fuori: unica soluzione salire sul tetto... Ne ha vissute tante di situazioni così?
«Non mi sembra. Moana comunque era bellissima».
C’è stato un momento, magari dopo il trionfo ai Mondiali, in cui tutto quel successo le ha dato alla testa?
«No. Vengo da una famiglia operaia, molto umile ma solida, e con naturalezza sono rimasto quello di sempre. Forse l’orgoglio mi ha portato a volte a dire cose eccessive, ma niente di eccezionale».
In quegli anni litigò pesantemente con Gianni Brera che in un articolo aveva scritto “Tardelli ha le ruote sgonfie”.
«È vero. Venivo da un’annata difficile e Brera mi castigava sempre. Lui mi piaceva, raccontava benissimo il calcio e i suoi protagonisti, e in quel caso esagerai: volarono parole grosse».
Nella vita fuori dal campo le gomme bucate quando le ha avute?
«Ho avuto i problemi della vita come tutti: separazioni, errori di valutazione, ma niente di gravissimo».
Federica Pellegrini le ha raccontato dei suoi problemi con gli attacchi di panico, e lei ha detto che – arrivato alla Juventus – prima di ogni partita vomitava l’anima: perché? Il problema qual era?
«Ansia da prestazione. Avevo 20 anni e mi avevano preso dal Como spendendo un sacco di soldi: 950 milioni di lire. Da me si aspettavano grandi cose e io pativo la pressione psicologica».
Come la superò?
«Con il training autogeno. Un professore nello spogliatoio mi fece fare esercizi per rilassarmi con la respirazione e la concentrazione. Superai il problema dopo una decina di partite».
Mancini le parla del suo rapporto tormentato con Bearzot e i Mondiali, quello che lui definisce “lo scherzo del destino": per lei qual è stato?
«Non l’ho avuta una cosa così. Roberto, invece, è stato sfortunato perché ha trovato me... Nel 1984 lui venne convocato per la prima volta in Nazionale per un’amichevole a New York. La sera prima della partita, dopo la cena, io e gli altri “vecchi” decidemmo di uscire, lui si aggregò, tornammo alle 5 del mattino e Bearzot scoprì tutto. A lui disse: “Mancini, lei con la Nazionale ha chiuso”. E così fu. Il Mister in realtà aspettava solo una sua telefonata di scuse, ma Mancini per orgoglio non lo chiamò mai. Vabbè, quella sera andammo anche a ballare allo Studio 54...».
E rimorchiaste?
«Diciamo che fu una serata di divertimento in giro per la città... Eravamo a New York, eravamo giovani».
A Mancini a un certo punto chiede se si è pentito di non aver fatto quella famosa telefonata: lei di cosa è pentito?
«Di aver lasciato male la Juventus. Ero deluso dalle discussioni con Boniperti e me ne andai più per ripicca che per altro. Oggi posso dire senza alcun dubbio che è stato il mio miglior presidente».
Il bilancio della seconda parte della sua vita professionale, quella da allenatore, com’è?
«È andata come doveva andare. Non sono mai stato un grande patteggiatore, quello è sicuro:
quando avevo le mie idee le esternavo ai dirigenti e ai presidenti e quindi con me c’è sempre stata una certa tensione. E poi anticipare i tempi è probabile che non aiuti».
A cosa si riferisce?
«Forse non dovevo lasciare la Nazionale e proseguire ad allenare l’Under 21, maturare un po’ di più e aspettare nuove opportunità».
Si è sempre dichiarato comunista: anche oggi?
«Certo. Sono sempre fedele a quelle idee anche se dirlo oggi sembra anacronista. Diciamo che sono sempre di sinistra, anche se oggi nessuno mi rappresenta».
Quindi alle ultime Politiche non ha votato?
«Non sono andato. Se la Meloni fa il bene del Paese, però, a me va bene lo stesso».
Con Berlusconi ha mai interagito?
«Sì. Anni fa lo contattai perché volevo organizzare un torneo di vecchie glorie. Lui mi disse: “Se viene da me le giro tutto il materiale che ho già preparato per un progetto simile al suo. Le devo dire però che non sta funzionando... Nessuno sponsor ci mette i soldi”. Ho lasciato perdere: se non funzionava con lui, figuriamoci con me».
È vero che sta per sposare a Pantelleria, dove ha una casa, la sua compagna Myrta Merlino (la giornalista napoletana ha appena lasciato La7 per Retequattro, ndr)?
«No. C’è una possibilità, ma ancora non è fissato niente».
Si dice che lei sia particolarmente geloso: a che livello? Scenate, pedinamenti, controlli del telefonino?
«Nooo... Sono tranquillo, non ammazzo nessuno. Però se uno vuol bene a una persona un po’ è geloso».
Ha detto di pregare solo quando le serve: quindi?
«Mi è capitato di farlo per qualche partita, quando avevo tanta voglia di vincere. Sarà che ho fatto il chierichetto, che mio padre era democristiano... Non so se ci credevo tanto, ma di sicuro cercavo qualcuno che mi desse una mano».
Da tempo dice che il calcio ha perso l’anima: amici veri ne ha in questo ambiente?
«Non si può andare d’accordo con tutti ma credo proprio di sì. Noi ragazzi della Nazionale dell’82 siamo molto uniti. Ci vogliamo bene».