il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2023
L’algoritmo che scrive gialli
“I romanzi che preferisco sono quelli che comunicano un senso di disagio fin dalla prima pagina”, diceva la Lettrice in una delle iterazioni di Se una notte d’inverno un viaggiatore. Non conosceva il particolare senso di disagio che deriva dalla lettura di un testo scritto da un’intelligenza artificiale. Disagio sfidante, in questo caso, perché questo romanzo è scritto bene, imparagonabile alla paccottiglia copiata e incollata da un algoritmo di cui sono pieni gli store digitali. Infatti è scritto “con l’IA”, non “dall’IA”: nascosto dietro lo pseudonimo macchinico Aidan Marchine c’è un autore umano, il canadese Stephen Marche, scrittore e critico del magazine The Atlantic. Parliamo di un giallo con vera trama e un vero colpevole. Si intitola Death of an author (“Morte di un autore”, al momento senza traduzione italiana) ed è uscito a maggio come ebook e audiolibro per la casa di produzione di podcast Pushkin Industries. Un romanzo breve da 20 mila parole di cui almeno il 95% (questa era la consegna dell’editore) è generato dall’IA.
Quando, nel 1962, Nanni Balestrini produsse la prima poesia con un preistorico computer Ibm il risultato fu essenzialmente parodistico. Tape Mark I suonava come una poesia ermetica, ma non era altro che una quarantina di parole ricombinate in sei strofe da sei versi, con significati che scaturivano per “serendipità”. Lì l’esercizio serviva a sgretolare le certezze della letteratura novecentesca, qui tenta di fondare una coerenza narrativa non umana.
Il critico letterario Augustus “Gus” Dupin (il detective improvvisato dei racconti di Edgar Allan Poe si chiamava Auguste Dupin) riceve un giorno l’invito al funerale della famosa scrittrice Peggy Firmin. Non la conosce di persona ma ha dedicato un saggio alle sue opere. Titolo: The purloined author, “l’autore rubato” come la Purloined Letter di Poe. Firmin (che ricorda Margaret Atwood) è stata trovata morta su un ponte alla periferia di Toronto. Un colpo di pistola alla testa, nessun testimone e l’arma del delitto non si trova. Il seguito è un caleidoscopio meta-narrativo in cui Gus sarà allo stesso tempo accusato e solutore del delitto, di pari passo con l’altra figura chiave dell’enigma: il miliardario Neil Gibson, metà Elon Musk e metà Bill Gates, che nasconde un misterioso progetto di intelligenza artificiale “generale”.
Il romanzo è il risultato del lavoro di tre diversi software. Astenersi dall’aprire ChatGpt e chiedergli di scrivere un giallo: “L’ultima cosa da fare se vuoi che un’IA imiti Raymond Chandler è chiederle di scrivere come Raymond Chandler”, spiega Marche nella postfazione. Oltre all’ammiraglia di OpenAI, sono in gioco anche Sudowrite e Cohere. Il processo di produzione è meticoloso. Si parte da un testo generato con ChatGpt, lo si trasforma in Sudowrite chiedendogli di renderlo “più attivo” o “più Hemingway”, infine si passa a Cohere per i ritocchi. I riferimenti, oltre al padre dell’hardboiled statunitense e a Poe vanno da Agatha Christie a Paul Auster, da Murakami a Gadda. Essendo esercizio più che opera, la chiave per l’interpretazione è fornita già nel titolo: Morte di un autore è una variazione del saggio di Roland Barthes del 1967 (La morte dell’autore). Quale migliore esempio per dimostrare che il testo è un tessuto di citazioni? Senza plagio, però, chiarisce Marche: “Ricostruire il linguaggio usando stili e idee esistenti in un nuovo lavoro è stato ed è il cuore del mestiere letterario”. E quale migliore esemplificazione dello “scriptor” di un autore che contribuisce solo per il 5% delle parole e per il resto impartisce comandi a un programma? L’IA ha realizzato la profezia dello strutturalismo? “La nascita del lettore dev’essere al costo della morte dell’autore”, si legge nel romanzo: citazione più da Gramsci che da Barthes. Le parti più riuscite sono gli inserti giornalistici: l’articolo che informa della morte di Firmin, l’intervista con un giornalista di Vice. Le similitudini non sono delle migliori: “L’odore del caffè era come il fumo di un campo bruciato”, “sentì una strana sensazione di comfort, come un cane accarezzato”, “si allontanò come un vinile rimesso nella custodia”. Il critico del New York Times Dwight Garner ha scritto che sembra di leggere Wikipedia: “Se questo romanzo avesse un odore sarebbe l’olezzo del retro di un televisore caldo”, citando Ian McEwan.
“Quando manca la prosa restano solo aspetti secondari”, scriveva Martin Amis nel 1998 prendendosela con i colleghi. Quel giudizio si può estendere alla scrittura artificiale. Almeno per il momento. Su Slate Laura Miller ricorda che “quella che viene tipicamente considerata la forma più bassa di realizzazione letteraria, la trama, è l’equivalente di camminare su un marciapiede affollato”, ci sembra facile solo perché ci viene naturale. Non è detto che gli algoritmi non ci arriveranno, ma per il momento Death of an author spaventa solo gli editori di testi “seriali” in cui l’autore è assente in partenza. L’esperimento di Marche dimostra che anche in letteratura è valido l’apologo dell’automa giocatore di scacchi di Benjamin: la macchina funziona solo se dentro c’è nascosto un “nano” esperto del gioco.