il Giornale, 18 giugno 2023
Il caso Tortora
L’errore giudiziario in Italia non è un peccato. Non si sconta e non si paga. Sono le quattro del mattino del 17 giugno 1983. I gendarmi bussano alla porta dell’ Hotel Plaza di Roma. Le carte che hanno in mano dicono che stanno cercando un trafficate di droga, legato a malaffare con la camorra. Il personaggio che arrestano ha il volto di un giornalista che non ha mai chiesto un favore a nessuno, che ha fatto della dignità la sua cifra umana. È uno di quelli che a costo di apparire presuntuoso non si lega a nessuna cordata. È difficile immaginarlo in qualche clan. La fantasia di un procuratore non si ferma però davanti a queste facili considerazioni. L’evidenza è tutta nella mente di chi guarda. Enzo Tortora è un presunto colpevole. Ecco l’uomo, da sbattere in prima pagina. Tutti, ma proprio tutti, lo conoscono come presentatore di Portobello. Cosa nasconde quel mercatino di piccole meraviglie? C’è sicuramente del marcio. La foto che gira sulla pubblica piazza è Tortora stralunato con le manette ai polsi. Non avrebbe mai potuto prevederlo. È lì che scopre come sia difficile, faticoso fino a macerarsi la carne e l’anima, dimostrare la propria innocenza. Il colpevole può avere una qualche via di uscita penale. È roba da avvocati. Se non hai fatto nulla rischi di ritrovarti spacciato.
Scrive trent’anni dopo Carlo Verdelli su Repubblica. «I due sostituti procuratori che a Napoli avviano l’impresa si chiamano Lucio Di Pietro, definito il Maradona del diritto, e Felice Di Persia. Sono loro a considerare Tortora la ciliegiona che da sola cambia l’immagine della torta, loro a convincere il giudice istruttore Giorgio Fontana ad avallare questo e gli altri 855 ordini di cattura, anche se incappano in 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (con l’appello, l’impalcatura accusatoria franerà un altro po’, con 114 assoluzioni su 191)». Tortora in primo grado verrà condannato a dieci anni di carcere. Il pubblico ministero Diego Marmo, con le bretelle rosse e la foga oratoria di chi non ha dubbi, ne parla come di un «uomo della notte ben diverso da come appariva a Portobello».
Tortora è libertario nell’anima e non è un caso che al suo fianco troverà Marco Pannella. La sua innocenza sarà una battaglia radicale. Il tribunale di appello lo assolve, ma le ferite fisiche e nell’anima lo porteranno alla morte. Tortora non sopravvive all’ingiustizia di cui è stato vittima. I suoi accusatori e i suoi giudici non chiederanno scusa. Solo un pentito, troppo tardi, riconosce la violenza umana. È Gianni Melluso, detto il bello, che in un’intervista chiede venia. «Lui non c’entrava nulla, di nulla, di nulla. L’ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l’unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie». Risposta di Gaia, la terzogenita: «Resti pure in piedi».
Nessun magistrato ha chiesto scusa. Nessuno ha pagato. I motivi sono tanti, corporativi e di cane non mangia cane. Ce n’è uno più sottile e ha a che fare con il senso del bene e del male. Qui la giustizia non è un fatto, un verdetto basato sulla legge. È un atto morale, una redenzione, una predica, una supplenza etica, un raddrizzare l’anima degli italiani, corrotti per abitudine, per furbizia, per degenerazione storica e politica. I magistrati allora si ritrovano a incarnare un ruolo quasi sacro, come casta di una religione civile. I pm e i giudici sono sacerdoti e chierici. Sono predicatori. È per questo che non possono peccare. Applicano la legge ma ne sono al di sopra.