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 2023  giugno 17 Sabato calendario

Intervista a Dante Ferretti


La prima domanda è la più scontata: «Signor Ferretti perché ha scelto di raccontarsi in un libro?». Risposta: «Non saprei, sa che cosa dovrebbe fare? Chiederlo a lui, vedrà che forse glielo dice». Flemma granitica, gusto per la freddura e poi una capacità speciale di prendere le distanze da se stesso, di guardarsi dal di fuori, come se osservasse qualcuno di cui conosce bene i pensieri. In fondo Dante Ferretti, nato a Macerata nel ’43 (due volte, come lui stesso racconta, dopo che la casa di famiglia era stata bombardata e lui estratto indenne dalle macerie) ha fatto questo tutta la vita, entrando e uscendo dalle menti fantasiose di registi straordinari, intuendone visioni e desideri e, allo stesso tempo, affermando i suoi in un modo che, dall’esterno, era etichettato puntualmente come magnifica collaborazione: «Ho fatto finta di capire – dice con il suo umorismo sornione -, li ho interpretati, ma anche loro, lavorando con me, hanno capito che non ero proprio un cretino e, certe volte, grazie a cose che gli ho detto, hanno fatto anche loro delle scoperte».
In mezzo a quei nomi celeberrimi, nella galleria di film premiatissimi e di traguardi scintillanti, Ferretti si è mosso con la disinvoltura del disincanto, senza farsi intimidire, stando attento a capire e poi andando oltre, di testa sua, magari anche con il piacere di una risata: «Sul set del Satyricon – ricorda – Fellini voleva, per un ambiente, una particolare tonalità di beige. Lo scenografo Luigi Scaccianoce continuava a mostrargli la paletta dei colori, nessun beige andava bene. Io ero lì accanto, a un certo punto vedo un pezzo di cartone per terra, glielo faccio vedere e Fellini subito “ecco, sì è questo"». Il regista non sapeva chi fosse lo sconosciuto che gli aveva appena risolto il problema e che, in seguito battezzò “Dantino”, inseguendolo per anni fino a stabilire un rapporto di lavoro continuativo: «Fellini era molto esigente, ma andammo subito d’accordo, anche se io, prima di lavorare con lui feci passare dieci anni. Sapevo che se avessi iniziato con lui e qualcosa fosse andato male, la mia carriera sarebbe stata rovinata». Poi è successo che Ferretti abbia firmato tutti gli ultimi film di Fellini: «Ci incontrammo di notte a Cinecittà, sotto un lampione. Mi disse “Dantino guarda che sono passati dieci anni, io sono pronto”. Risposi che ero pronto pure io».
Prima ancora c’era stato il sodalizio con Pier Paolo Pasolini che, per Dante Ferretti, resta l’incontro fondamentale, quello della svolta: «Con lui ho fatto il mio secondo film da assistente, poi l’aiuto e poi lo scenografo. Abbiamo lavorato insieme fino a Salò. Parlavamo poco, ma ci capivamo al volo, è andato sempre tutto bene, andavamo a fare i sopralluoghi insieme, decidevano come fare, davo i miei pareri e lui li accettava, mi ha lasciato sempre molto libero. Era una persona stupenda, ci siamo sempre dati del lei». Nel libro scritto con David Miliozzi Immaginare prima. Le mie due nascite, il cinema, gli Oscar (Jimenez Edizioni) Ferretti ricorda la scomparsa, la notizia arrivata mentre era al lavoro, a casa di Elio Petri, la corsa all’obitorio e il divieto di vedere il corpo dell’amico, l’avvocato di Pasolini che gli chiese di fare un disegno, una specie di pianta di dove era stato trovato: «Lo feci, malgrado il grande dolore». Nei racconti di Dante Ferretti scorre l’Italia, la vita di un Paese che ha avuto il cinema come grande narratore e che, ovunque nel mondo, si è affermato per i talenti dei suoi artisti e dei suoi artigiani. Per questo, a Hollywood, Ferretti è atterrato con il suo gusto per l’understatement, senza farsi accecare dalle luci del palcoscenico, con gli occhi e le orecchie ben aperti, tenendo a bada le paure, anzi, servendosene nel migliore dei modi: «La claustrofobia – racconta – è la mia assistente di scenografia. In molti dei miei film, in quasi tutti direi, l’ho trasfigurata».
Al fianco dello scenografo prediletto di Martin Scorsese («Abbiamo fatto nove film insieme, mi ha sempre lasciato fare quello che volevo, diceva sempre “great, great, great”, io ero molto contento») vincitore di 3 Oscar, per non parlare delle 11 nomination, dei 5 David di Donatello e di una serie infinita di altri riconoscimenti, c’è Francesca Lo Schiavo, compagna di vita e di lavoro, anche lei scenografa pluripremiata, conosciuta durante una festa in Sardegna e poi scoperta vicina di casa, nel quartiere romano dei Parioli: «Quando ci siamo incontrati Francesca faceva l’arredatrice d’interni, abbiamo iniziato a frequentarci, ma io ero sempre fuori per i miei impegni. A un certo punto mi ha detto che in quel modo non si poteva andare avanti, che voleva lavorare con me, io non ero d’accordo, alla fine ha vinto lei, con le donne va sempre così. È bravissima, eccezionale, dico sempre che lei si chiama Francesca Lo Schiavo e io sono “Dante Ferretti lo schiavo”. Alcuni fra i prossimi progetti di Ferretti sono fermi perché «in America c’è lo sciopero degli sceneggiatori e i produttori non si impegnano». Altri, come Verona, «un Romeo e Giulietta in forma di musical», è appena finito, mentre all’orizzonte c’è un film con Roland Joffe: «L’importante è che si fidino di te. Non ho niente di cui lamentarmi, mi è andata bene». Il segreto è uno solo, il più semplice che c’è: «La cosa importante è sbagliare, nella vita reale niente è perfetto, le scenografie senza sbagli sono finte, gli errori sono fondamentali». —