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 2023  giugno 17 Sabato calendario

Intervista a Bruno Ceretto

Nato nei luoghi di Cesare Pavese, è cresciuto tra le damigiane per poi rivoluzionare il mondo delle vigne. Ha portato Alba, il Barbaresco e il Barolo nel mondo e oggi vuole salvare il paesaggio delle Langhe
Aquale destino è consegnato un imprenditore di vini, famoso per aver costruito, insieme al fratello, un’azienda quasi dal nulla, portandola alla riconoscibilità internazionale? A 87 anni mi racconta la sua storia con grappoli maturi di parole, scaldati al sole e alle nebbie delle Langhe. È un uomo dotato di estrosa fantasia che rende lieve la tristezza della vecchiaia. Ha appena concluso un primo round con degli emissari vinicoli giunti da Bordeaux. È stata una partita sottile, dove si trattava di difendere la tradizione langarola senza apparire presuntuosi o, peggio ancora, asserragliati sul proprio territorio: «Vede, il vino è una delle esperienze più antiche. Dove il sacro e il profano convivono, come per lungo tempo hanno convissuto gli uomini e gli déi». Noto una certa tenacia e immaginazione in quello che dice e che fa. Ha predisposto un paio di sedie in quello che considera uno spazio spettacolare: una struttura trasparente a forma di cupola, da dove si può ammirare la grande vallata che precede Alba, ricca di vigne e di noccioleti.
È esattamente qui che si svolge la nostra conversazione.
Con questa costruzione voleva stupire i visitatori?
«Invecchio nella convinzione che la bellezza sia un antidoto alla morte. Se ci dobbiamo separare dalla vita – e questo è un fatto ineluttabile – è giusto secondo me farlo nel migliore dei modi. Comunque si voglia chiamare questa cupola, l’arte è il segno tangibile di ciò che l’uomo sarà in grado di ricordare».
È sempre stato così?
«All’inizio della mia lunga vita forse no. Avevo altre priorità».
Quando ha cominciato a occuparsi di vino?
«A 16 anni aiutavo mio padre, distribuendo vino sfuso. Le damigiane a spalla erano da consegnare alle famiglie contadine e alle osterie. Mi alzavo tutte le mattine alle quattro. Si lavorava anche di sabato e a volte perfino la domenica. Era un commercio faticoso, tranquillo, ma limitato».
Basato su quali vini?
«Dolcetto e Barbera. Vini del territorio. Papà gestiva con orgoglio la piccola impresa. Aveva cominciato come autista in un’azienda agricola. La famiglia, da parte di mia madre, gestiva una trattoria. Sono nato nel 1937 a Santo Stefano Belbo, il paese di Cesare Pavese».
Le piaceva occuparsi di vino?
«Non è che potessi scegliere. Mi adattai a quello che la terra offriva con i suoi vigneti. Che cosa avrei potuto fare di altro? Studiare, insegnare, scrivere?
C’erano gli esempi di Pavese e di Fenoglio che ho conosciuto bene. Ma erano stelle solitarie.
Eccezioni. La mia strada fu il vino. Lì, tra la desolazione e la speranza degli anni Cinquanta, scrissi il mio futuro insieme a mio fratello Marcello che si era nel frattempo diplomato enologo».
Che cosa esattamente stava cercando?
«Avevo notato che nella zona di Alba si cominciava a vendere vino in bottiglia. Ognuna costava circa 300 lire. L’idea era di impiantare un commercio più lineare e personalizzato. Da svolgere con minore fatica e con profitti superiori. Presentai il progetto a mio padre e lì capii che le persone si dividono tra chisi lega mani e piedi solo al passato e coloro, ma sono pochi, che sanno guardare al futuro».
Suo padre era prigioniero del passato?
«Interamente. Grande persona, ma con lo sguardo rivolto esclusivamente indietro. Non comprese nulla di quel progetto. Ma lo capisco. Era fuori dai suoi schemi mentali. Insistetti, implorai, minacciai di andarmene. Fu più sbrigativo. Mi licenziò in tronco.
Con mio fratello decidemmo di metterci in proprio, provando a trasformare il commercio delle damigiane in quello delle bottiglie. All’inizio fu un disastro. Non riuscimmo a vendere quasi niente. Mi chiedevo dove avessimo sbagliato. E la sera tornavo a casa disperato. Fu anche quella una lezione».
Cosa le insegnò?
«Pensai che non era solo mio padre incatenato al mondo di ieri, ma che in qualche modo lo siamo un po’ tutti. Tutti noi agiamo secondo schemi prevedibili: siamo inclini a fare solo quello che abbiamo sempre fatto. Siamo malati di abitudine.
Spezzare le catene della consuetudine non è facile.
Fu a quel punto che mi venne l’idea del “prezioso”».
Cioè?
«Mi dissi: c’è un solo modo per scuotere l’indifferenza delle persone, offrirgli qualcosa che non hanno ma che desidererebbero avere».
Il principio della pubblicità.
«Oggi è un’applicazione scontata. Ma nel Piemonte degli anni Cinquanta le assicuro non era così. Ed ecco allora la storia del “prezioso”. Nelle nostre terre si beveva soprattutto Dolcetto. Compravamo le uve da un’azienda che si chiamava Rossana. Mi dissi: perché al cliente oltre a vendergli le bottiglie di Dolcetto non gli dico che c’è una produzione limitatissima di “Rossana” e che se lo desidera posso dargliene una confezione di 12 bottiglie? Alla fine la richiesta del “Rossana” bilanciava quella del semplice Dolcetto. La storia del “Prezioso” l’ho applicata al Barolo e al Barbaresco. Con esiti altrettanto soddisfacenti».
Qual è il confine tra l’immaginario e la realtà?
«Mi fa una domanda alla quale dovrebbe rispondere un sociologo o magari un filosofo. Io ragiono un po’ come gli artisti che amo: la realtà la creano. È chiaro che un buon artista non bara. Così è per me.
L’immaginario deve avere contenuti all’altezza di quello che offri. Altrimenti stai solo raggirando chi ti ha dato fiducia».
C’è una filosofia dietro il vino?
«C’è o ci dovrebbe essere una saggezza millenaria, senza per questo rinunciare all’innovazione. Come le dicevo sono nato qui nelle Langhe: terra dura, aspra, bellissima e generosa se si sa rispettare».
Cosa vuol dire essere un langarolo?
«Siamo gente tenace, furba, fantasiosa. Concreta.
Quando ho cominciato a lavorare eravamo 4 miliardi sul pianeta. Oggi siamo all’incirca otto. La torta è sempre quella ma le bocche sono raddoppiate. E questo pesa sull’equilibrio ecologico. Pesano le complicazioni climatiche, pesano le scelte globalizzanti. Per restare alle cose di cui mi occupo: il vino c’è ma ce ne è sempre meno in proporzione».
E allora?
«Allora occorre coniugare il profitto sano con il rispetto della terra e delle persone che ci lavorano.
Tutti mi considerano l’uomo del vino. Ma io sono prima di tutto un uomo delle Langhe. Per sessant’anni ho girato il mondo, ma non ho mai pensato neppure lontanamente di poter andare via da qui, strappare le mie radici e trasferirmi definitivamente altrove. E non certo per timore che la nostalgia prima o poi mi avrebbe divorato, quantoper il fatto che alla fine quello che so fare meglio non può prescindere dalla mia biografia, e non solo per una questione affettiva, ma anche perché mi ha consentito di conoscere i pregi e difetti di noi langaroli».
Che difetti avete?
«Come le ho detto siamo fantasiosi ma anche amanti del rischio e dell’azzardo. Quarant’anni fa qui, ad Alba e nei dintorni, c’erano più bische che chiese.
Siamo gente che si confronta con il vicino da una finestra chiusa, mai affacciandosi sul balcone.
Spiamo le mosse dell’altro da dietro un vetro per capire cosa sta facendo, quali carte giocherà».
L’azzardo evoca dissipazione e ricchezza. A lei cosa viene in mente?
«Il rischio fa parte delle regole del gioco. Ma devi giocare correttamente. Fin dagli anni Sessanta ho pensato che uno degli obiettivi fosse avere un posto a tavola con i francesi. Loro hanno il mercato e non fanno entrare nessun altro. Ma il Barbaresco e il Barolo sono così importanti che sarebbe stato complicato tenerci fuori. Questo è il posto a tavola.
Noi delle Langhe ce lo siamo guadagnato, con il lavoro, la cultura e l’arte».
A proposito di cultura e arte accennava alla sua amicizia con Beppe Fenoglio.
Quest’anno cade il centenario della sua nascita. Albalo ha celebrato. Ricordo quest’uomo dalla faccia che sembrava un paesaggio squadrato, con un bel promontorio che era il suo naso. Era appassionato di calcio, impiegato in un’azienda vinicola e frequentatore del bar Savona. Lo trovavo a discutere in mezzo ad altri intellettuali».
Chi?
«Ricordo don Natale Bussi e poi Pietro Chiodi, professore di filosofia al liceo. A Chiodi piaceva il biliardo ma non era bravo. Si giocava cento lire a partita. Era come sfilare i soldi a un bambino».
Vi parlava dei suoi studi?
«Ci confessava i suoi tormenti. Era innamorato di una parrucchiera, una donna bellissima. Lui sempre con pochi soldi. Lei volitiva, sveglia, ricca. Poi il Chiodi andò via da Alba, a insegnare a Torino. E un giorno passando davanti alla gelateria Florio, sentii uno che gridava “Alba!”. Era lui, mi raccontò delle sue tristezze e alla fine commosso mi disse: quando torni ad Alba porta i miei saluti e i miei abbracci all’estetica. Intendeva la parrucchiera che era ancora lì nel suo cuore».
Ad Alba oltre Fenoglio e Chiodi c’era Pinot Gallizio.
«Uno che ha sempre camminato controvento. Era di una simpatia travolgente. Insegnava erboristeria alla scuola enologica. Poi scoprimmo che la sua veraattività era fare l’artista. Dipingeva quadri e rotoli.
Forsennatamente. Non ci capivo niente ma sentivo che c’era del genio».
Gallizio fu molto apprezzato da Guy Debord il quale venne ad Alba per fondare l’Internazionale situazionista.
«Non ne so molto. Ma per quello che posso ricordare è che a un certo punto Alba si popolò di personaggi che venivano un po’ da tutta Europa e dall’Italia, a discutere cosa volesse dire fare arte. Quell’anno, mi pare fosse a cavallo tra il 1956 e il ‘57 arrivò da Albissola il pittore danese Asger Jorn. Un artista che dipingeva sulle ceramiche. Era la vigilia di Natale e vidi quest’uomo con le scarpe da tennis e senza calze. Il nostro ritrovo era dal barbiere e siccome Jorn non sapeva dove andare fu ospitato nel locale.
Da allora Bruno Santi, il barbiere, cominciò a fare i capelli alla situazionista, con una specie di ondulato sulla nuca. Poi chiuse l’azienda e si mise anche lui a fare l’artista».
Una storia da romanzo.
«Scappò lasciando moglie e figli, andò a vivere a Cuneo con una e si mise a fare il pittore. Un giorno mi chiamò chiedendomi in prestito 200 mila lire. Mi stava simpatico e gliele diedi. Quindici anni dopo gli dissi: Bruno, il debito! E lui: hai ragione. Comprò due metri di legno leggero, i colori e realizzò unpaesaggio delle Langhe. Gli chiesi se avesse dipinto dei vigneti. “No, no. Sono delle piante di fagioli.
Perché tu sei stato un vero fagiolo a prestarmi quei soldi”. Ho conservato quel paesaggio. Perché a suo modo è bello e mi fa pensare che la bellezza oggi sia un valore da difendere».
In che modo?
«Non so quanto ancora posso vivere. Ho 87 anni e lotto contro un cancro. Ma tutto accade serenamente perché ho capito che donare è più importante del ricevere. Ho avuto molto dalla vita.
Ma cosa voglio lasciare a coloro che verranno dopo? Mia moglie è morta cinque anni fa. In una sera di disperazione le chiesi cosa avrei fatto senza di lei.
Rispose: mettiti dall’altra parte, aiuta quanto e più che puoi chi ha bisogno. Ecco, farlo senza clamori.
Quanto alla bellezza, vede questa vallata? Con mio fratello abbiamo deciso di vincolarla paesaggisticamente. Nessuno potrà costruirci. È un piccolo gesto con un enorme valore simbolico. Ci siamo affidati ad artisti come David Tremlett, Sol Lewitt, Francesco Clemente. C’è un progetto con Anselm Kiefer, per il prossimo anno. Non so se la bellezza salverà il mondo, ma certamente può renderlo un po’ migliore di quello che è».