Robinson, 17 giugno 2023
Rileggere Mario La Cava
Amico di Sciascia con il quale ebbe un’intensa corrispondenza, lui più vecchio di un decennio, ha trasformato il suo paese, Bovalino, nel microcosmo dove ambientare le storie. Asciutte ed essenziali
«Seguo da anni la Sua attività e sempre ho letto le Sue cose con grandissimo gusto», scrive Leonardo Sciascia a Mario La Cava in una lettera datata 3 maggio 1951, dalla sua casa di Racalmuto. Lo scrittore siciliano ha compiuto trent’anni da poco, mentre il destinatario ne ha quarantatré, la distanza anagrafica fa sì che il tono dell’approccio, e di tutta un’intensa corrispondenza a seguire di cui queste parole sono l’inizio, resti sempre velato di quel rispetto che si porta ai maestri, pure quando l’altezza dei più giovani porta a un naturale parlarsi alla pari. L’epistolario è raccolto in un volume edito da Rubbettino, intitolato Lettere dal centro del mondo – espressione curiosa per due intellettuali che hanno scritto, pensato, lavorato dal margine, uno dalla Calabria e l’altro dalla Sicilia, da due paesi piccoli resi grandi perché grande era l’immaginario di quelle opere. Il centro del mondo di uno scrittore è la propria ispirazione, il cuore scenografico della scrittura, il paesaggio cui si torna: l’equivalente della Racalmuto di Leonardo Sciascia era, per Mario La Cava, un paese in provincia di Reggio Calabria, Bovalino, dove lo scrittore calabrese era nato nel 1908, tre mesi prima che il terremoto più rovinoso d’Europa distruggesse le città dello Stretto cambiando profilo, storia e destino alle due coste. All’ombra di quella Reggio rasa al suolo, La Cava visse la sua infanzia, figlio di un insegnante e di una casalinga, respirando già dentro casa, nell’ambiente familiare, uno spiccato amore per la narrazione, e a Bovalino visse tutta la vita, tranne che per gli studi universitari, prima a Roma e poi a Siena dove si laureò in giurisprudenza. La scelta di tornare per vivere e scrivere dal ritiro natio funzionò come scavo di quel terremoto originario e come lente d’ingrandimento di un costume non solo meridionale ma italiano: la vita di provincia e il mondo contadino diventarono oggetto di una letteratura concentrata in una forma breve fulminea e profonda. Era stata proprio quell’asciuttezza a colpire Sciascia, che scoprì Mario La Cava a metà degli anni Trenta, suL’italiano, la rivista storico-letteraria di Leo Longanesi e nel 1987 scrisse: «Le cose di La Cava costituivano per me esempio e modello del come scrivere: della semplicità, essenzialità e rapidità a cui aspiravo». La Cava sarebbe morto l’anno dopo, Sciascia due anni dopo: quelle parole restano come una testimonianza viva di quanto forte possa essere una stima che passò anche dall’affetto: «Sappi che un tuo successo mi sembrerebbe sempre come se fosse mio», scrisse Mario a Leonardo il 18 novembre 1953. Di successi ne ebbero entrambi, anche se per La Cava, nonostante la stima della critica e un certo numero di lettori, ci furono più difficoltà, ma il premio Sila nel 1975 per I fatti di Casignana e il premio Rhegium Julii per l’intera opera furono due fari. Nel 1983 Luigi Comencini trasse un film da un racconto, Il matrimonio di Caterina, che La Cava aveva scritto cinquant’anni prima, segnale di uno sguardo retrospettivo che può sempre riscattare anni di difficoltà editoriali.
Nella sua produzione letteraria Mario La Cava alterna momenti di maggiore visibilità ad anni più bui, libri di successo ad altri rifiutati o accolti tiepidamente, testi usciti con piccoli editori a quelli pubblicati con Einaudi, come Le memorie del vecchio maresciallo ( 1958),Una storia d’amore ( 1973) eI fatti di Casignana ( 1974). Non solo la sua bio- bibliografia ha avuto visibilità a intermittenza, ma anche la sua riscoperta, che molto deve a pubblicazioni postume e a un caffè letterario che porta il suo nome proprio nella sua Bovalino, dove ogni anno si tiene anche un premio a lui dedicato, forse anche per incoraggiare gli scrittori nelle loro alterne fortune. Quando, nel 1939, Le Monnier pubblicò per la prima voltaI caratteri, il suo esordio aforistico ( poi ripreso da Einaudi nel 1953 e nel 1980 e da Donzelli nel 1999), il libro si impose nella sua singolarità come una ben strana creatura, una Spoon River di provincia che resuscitava figure leggendarie e archetipiche con malinconia, spietatezza, umorismo e disinvolta ferocia (anni dopo, Gesualdo Bufalino avrebbe fatto qualcosa di simile dedicando Museo d’ombre ai personaggi scomparsi della sua Comiso). A quel primo libro seguirono molti altri che esploravano generi diversi, fino all’ultimo, uscito postumo l’anno scorso per l’editore Castelvecchi, intitolatoL’amica. Rimasto inedito per quasi cinquant’anni, viene pubblicato grazie a quella memoria tenace portata avanti dagli eredi. Per i lettori di oggi arriva così la possibilità di godere di un vivo spaccato di decadenza morale in epoca fascista, di un intreccio di malizie, pettegolezzi e prevaricazioni scatenato dall’arrivo di una coppia dal Nord Italia. Il paesino calabrese che fa da scenario all’opera lacaviana si fa ancora una volta microcosmo e quando, nel finale, la protagonista Giuditta si alza da tavola lasciando il piatto vuoto, nella sua risposta laconica, «Non ho appetito», sentiamo la forza di tutti i veleni respirati nel romanzo. Gli altri, seduti a tavola allegramente, banchettano. E in questa immagine iconica troviamo il senso di quel Sud raccontato da certi autori del Novecento che guardandosi intorno non hanno trovato che esclusi o escluse, un po’ forse vi si sono identificati e di loro hanno voluto parlare.