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 2023  giugno 17 Sabato calendario

Tarzan impara dalle scimmie, Mowgli dai lupi, Sandokan, dalla natura I classici raccontano strategie per sopravvivere


Vivere è sempre sopravvivere. La definizione della vita di Beda il Venerabile – il volo di una rondine attraverso la sala illuminata di un banchetto, dalla notte scura all’esterno alla notte scura all’esterno – sottolinea la brevità dell’esistenza, ma non la sua vulnerabilità. Kafka si spingeva oltre: «Mio nonno soleva dire: “La vita è straordinariamente corta. Ora, nel ricordo, mi si contrae a tal punto che, per esempio, non riesco quasi a comprendere come un giovane possa decidersi ad andare a cavallo sino al prossimo villaggio senza temere ( prescindendo da una disgrazia) che perfino lo spazio di tempo, in cui si svolge felicemente e comunemente una vita, possa bastar anche lontanamente a una simile cavalcata”». Il tempo per sopravvivere al periglioso viaggio.
Alcune delle storie più antiche dell’umanità sono storie di sopravvivenza, come l’Odissea. Le avventure di Ulisse non sono nient’altro che il resoconto di una sopravvivenza contro le avversità che l’adirato dio del mare poneva sulla sua strada, nelle forme aggraziate della ninfa Calipso o nei canti invitanti delle sirene. Per sopravvivere e raggiungere Itaca, Ulisse deve ricorrere a innumerevoli strategie, assistito dalla dea che lo ama, Atena; gli ebrei nel deserto furono aiutati dal loro Dio, che fece piovere manna sul popolo eletto. Noi pensiamo di sopravvivere grazie alle nostre capacità, ma sono gli dei che scelgono di salvarci o di condannarci. Gli agnostici la chiamano sorte.
La sorte (o gli dei) ci condannano, come nel caso di Giona, che il suo Dio decide di scagliare nell’oceano e far inghiottire da una balena, o ci salvano, come nel caso di Robinson Crusoe, che è convinto, quando apre la Bibbia scampata al naufragio per capire cosa lo aspetta, che l’amore di Cristo lo salverà dalla sua isola maledetta. Il Geppetto di Pinocchio sceglie il metodo di Giona; i ragazzini diDue anni di vacanze di Jules Verne e quelli del Signore delle mosche di William Golding scelsero, con meno successo, i metodi di Robinson. I naufragi sono emblematici delle disgrazie paventate dal nonno di Kafka; i metodi di sopravvivenza sono incredibilmente vari.
Il mare è un’antica immagine dei pericoli del nostro viaggio attraverso l’esistenza, ma la terra può essere ugualmente insidiosa. La “selva” (come la foresta colombiana in cui è precipitato l’aeroplano dei quattro bambini), è sempre, come quella di Dante, «selvaggia e aspra e forte», e che si tratti di Mowgli, di Tarzan o del valoroso Sandokan, tutti quelli che vi si smarriscono devono imparare a sopravvivere al suo labirinto. Tarzan impara dalle scimmie, Mowgli dai lupi, Sandokan, come un animale selvatico, dalla natura stessa. Anche quando è ferito e febbricitante, riesce a sopravvivere nella “selva” perché sa come individuare le radici e i frutti giusti. Allo stesso modo sono riusciti a sopravvivere nella giungla quattro giovani membri della tribù huitoto, mangiando fariña ( farina di cassava) e usando la loro conoscenza dei frutti della foresta pluviale. «La giungla li ha salvati», ha detto un funzionario locale. «Sono figli della giungla».
All’inizio del XII secolo, nell’Andalusia araba, nonostante le restrizioni imposte dal regime degli almohadi, comparve una di quelle figure onnicomprensive che caratterizzano l’universo intellettuale dell’epoca. Abu Bakr Muhammed ibn ‘Abd al-Malik Ibn Tufayl al- Qasi, passato alla storia più succintamente come Ibn Tufayl, era un medico, teologo e filosofo che serviva alla corte del califfo almohade di Marrakech. La sua opera più celebrata è un romanzo, L’epistola di Hayy ibn Yaqzan sui segreti della saggezza orientale, nota in Occidente come Il filosofo autodidatta. Il libro, una sorta di antesignano magico di Robinson Crusoe, racconta la storia di un neonato che deve sopravvivere senza nessun contatto umano su una remota isola boscosa. In questa favola, ibn Tufayl, seguendo gli insegnamenti dl al-Ghazali e di Avicenna, illustrava la visione mistica sufita del mondo in un dialogo con il razionalismo aristotelico. Il libro ebbe un’enorme influenza. Fu letto da Pico della Mirandola, Spinoza, Leibniz, Lessing, Gracián e molti altri, che si trovarono in sintonia con la sua difesa della ragione naturale e il simultaneo riconoscimento dell’importanza fondamentale della fede.
Il “figlio della giungla” nel Filosofo autodidatta è Hayy ibn Yaqzan, un nome preso esplicitamente da Avicenna. Hayy nasce in un mondo selvaggio in cui deve sopravvivere attraverso la ragione e il sentimento naturale. Da piccolissimo, viene allattato da una gazzella e impara a comportarsi imitando il mondo naturale intorno a lui: gli altri animali, gli alberi e le piante, le rocce, le stelle. Per Hayy, se letto nel modo giusto, l’universo è un libro e l’isola diventa la sua biblioteca, un luogo di apprendimento definito dalla sua naturale curiosità e intelligenza. Più tardi, nella vita adulta e dopo aver avuto un’esperienza mistica autodidatta «impossibile da descrivere a parole», Hayy incontra un altro essere umano, Absal, un uomo alla ricerca dell’illuminazione che vive su un’altra isola lì vicino, dove è diventato un eremita intento a scavare nelle profondità della sua anima. Absal ha sentito del filosofo autodidatta e parte per incontrarlo. Come Crusoe con Venerdì, insegna a Hayy il linguaggio umano e l’uso dei libri e Hayy scopre che la sua illuminazione è simile a quella che Absal ha trovato nella sua biblioteca. La ragione e la grazia divina possono essere anche strumenti di sopravvivenza nella “selva”.
Nel 1972 Margaret Atwood pubblicò una guida per definire la cultura canadese, in cui identificava come componente fondamentale l’impulso canadese alla sopravvivenza. «Ciò di cui ha bisogno una persona che si è persa è una mappa del territorio», scriveva, «dove sia segnata la sua posizione, in modo che possa vedere dove si trova rispetto a tutto il resto. La letteratura non è solo uno specchio: è anche una mappa, una geografia della mente». Specchio e mappa, la letteratura ci restituisce la nostra condizione eternamente fragile e suggerisce strategie per superare gli ostacoli fino a raggiungere il nostro capitolo finale.
Eppure rimane sempre, una volta raggiunta la sopravvivenza, un interrogativo su chi eravamo un tempo nella “selva oscura”, prima della salvezza. Borges conclude una poesia su Alexander Selkirk, il marinaio naufragato su un’isola che ispirò Daniel Defoe a creare il suo Robinson Crusoe. La poesia si conclude così: Dios me ha devuelto al mundo de los hombres, a espejos, puertas, números y nombres, y ya no soy aquel que eternamente miraba el mar y su profunda estepa ¿y cómo haré para que ese otro sepa que estoy aquí, salvado, entre mi gente? (Dio mi ha ridato alla realtà degli uomini, a specchi, porte, nomi, cifre e adesso non sono più colui che eternamente guardava il mare e la sua fonda steppa. Ma come fare che anche l’altro sappia che sono qui, tra la mia gente, salvo?). (Traduzione di Fabio Galimberti)