la Repubblica, 16 giugno 2023
L’arte tutt’italiana di trasformare i vizi in virtù
Resterà nella storia del costume (prima ancora che della politica) l’omaggio dello Stato italiano a un uomo che con lo Stato e le sue leggi non ha avuto un rapporto esemplare. Come se i funerali di Silvio Berlusconi rappresentassero la continuità di un tratto di lunga durata della nostra storia nazionale: ritenere, cioè, statisti coloro che hanno mercanteggiato con le istituzioni; ritenere padri della patria coloro che ne hanno favorito i nemici interni; ritenere stupidi e perdenti gli italiani che si lasciano sfuggire l’opportunità per migliorare la propria posizione solo perché temono di andare contro la legge e nuocere al bene comune. E resterà scolpita nella storia della Chiesa italiana l’omelia del cardinale di Milano, l’omaggio umano a un grande peccatore, a un potente dei nostri tempi, quasi a legittimare il convincimento che non si può servire la religione cristiana senza tradirne i suoi principi. Una specie di inno alla simpatia amorale, fino al punto di ignorare completamente la concezione mercantile del corpo femminile ammantata da amore per bellezza.
Più volte accadimenti importanti della nostra vicenda unitaria ci hanno costretto a porci una domanda assillante: in che nazione viviamo? Quale idea di Stato noi italiani abbiamo in testa? Quale idea di etica personale e collettiva perseguiamo? A quale idea di fede religiosa ci ispiriamo?
Nei giorni scorsi abbiamo assistito a qualcosa di ancora più inquietante: non solo la trasfigurazione in virtù di alcuni dei vizi nazionali, ma la pretesa di venerarli urbi et orbi come un dato assodato, come un’acquisizione storica definitiva su cui non si ammettono dubbi e deroghe. Mai nella nostra storia si è arrivati così vicini a pretendere che la vicenda complessa di un uomo di successo (piena di tanti lati oscuri) si identificasse come una seconda pelle degli italiani e diventasse un dogma, cioè come qualcosa in cui credere oltre ogni evidente inverosimiglianza. La santificazione laica di Berlusconi, la trasformazione di una vita opaca in una vita immacolata, rappresenta il primo dogma della nuova religione politica del Paese.
Se si arriva a considerare padre della patria uno come Silvio Berlusconi, che patria è la nostra? E se è considerato un grande statista chi ha assunto un mafioso per proteggere la sua famiglia e le sue aziende, in che Stato viviamo? E che religione pratichiamo se non solo, com’è giusto, proviamo a comprendere le debolezze umane dei peccatori ma in morte li liberiamo da ogni responsabilità per gli atti (privati e pubblici) compiuti in vita, mentre si pretende che facciano abiura tutti quelli che lo hanno avversato in nome di altri principi e valori?
Berlusconi ha scritto sicuramentela storia della televisioneitaliana, ma la storia politica e civile dell’Italia non la si può scrivere, certo, tramite i mezzi televisivi. Sono stati i suoi funerali e il lutto proclamato per tre giorni la prima santificazione politica della vita repubblicana a reti unificate e il primo tentativo di (ri) scrivere la storia per via televisiva.
Forse ciò che è accad uto in questi giorni ci darà la possibilità di comprendere meglio perché alcuni fenomeni che ci accompagnano fin dalla nascita dell’Italia (come le mafie) sono ancora lì, mai sconfitti, mai fino in fondo combattuti. E soprattutto ci fornirà elementi preziosi per comprendere come si può forgiare la storia in una democrazia attraverso il controllo semi- monopolistico dell’informazione, come si può pensare di sbianchettare ogni atto, azione, vicenda che oscuri la figura salvifica di un personaggio così discutibile e discusso. Gli sono state concesse non solo cose a nessun altro politico permesse, ma addirittura si è proclamato quasi un editto a non discuterne la funzione storica positiva a prescindere, direbbe Totò.
Hannah Arendt ha scritto che è tipico dei sistemi che si avviano sulla china di concezioni totalitarie introdurre «la menzogna coerente» come mezzo per salvaguardare il proprio mondo fittizio. Abbiamo assistito in questi giorni a uno dei casi più clamorosi e più premonitori di ciò che ci aspetta se non si reagisce adeguatamente.
Se si vuole fare un confronto con un altro momento della nostra storia, dobbiamo riferirci alle vicende che hanno riguardato Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio dei ministri, il democristiano più influente del secondo dopoguerra assieme ad Alcide De Gasperi e ad Aldo Moro, che è stato ritenuto in rapporti con Cosa nostra fino al 1980, secondo una sentenza definitiva di un tribunale italiano.
Anche la sua morte e i suoi funerali furono caratterizzati da elogi sperticati e polemiche feroci ma senza nessun tentativo di manipolazione dei fatti, nel modo in cui si è provato a fare con Silvio Berlusconi, e senza un timore da parte delle opposizioni di venire meno ai doveri di pietà umana segnalandone il ruolo di cerniera con l’universo mafioso e altre tragiche vicende nazionali. Ma, si dirà, Andreotti fu comunque segnato dalla vicenda giudiziaria e, se pure fu accreditata la tesi falsa di una sua assoluzione, per il “divo” gli atti giudiziari sono stati inequivocabili: fino al 1980 fu in relazioni con i mafiosi siciliani.
Insomma, due capi di governo nella nostra storia repubblicana sono stati segnati anche dal rapporto con la mafia. E a dirlo non sono state solo le opposizioni. Berlusconi viene definito «mafioso» da Umberto Bossi. Sul giornale della Lega Nord, la Padania, il 30 giugno 1998, comparve una copertina che raffigurava insieme i principali boss di Cosa nostra con Berlusconi, Dell’Utri e Andreotti, con un titolo molto significativo, Baciamo le mani. Insomma, Bossi definì mafioso colui che era stato e sarà poi suo principale alleato fino ai giorni nostri. Una cosa del genere non si era mai verificata nella storia politica dell’Italia repubblicana, cioè l’accusa a un alleato di governo di aver costruito la sua fortuna economica e politica con il sostegno della mafia, e dopo queste accuse pesantissime, tornare a governare insieme.
Ma anche questa è l’Italia: l’ostentato garantismo di chi nel passato ha definito mafioso Berlusconi senza la pronuncia di una sentenza della magistratura. Un garantismo del tutto particolare e originale: si diffida fortemente dei magistrati ma si ritiene che ogni assoluzione di un tribunale sia di per sé un attestato a vita di pulizia e onestà, un lasciapassare per la storia. Ma neanche le sentenze dei magistrati scrivono la storia, e nel caso di Berlusconi sono tanti e tali i fatti da analizzare prima di farne un nuovo Cavour.
L’unica fonte di dolore è la memoria, scriveva Roberto Bolaño. Perciò gli italiani sono meno infelici di altri popoli.