la Repubblica, 16 giugno 2023
I rischi della destra dopo Berlusconi
Le esequie milanesi di Silvio Berlusconi sono state solenni, imponenti, eccessive, così del resto è stata l’intera sua vita eccessiva, appunto. Dal punto di vista cerimoniale erano forse dovute, quel di più di enfasi, nello svolgimento e nei resoconti, gli ha aggiunto però un evidente significato politico, si può temere che qui comincino i problemi.
De mortuis nihil nisi bonum, dettava un antico precetto, è giusto che sia così. La morte estingue i reati ma anche i motivi di contrarietà, perfino i risentimenti. L’uomo pubblico però conosce anche la dimensione della storia. Per un primo giudizio che possibilmente regga al peso del tempo, non è necessario aspettare i posteri.
Silvio Berlusconi è stato fallimentare come politico. S’era presentato con un progetto di rivoluzione liberale per togliere finalmente gessi e stampelle ad un paese appesantito da procedure vecchie, inutilmente complicate, studiate, in buona fede, per evitare le ribalderie dei disonesti diventate invece solo un impaccio per gli onesti. Concessioni, licenze, vincoli, procedure, penali e civili, che ritardano la funzione della giustizia, scoraggiano addirittura dal ricorrervi favorendo il ricorso a “giustizie” alternative, spesso illecite, quando non portano alla rassegnazione di subire un torto pur di non sottostare a quei balzelli. Quella rivoluzione non l’ha mai nemmeno tentata, la sua attenzione è stata tutta per sé stesso e per le sue aziende.
I veri, profondi affetti sono stati i figli, le aziende, alcuni amici. Era evidente che la politica non lo interessava; si può capire perché senza un’ideologia, senza un vero progetto riformatore, la politica può sembrare un’attività dispersiva, lenta, complicata, una perdita di tempo. Lui era un uomo d’azione, decideva e faceva rivolgendosi direttamente al popolo, senza mediazioni, violando le regole, comprando qualcuno quando era necessario, illudendo i semplici con promesse illusorie: un milione di posti di lavoro, meno tasse per tutti. Prospettive così chiaramente irrealizzabili da risultare affascinanti come le fiabe per un bambino – così ha fatto nascere il populismo. Sorrisi, simpatia, velocità, ottimismo, ognuno di voi ha il sole in tasca e in quella tasca lo Stato non deve mettere le mani. In un paese dove l’evasione fiscale raggiunge cifre spaventose (90 miliardi la cifra divulgata) l’invito racchiuso in quel disprezzo ledeva una delle funzioni primarie della collettività, giustificava furbizie e inganni, indeboliva lo Stato.
Di fatto, non ha mai considerato l’esistenza di quell’entità astratta che si chiama Stato e ciò che ne deriva: le istituzioni, gli organismi di garanzia della convivenza. Al contrario, dello Stato ha attaccato tutte le articolazioni: magistratura, parlamento, rappresentanti della politica «che non hanno mai lavorato», gli avversari «poveri coglioni». Una disinvoltura nella quale rientravano atteggiamenti spesso indecenti, trascurabili in un cittadino qualunque, riprovevoli in un rappresentante delle istituzioni tenuto, a norma di Costituzione, a comportarsi con “disciplina e onore”.
Ci sono ombre pesanti sul modo in cui ha messo insieme il capitale iniziale, è chiaro che non verranno mai dissipate ma credo che non abbia più molta importanza, ogni grande fortuna ha quasi di necessità e ovunque origini discutibili. I cattivi risultati pesano storicamente più delle oscure premesse.
È stato per contro un imprenditore brillante, con punte di genialità, la cura maniacale dei dettagli lo ha portato a far attaccare con fili invisibili i limoni alle piante (G8, Genova 2001) ma anche a costruire una città modello come Milano 2. Ha rotto, con l’aiuto ‘interessato’ della politica, il monopolio della Rai. L’avvento della tv commerciale ha dato lavoro, favorito innovazioni, è stata «una risorsa per il paese» (Massimo D’Alema), un acceleratore dei consumi e dell’economia ma ha comportato anche un inevitabile scadimento culturale. La vecchia Rai monopolista aveva avviato un processo educativo senza precedenti; in primo luogo, insegnando a milioni a parlare italiano. La concorrenza che migliora prezzi e merci, spinge verso una cioccolata o un detersivo migliori, nell’attività culturale impone prodotti più allegri, meno impegnati, più scadenti. Vecchia regola già nota agli imperatori romani che quando dovevano placare il popolo lo distraevano con elargizioni di frumento e giochi del circo.
Ha sicuramente innovato il linguaggio politico sfruttando il suo geniale istinto di comunicatore; di colpo il gergo parlamentare è diventato vecchio, intollerabile soprattutto: perdente. Contemporaneamente però ha anche abolito le forme, spinto verso l’epiteto oltraggioso, la frase calunniosa ottenuta isolando una frase, una parola dal contesto.
Le esequie hanno dimostrato che la presidente Meloni è candidata a raccogliere la sua controversa eredità. Sembra pronta, se possiamo giudicare dall’aver definito le tasse un «pizzo di Stato». Se la cerimonia milanese aveva lo scopo di consacrare un padre della patria, lei ne è la figlia legittima. Le si aprono due strade: puntare verso un partito conservatore di tipo europeo, rispettato membro del consesso occidentale, alieno da capricci sproporzionati e inutili; oppure conservare la matrice neofascista nella quale è cresciuta portando verso la destra-destra anche le forze di centro ora orfane. Se fossimo cittadini di un altro paese sarebbe interessante assistere dalla tribuna all’esito di questa scelta. Invece siamo qui e dalla scelta (che forse in cuor suo ha già fatto) dipende quanto resterà in piedi di una democrazia arrivata tardi e al prezzo di grandi lotte. Se le esequie milanesi trasmesse a reti unificate, in stile più nordcoreano che europeo, hanno voluto dare un segnale politico, c’è di che essere molto preoccupati.