La Lettura, 17 giugno 2023
Il cinema russo è ucraino
Attrici, ballerine, cantanti, ma anche registe e produttrici. I nomi di Diana Karenne, Berta Nelson, Helena Makowska, Ileana Leonidoff si leggono nelle storie del cinema tra quelli delle dive degli splendenti anni Dieci del muto italiano, poco dopo quelli irraggiungibili di Lyda Borelli e Francesca Bertini. Di alcune di loro si sa pochissimo. Pochi – dei tantissimi realizzati – sono i film conservati. Ma furono amate dal nostro cinema e conquistarono poi anche Francia e Germania. Arrivarono in Italia a inizio anni Dieci del Novecento, ben prima della guerra e dell’ondata migratoria dei cineasti russi che avrebbe seguito la Rivoluzione d’ottobre. Erano tutte originarie dell’Impero russo, nate in territorio ucraino o in Crimea. Un dettaglio biografico che oggi, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, non passa inosservato.
Il fenomeno, poco studiato, è al centro di una tra le rassegne della 37ª edizione de Il Cinema Ritrovato, il festival promosso dalla Cineteca di Bologna che torna dal 24 giugno al 2 luglio. Il programma Dive russe in Italia, curato da Mariann Lewinsky e Tamara Shvediuk, nasce da una serie di ritrovamenti avvenuti tra il 2022 e il 2023. Il Gosfil’mofond (la cineteca russa) ha identificato tre film con protagonista Diana Karenne; la Cineteca di Bologna ha recuperato La tartaruga di Riccardo Cassano (1918), film considerato perduto, con Helena Makowska; mentre la Cinémathèque française ha restaurato il frammentato Thaïs di Anton Giulio Bragaglia (1916) con protagoniste le danzatrici Ileana Leonidoff e Thaïs Galitsky.
Le dive al centro della rassegna, Diana Karenne, Helena Makowska, Berta Nelson e Ileana Leonidof – di Thaïs Galitsky non si conoscono notizie biografiche – si trasferirono in Italia durante la «moda» degli artisti russi iniziata nel 1909, quando la compagnia dei Balletti russi arrivò in Europa grazie all’impresario Sergej Djagilev. Di Diana Karenne oggi si sa che nacque a Kiev, in Ucraina, tra il 1891 e il 1897. Helena (o Elena) Makowska era nata in Ucraina, a Kryvyi Rih, da genitori polacchi nel 1893; Berta Nelson a Odessa, forse nel 1890, in una famiglia ebraica; Ileana Leonidoff, anche lei di famiglia ebraica, nacque nel 1893 a Sebastopoli, nella penisola di Crimea. Sul perché le dive russe del cinema italiano furono per la maggior parte ucraine si possono solo avanzare ipotesi, come quella che propone a «la Lettura» Mariann Lewinsky, co-direttrice de Il Cinema Ritrovato con Gian Luca Farinelli, Cecilia Cenciarelli ed Ehsan Khoshbakht: «L’Ucraina era un territorio ad alta concentrazione ebraica che visse una forte emigrazione di ebrei a partire dal violento pogrom del 1905. Per attrici di origine ebraica, la carriera in Russia risultava particolarmente difficile, mentre l’Italia rappresentava una delle principali industrie cinematografiche nel mondo».
Diana Karenne fu «attrice eccentrica e stravagante», come scrisse Vittorio Martinelli nella Storia del cinema mondiale curata da Gian Piero Brunetta (Einaudi); «dotata di una eccezionale personalità, di una fine cultura e di molta intelligenza», secondo Fausto Maria Martini. Figura sfuggente che, ricorda Tamara Shvediuk nel catalogo del festival, incoraggiò e coltivò il suo mito «disseminando dettagli discordanti su data e luogo di nascita e sul suo vero nome». L’ipotesi più valida è che fosse la sorella del produttore Gregor Rabinovitch. Nel 1930 sposò il poeta russo Nikolaj Ocup e morì a Losanna nel 1968. In Italia arrivò nel 1914 come Dina Alexandrova Karen, ma in privato avrebbe usato anche il nome di Nadežda Belogorskaja (o Belocorsca). Trovò il successo con Ernesto Maria Pasquali e nel 1916 realizzò diversi film, anche da regista e sceneggiatrice. Passione tsigana, regia di Pasquali, è una «travagliata storia romantica, avventurosa e melodrammatica». Una copia di distribuzione tedesca è stata identificata nel 2022 e ricostruita in base delle recensioni d’epoca.
Karenne è stata individuata di recente anche nel film russo La tragedia di due sorelle , del 1914. Forse il suo esordio. Si sa che fu anche produttrice indipendente. Verso la fine della carriera italiana (con la crisi del nostro cinema muto, negli anni Venti si trasferì in Francia e poi in Germania) fu diretta da Giulio Antamoro – autore nel 1911 del celebre Pinocchio — in Miss Dorothy (1920), considerato fino a poco tempo fa il solo film italiano sopravvissuto dell’attrice. Una storia, scrive nel catalogo Andrea Meneghelli, responsabile dell’archivio film della Cineteca, «d’identità celate, svelate, dissimulate, messe a nudo solo a prezzo di enormi dolori», nella quale Karenne è un’istitutrice che nasconde altre vite. Mentre in Smarrita!, del 1921, sempre di Antamoro, esprime momenti di lacerante passione, stizza, civetteria, vanità. Il film, basato su un racconto dell’esule russo Ossip Felyne, sopravvive in una copia lacunosa che non permette di ricostruirne la trama.
Le stelle provenienti dall’impero russo imposero un taglio con la tradizione divistica italiana delle donne farfalla, angeliche o tentatrici (per un confronto a Bologna sarà mostrato La marcia nuziale di Carmine Gallone con Lyda Borelli, 1915). Nuovo lo stile e nuova l’intraprendenza. Alle spalle avevano una solida formazione artistica, che veniva dall’opera, dal balletto o dalla danza. Berta Nelson (vero nome Berta Isaakovna Kacenel’son) fu un esempio perfetto. Debuttò nel 1912 a Napoli come cantante lirica. Fino al 1922 apparve in diciotto film. Cinque li produsse la sua casa cinematografica: la Nelson Film. In Vittoria o morte!, del 1913 per la Itala Film, Berta Nelson interpreta un personaggio femminile insolito per i tempi: una fanciulla audace che guida spericolatamente automobili e un aereo, dal quale si getta su una nave. Mentre Fiamma simbolica (1917), film diretto da Eugenio Perego sempre con Nelson protagonista, è un poliziesco psicologico.
Helena Makowska (nata Woyniewicz) incarnò invece la bella sconosciuta e misteriosa. A Milano prese lezioni di canto e debuttò nel teatro d’opera prima di trovare successo sullo schermo. Nel 1953 Comencini la volle nel ruolo di sé stessa, star decaduta che riguarda i fasti del passato in La valigia dei sogni. Tra il 1915 e il 1920 apparve in una quarantina di produzioni italiane tra le quali il primo Addio giovinezza! di Augusto Genina o l’Amleto di Eleuterio Rodolfi. In La tartaruga, del 1918, è Lady Hamilton che dopo la morte del marito sceglie di «nascondere il proprio cuore». Una promessa racchiusa in un ciondolo a forma di tartaruga come eterno memento, destinato però a infrangersi. Negli anni Venti si spostò in Germania e poi in Polonia. Dopo l’invasione nazista finì in un campo di concentramento. Morì in Italia nel 1964.
Fu a teatro che Anton Giulio Bragaglia scoprì le danzatrici Ileana Leonidoff e Thaïs Galitsky e le volle per il futurista Thaïs, con scenografie ideate da Enrico Prampolini. Protagonista è la contessa russa Vera Preobrajenska (Galitsky) che adesca uomini sposati per rovinarli. Seduce anche un conte amato dalla sua migliore amica (Leonidoff) che si uccide per la disperazione. Sopraffatta dal rimorso, Thaïs costruisce una macchina di tortura con la quale si procurerà una lenta e dolorosa morte. Delle due attrici/ballerine, la più nota è Ileana Leonidoff (Elena Sergeevna Pisarevskaja, Sebastopoli, 1893-Lima, 1968), che arrivò in Italia almeno dal 1911. Di formazione danzatrice, orbitò a Milano e poi a Roma, dove si presentò come cantante lirica. Nel film di Bragaglia si esibisce in una danza mimoplastica, di cui fu considerata la creatrice. Tra il 1915 e il 1922 fu protagonista di circa quindici pellicole. Ma la sua carriera fu soprattutto legata alla danza: fondatrice della compagnia Balli russi Leonidoff che portò in tutto il mondo (l’ultima parte della vita la trascorse in Perù) e direttrice del Teatro Reale dell’Opera di Roma.
Di Thaïs Galitsky «non abbiamo nessuna notizia», conferma Mariann Lewinsky: «Ma grazie alle ricerche di questi anni, abbiamo potuto riscoprire personaggi come Diana Karenne. Siamo fiduciosi che in futuro riusciremo a scoprire qualcosa di più anche su Thaïs Galitsky».