La Lettura, 17 giugno 2023
Intervista a Emmanuel Carrère
Nell’agosto 2021 il mondo letterario viene sconvolto dall’apparizione di seimila pagine manoscritte di Céline, che riportano l’autore del Viaggio al termine della notte al centro dell’attenzione, sessant’anni dopo la morte. Il primo nuovo romanzo, Guerra, pubblicato nel maggio 2022 in Francia da Gallimard e qualche settimana fa in Italia da Adelphi, ha raccolto nei due Paesi un successo strepitoso. «La Lettura» ne parla, nella sua casa parigina, con uno degli scrittori francesi contemporanei più letti e amati al mondo.
Emmanuel Carrère, che rapporto ha con Céline?
«Non sono un monomaniaco di Céline, come alcuni. Ma lo ammiro. Ho riletto il Viaggio molte volte, già meno Morte a credito, e arrivo fino a Da un castello all’altro. Non mi spingo a rileggere regolarmente le opere del Céline tardivo, nient’altro che punti esclamativi e di sospensione. L’ultima volta che ho riletto il Viaggio al termine della notte mi ha colpito la classicità della frase, che non corrisponde molto all’immagine di Céline. È una frase che è propria della grande prosa francese, semplicemente con queste torsioni del linguaggio parlato, e cose del genere. Ma ciò che colpisce di più, credo, è la sua compassione, che mi pare meno presente nei suoi ultimi libri. Una cosa che mi infastidisce un po’, nei libri scritti dopo il suo ritorno dalla Danimarca (nel 1951, ndr), è l’autocommiserazione. Céline ritiene che gli siano state fatte le cose peggiori, quando, tutto sommato, non gli è andata così male».
L’ha fatta franca?
«Beh, rispetto ad altri collaborazionisti con i nazisti, fucilati o imprigionati a lungo, tutto sommato... Céline è scappato dalla Francia per rifugiarsi in Germania, poi ha fatto un po’ di prigione (quattordici mesi, ndr) in Danimarca, è tornato in Francia e finita lì. Il suo vittimismo non lo trovo giustificato. Degli ultimi libri mi piace molto Da un castello all’altro anche perché il racconto è esilarante. Non possiamo ridurlo a mera testimonianza, ma quel che racconta dell’intero governo di Vichy che si ritrova a Sigmaringen è una specie di monumento comico. È uno spasso sinistro, da incubo, ma molto divertente, e credo che Céline ne fosse consapevole».
E adesso c’è «Guerra».
«L’ho scoperto come una specie di satellite del Viaggio, ma è affascinante perché è un libro vero».
Un libro che vive di vita propria.
«Sì, del tutto autonomo. Ed è sconvolgente scoprire qualcosa di simile a distanza di così tanti anni. Non è affatto il classico inedito incompiuto che trovi in fondo a un cassetto... Da una specie di cassa del tesoro ecco che emergono le seimila pagine manoscritte di Guerra e degli altri due romanzi, che non ho ancora letto, Londra e La volontà di re Krogold. Credo non ci siano equivalenti nella storia della letteratura. C’è un lato davvero un po’ da Mille e una notte in questa storia».
Il che aggiunge un ulteriore elemento di fascino alla leggenda perlomeno controversa del personaggio. Céline è un autore a parte.
«Totalmente unico. E la storia del ritrovamento lo conferma. Conosco Jean-Pierre Thibaudat, il critico teatrale di “Libération”, persona del tutto stimabile. A un certo punto si scopre che da venti o trent’anni Thibaudat stava nella sua casa di campagna del Berry a tentare di decifrare quelle migliaia di pagine. E le ha tirate fuori all’improvviso, alla morte della vedova di Céline, Lucette Destouches, rispettando il volere dell’uomo che glieli aveva fatti avere, il resistente anti-nazista Yves Morandat. Morandat non voleva che quei fogli finissero nelle mani di qualche gruppuscolo di estrema destra. Thibaudat è stato accusato di ricettazione ma non ha tratto alcun profitto finanziario, la sua correttezza è oltre ogni dubbio. È una storia incredibilmente romanzesca, alla Céline».
Lei oggi è associato come nessun altro all’idea di «autofiction», lo scrittore che si mette a nudo e si fa protagonista della storia. Il primo a usare quell’espressione fu, nel 1977, Serge Doubrovsky a proposito del suo romanzo «Fils». E a proposito degli antesignani dell’«autofiction», lo stesso Doubrovsky cita Colette, Philippe Sollers, Nathalie Sarraute, Alain Robbe-Grillet, Marguerite Duras, e proprio Céline. Avete questo in comune, l’autofiction, lei e Céline?
«Questa di Doubrovsky mi sembra una lista ben bizzarra, perché, per esempio, Nathalie Sarraute che cosa ha fatto? Ha scritto un libro di ricordi d’infanzia assolutamente magnifico (Infanzia, ndr), ma allora a questo punto possiamo dire che pure Tolstoj è un maestro dell’autofiction. No, Céline diceva di sé “non sono più uno scrittore, sono un cronista”, credo che la parola autofiction non gli sarebbe affatto piaciuta. Il cronista è qualcuno che a un certo punto diventa lo scriba di qualcosa che lo oltrepassa. Mi sembra una bella definizione della sua arte».
Anche «Guerra» è una sorta di cronaca. All’inizio una cronaca dei combattimenti al fronte, ma dopo poche pagine soprattutto delle retrovie, dei feriti nell’ospedale militare, delle infermiere.
«Sì, possiamo dirlo senz’altro. Guerra fa parte dei grandi libri sulla Prima guerra mondiale. Ce n’è uno ammirevole, Ceux de 14, che di recente è stato riscoperto, l’autore è Maurice Genevoix. Anche questa una cronaca, il grosso libro di uno scrittore che poi è diventato un po’ accademico o un po’ un autore del territorio, ma prima ha raccontato tutto del battaglione nel quale si trovava durante la Prima guerra, è davvero un bellissimo libro. Anche la parte dedicata alla guerra nel Viaggio al termine della notte è straordinaria, e non è ridondante rispetto a Guerra. In Guerra c’è altro».
In «Guerra» c’è soprattutto tutta la sfilza delle miserie umane. Egoismo, vigliaccheria, tradimento, ossessione per il denaro. L’unico personaggio positivo, con una sua sincerità, è forse l’infermiera, la signorina L’Espinasse, che cerca il suo piacere ma lo prodiga anche ai feriti.
«È vero, di tanto in tanto Céline se ne esce fuori con un personaggio di questo tipo... Anche nel Viaggio a un certo punto arriva questo personaggio stupefacente, il sergente Alcide, in Africa. Una specie di sottufficiale coloniale, mascalzone e pignolo, ma poi Ferdinand scopre che Alcide porta con sé la foto di questa bambina paralizzata della quale si occupa... Aspetti, bisognerebbe ritrovare il passaggio (Carrère si alza dal divano, prende dalla libreria Viaggio al termine della notte e lo sfoglia, ndr). Ecco, vale la pena rileggerlo: “È la figlia di mio fratello... Sono morti tutti e due... La tiro su io, la faccio educare a Bordeaux dalle Suore... Ma non le Suore dei poveri, mi capisci eh! Dalle Suore “bene”... Siccome sono io che me ne occupo, puoi stare tranquillo. Voglio le manchi niente! Ginette, si chiama... È una ragazzina molto carina... come sua madre d’altronde... Lei mi scrive, fa progressi, solo che, sai, una retta così è cara... Soprattutto adesso che ha dieci anni...”. E ancora: “Evidentemente Alcide faceva evoluzioni nel sublime come se fosse casa sua, per così dire con familiarità, dava del tu agli angeli, ’sto ragazzo, e aveva l’aria di niente. Aveva offerto quasi senza un dubbio a una ragazzina vagamente apparentata anni di tortura, l’annichilimento della sua povera vita in quella torrida monotonia senza condizioni, senza mercanteggiare, senz’altro interesse che quello del suo buon cuore. (...) S’addormentò di colpo, alla luce della candela. Finì che mi alzai per guardare bene i suoi tratti alla luce. Dormiva come tutti. Aveva l’aria proprio normale. Però non sarebbe poi tanto male se ci fosse qualcosa per distinguere i buoni dai cattivi”. Ecco, sono pagine straordinarie, in cui si vede il Céline medico per i poveri. Lo era davvero, aveva davvero questa compassione. Personalmente, non mi verrebbe di accostarlo all’autofiction, semmai qui è grande come Dickens. È un tale miscuglio, Céline. Una specie di spaventoso imprecatore antisemita, e anche pronto ad auto-commiserarsi come dicevo prima, ma allo stesso tempo dotato di questa sensibilità per la povera gente. Come in Guerra il personaggio dell’infermiera, L’Espinasse».
«Guerra» in Francia è stato un enorme successo, e lo è anche in Italia a pochi giorni dall’uscita. Come mai, secondo lei?
«La Prima guerra mondiale ha ancora una risonanza notevole, l’argomento è appassionante. Ma al di là di questo Guerra è un libro molto forte, che non interessa solo gli specialisti di Céline. Avevo l’impressione che Céline fosse un po’ un autore molto francese per i francesi, e sono contento di vedere che non è così».
Anche in «Guerra» però Céline rimane fedele a sé stesso e al suo razzismo. Tutti i personaggi hanno un nome tranne l’«arabo».
«E nell’edizione francese c’è un glossario in cui il termine violentemente dispregiativo bicot viene tradotto semplicemente con “maghrebino”, come se fosse una cosa naturale e normale. Non lo è. Mi ha molto sorpreso».
Va detto che anche la prefazione di François Gibault è un po’ curiosa. Parla dell’orrore di Céline per la guerra e la morte trattandolo quasi come un povero pacifista traumatizzato, senza citare mai la collaborazione con i nazisti e il suo antisemitismo.
«È davvero sorprendente. François Gibault è il grande specialista dell’opera di Céline. Ma intanto, a cosa serve scrivere una prefazione se non si citano mai le circostanze di un’opera e del suo autore? Gibault è una persona piuttosto affascinante, una specie di apostolo di Céline, è il rappresentante degli eredi. Ma questa prefazione non funziona, è problematica».
In un altro passaggio, Gibault scrive che «Il sergente Destouches (cioè Céline) è stato quindi testimone della Seconda guerra mondiale, poiché la Germania e la Francia, due nazioni cristiane, non hanno aspettato nemmeno vent’anni prima di scagliarsi di nuovo l’una contro l’altra».
«Quel passaggio sulle due nazioni cristiane è incomprensibile, la storia viene riscritta, dei nazisti non c’è traccia. Non ci siamo. Se si tace l’antisemitismo di Céline, il suo collaborazionismo con i nazisti e gli orrori invocati in Bagatelle per un massacro, alla fine si ha l’impressione che Céline sia un pacifista, una specie di Henri Barbusse (scrittore comunista e antimilitarista francese, ndr) con uno stile un po’ più all’avanguardia... Non sono nemico di Gibault, che è stato un biografo devoto di Céline, ma questa prefazione non funziona».
Pubblicare Céline è un problema?
«Va pubblicato, ma non è un autore come un altro. Proust e Céline dominano la letteratura francese del XX secolo. Per me personalmente è più importante Proust, mi accompagna per tutta la vita, mentre non posso dire che io torni di continuo a Céline. Céline è stato un genio delle letteratura, e anche l’autore di invocazioni antisemite spaventose e idiote. Detto questo, era un personaggio indubbiamente affascinante. Su YouTube ci sono certe sue interviste straordinarie».
Per esempio? Quale intervista consiglia?
«Quella di Louis Pauwels a casa dello scrittore a Meudon è eccezionale. Céline mostra quel suo dandysmo da clochard, e la bellezza di quel che dice è davvero impressionante. Ma Céline è stato capace anche di idiozie da non credere, oltre ai pamphlet antisemiti. Pensiamo per esempio alla teoria del sosia di Hitler».
Qual è la teoria del sosia di Hitler?
«Ne parla nelle sue memorie lo storico collaborazionista Jacques Benoist-Méchin, che racconta di una cena organizzata all’ambasciata di Germania a Parigi nel febbraio 1944. L’ambasciatore è il celebre Otto Abetz, ammirato da tutto il milieu collaborazionista francese perché nazista ma anche molto colto e sofisticato, il contrario del nazista barbaro. Quindi, gli invitati alla cena dell’ambasciatore Abetz sono Céline, lo scrittore Pierre Drieu La Rochelle, il pittore Gen Paul e lo storico Benoist-Méchin, che racconta la scena. È un passaggio straordinario, posso leggerlo?»
Con piacere.
«Dunque, è Benoist-Méchin che parla. “Guardo attentamente Céline seduto davanti a me al tavolo dell’ambasciata tedesca. Il suo volto è pallido, doloroso, quasi inespressivo. Le sue narici fremono e sento una forza irriducibile che si accumula dentro di lui. E all’improvviso esplode. “Basta!”, dice. “Basta!” Colpisce il tavolo con entrambe le mani così forte da far vibrare i vetri. “Sono stufo di ascoltare le sue stronzate. Crede di essere intelligente, intorno a questa tavola imbandita, mentre il mondo sta cadendo a pezzi. Se voi costruite 40 mila aerei, gli americani ne costruiranno 200 mila. Se voi costruite 100 mila carri armati, loro ne costruiranno un milione. Contrasteranno le vostre armi segrete con armi ancora più segrete e letali. Non potete farci nulla. Loro sono la massa e la funzione della massa è quella di schiacciare tutto. Nel frattempo, ci nascondete subdolamente l’essenziale. Perché non ci dite che Hitler è morto?”. “Hitler è morto?”, ripete l’ambasciatore Abetz sgranando gli occhi. “Lo sapete quanto noi – riprende Céline —, solo che non potete dirlo, ma non c’è bisogno di essere un ambasciatore per saperlo, è ovvio, evidente. Gli ebrei lo hanno sostituito con uno dei loro”. Abetz, Drieux La Rochelle e io eravamo senza fiato. Sapevamo dell’audacia di Céline, ma non avremmo mai pensato che potesse spingersi così in là. Ora che ha iniziato, dove si fermerà? E pensare che l’ambasciatore ci aveva invitato a trascorrere un piacevole momento di relax con lui. Non è facile rilassarsi con Céline.” Vi dico che non è più lo stesso uomo – continua Céline —. Hanno messo qualcun altro al suo posto. Guardatelo, ogni mossa che fa, ogni decisione che prende è pensata per assicurare il trionfo degli ebrei. Quindi dobbiamo essere logici. Gli ebrei hanno messo in atto il più grande imbroglio della storia. Hanno fatto sparire Hitler in una botola e lo hanno sostituito con un loro uomo. Il pubblico è sempre meno numeroso, ecco perché la gente non nota la differenza. Nessuno è più facile da imitare, il mio amico Gen Paul, qui, è un ottimo imitatore. Dai, mio buon Gen, non essere timido. Qui siamo tutti amici. Facci vedere come sai fare bene il tuo piccolo Hitler”. Gen Paul esita un po’, ma alla fine acconsente. Tira fuori dalla tasca un po’ di tabacco, ne prende un pizzico, lo impasta tra tre dita e se lo mette sotto il naso. Poi, con un gesto improvviso, si tira indietro una ciocca di capelli sulla fronte, assume una posa napoleonica, una mano dietro la schiena, l’altra nella fessura del panciotto, sgrana gli occhi furiosi e dice con voce gutturale Rah, rah, rah. Assomiglia sorprendentemente a Hitler, ma anche a Charlot, Groucho Mars e a Felix il Gatto”».
Céline grida all’ambasciatore nazista che gli ebrei hanno sostituito Hitler con un loro uomo e che il complotto ebraico è riuscito. Incredibile.
«È una scena pazzesca. Ma Céline era questo. L’uomo animato da una profonda compassione per l’umanità degli umili, con questa specie di convinzione che la verità la si può trovare solo negli strati inferiori della società, solo in basso. Questo secondo me è il fondamento della sua grandezza, assieme alla prodigiosa esplosione della lingua. E allo stesso tempo c’è questa follia, la stessa che ritroviamo nei pamphlet antisemiti».
Due aspetti non totalmente contraddittori, visto che un aspetto ricorrente dell’antisemitismo è l’idea dell’élite ebraica che ordisce complotti ai danni del popolo.
«Assolutamente, il complotto delle élite, che arriva fino a sostituire Hitler con un ebreo. Follia pura».
Follia che sfocia nel coraggio o nell’incoscienza...
«Non credo che Céline si collochi mai nel registro del coraggio... C’è un passaggio nei diari parigini di Ernst Jünger, giugno 1944, in cui si racconta che subito dopo la sbarco degli alleati Céline aveva chiesto con grande urgenza i documenti all’ambasciata tedesca per rifugiarsi in Germania. “È curioso vedere come esseri capaci di esigere a sangue freddo la testa di milioni di uomini si inquietino per la loro piccola sporca vita – scrive Jünger —. I due fatti sono legati”. Nella bocca di Jünger, di solito talmente patrizio, è curioso ritrovare un’espressione come “piccola sporca vita” che potrebbe appartenere a Céline».
Comunque, in Francia, Céline è oggetto di un culto speciale, al di là delle sue miserie.
«È così. Gli spettacoli teatrali di Fabrice Luchini, per esempio, sono eccezionali, Luchini è davvero un medium, è travolgente quando recita Céline, è capace di restituire la grandezza della lingua in modo unico».
Ma c’è anche una fascinazione magari inconsapevole proprio per le posizioni ignobili di Céline, per il suo lato maledetto?
«È terribile come tutto sia mescolato, inestricabile. Perché la cosa interessante è che imbarazzo e fascino vanno di pari passo. Non si sa come comportarsi. Voglio dire, non sapremo mai cosa fare. E siamo tutti più o meno sensibili al genio di Céline. E al tempo stesso le sue posizioni sono non solo odiose ma anche piuttosto cretine».
C’è chi si rifiuta di leggerlo per questo.
«Una posizione alla Vladimir Jankélevitch, il filosofo e pianista che aveva deciso di non leggere, ascoltare e suonare più nulla di tedesco dopo la Shoah. Per lui la Germania era finita».
A meno di non prendere una posizione radicale alla Jankélevitch, il genio di Céline pone sempre un problema.
«Infatti Bagatelle per un massacro è forse disponibile nei siti di estrema destra ma non in libreria. Comunque, va detto che nei pamphlet antisemiti Céline perde molto del suo talento, il livello letterario scende molto, li considero delle imprecazioni e poco più. Il Viaggio al termine della notte è un’altra cosa, è un libro sublime, e anche Guerra è fatto della stessa stoffa del Viaggio».
Esistono eredi letterari di Céline?
«Questa è una cosa che mi colpisce molto: Céline non ha avuto una discendenza. Tanto meglio. Certo, ci sono autori che ne hanno subito l’influenza, ma non c’è stato niente di davvero significativo in questo ambito. Céline è un hapax. Non possono esserci due Céline».