Corriere della Sera, 16 giugno 2023
Le riviste del Novecento
Firenze «Un gruppo di giovani desiderosi di liberazione, vogliosi d’universalità, anelanti a una superiore vita intellettuale si sono riuniti a Firenze sotto il simbolico nome augurale di Leonardo... Nella vita sono pagani e individualisti... Nel pensiero sono personalisti e idealisti... Nell’arte amano la trasfigurazione ideale della vita». 4 gennaio 1903: Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini fondano a Firenze «Leonardo» presentandosi con queste parole. Sono ventenni e antipositivisti, avversi a un pensiero cui si rifacevano l’umanitarismo progressista e il riformismo socialista. È il primo vagito di un movimento che, fino al primo quadriennio del Ventennio, si esprime grazie a riviste (da «La Voce» a «Lacerba», da «Poesia» di Marinetti a «L’Ordine nuovo» di Gramsci o «Lo Strapaese» di Leo Longanesi e Mino Maccari) in cui trovano terreno di coltura diatribe politiche, considerazioni estetiche, nuove poetiche, quella futurista prima fra tutte, e a cui le Gallerie degli Uffizi dedicano una mostra realizzata con la Biblioteca Nazionale di Firenze e curata da Giovanna Lambroni, Simona Mammana, Chiara Toti.
Riviste. La cultura italiana nel primo ’900 – questo il titolo – si potrà visitare fino al 17 settembre. A volerla è stato il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano che ieri è venuto a presentarla con il presidente del Senato, Ignazio La Russa. Grato il secondo per un progetto culturale che «va a colmare un vuoto che riguarda un grande crogiuolo di intelligenze dei primi del ’900, per troppo tempo emarginate». Entusiasta il ministro, da poco tornato in libreria con la ristampa del suo libro Giuseppe Prezzolini. L’anarchico conservatore (Mondadori) che delinea la cornice entro cui si sviluppa l’esposizione. «Ci muoviamo in una congerie culturale – ha detto – fiorita nel segno della filosofia di Giovanni Gentile e Benedetto Croce, del loro idealismo nato contro le idee positiviste, per fare uscire la politica italiana dal trasformismo e recuperare i valori della patria». Una dimensione conservatrice se è vero, come dirà Prezzolini nel Manifesto dei Conservatori, che «il progressista è la persona di domani, il conservatore è la persona di dopodomani perché solo il conservatore è in grado di modernizzare la società salvaguardandone i valori».
La mostra, ricca di oltre 250 pezzi e ben documentata, ha il pregio di esporre insieme alle riviste principali del periodo in esame (1903-1926), libri e opere d’arte, per lo più pittoriche a parte alcune sculture di Medardo Rosso e Domenico Trentacoste, rendendo manifesta la volontà delle testate di far incontrare diversi linguaggi. Del resto si deve ai protagonisti de «La Voce» (Papini e Prezzolini e Ardengo Soffici) la prima mostra degli Impressionisti a Firenze.
Si parte con la sala dedicata a «Leonardo», in cui oltre ai numeri della rivista trovano spazio il ritratto di Prezzolini di Oscar Ghiglia e quello di Papini realizzato da Giovanni Costetti e le teste femminili del palermitano Domenico Trentacoste. La mostra ricorda come in quello stesso anno videro la luce «Il Regno» di Enrico Corradini, nel segno di un forte nazionalismo e «La Critica» di Benedetto Croce. La seconda sezione è dedicata a «La Voce» e alle sue fasi, dalla nascita nel 1908 alla scomparsa nel 1916, e alle sue differenti firme: Gaetano Salvemini, almeno fino alla guerra in Libia, Giovanni Amendola, Croce e Gentile. Sezione questa arricchita dall’arte di Ardengo Soffici e di Camille Pissaro e a cui farà da contraltare il primo numero de «L’Unità», ovvero il giornale dei «problemi della vita italiana». A seguire, con «Lacerba» di Papini e Soffici (1913-1915) si entra in piena congerie futurista.
Accanto al Manifesto di Marinetti, la prima edizione dei Canti orfici di Dino Campana, l’arte di Carrà, i cataloghi di Boccioni, le caricature di Primo Conti, i proclami di Papini contro la Firenze passatista. La sezione dedicata a «Poesia», la rivista di Marinetti (1905-1909), e «L’Italia futurista» (1916-1918) prosegue idealmente quella de «Lacerba». L’ultima raggruppa quanto la produzione all’indomani della Grande guerra, con «La Ronda» (1919 -1923) che torna alla letteratura ottocentesca, ma anche con «L’Ordine Nuovo» (1919-1922) di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, voce dei consigli di fabbrica dalla vita breve. Dall’altro lato prendono vita «Lo Strapaese», «L’Italiano» e «Il Selvaggio»: la cultura italiana si ripiega dentro confini angusti. C’è comunque un tentativo di dare voce a un pensiero più largo che confluisce in «900» (1926-1929) di Massimo Bontempelli e Curzio Malaparte e in «Solaria» (1926-1934), la prima costretta a chiudere dopo tre anni. Più volte censurata dal regime ma più longeva la seconda.