Corriere della Sera, 16 giugno 2023
Intervista a Tullio Pericoli
Tullio Pericoli: «Umberto Eco del mio ritratto disse: non sono io, è la mia bisnonna. La sfuriata di Calvino mi lasciò disperato»
Non c’è domenica che non vada a lavorare nel suo atelier. Tullio Pericoli è infaticabile e forse per questo i suoi 86 anni non si vedono: dipinge, scrive, progetta, non si stanca di corteggiare l’arte. Non si stanca nonostante la certezza, avanzando l’età, che quella signora capricciosa non si concederà mai del tutto: «Con gli anni cresce una vaga sensazione di fallimento, ma per fortuna a ogni risveglio ritorna il piacere di dipingere».
Se non ci fosse la pittura?
«La pittura è stata la mia salvezza. Non ho mai pensato, neanche da bambino, di poter fare un altro mestiere. Neanche quando studiavo giurisprudenza a Urbino».
Il lavoro prende tutto?
«Divido grossomodo la giornata tra l’informazione e la lettura al mattino e la pittura nel pomeriggio».
Un hobby?
«Quando torno a casa, nelle Marche, mi piace andare a pescare al mare oppure, in solitudine, nei torrenti di montagna. È una passione che ho sempre avuto».
Un pittore può avere un colore preferito?
«Il colore che uso di più è tra il verde e il terra di Siena, che somiglia al mio paesaggio. Se dovessi tenere un solo tubetto, sceglierei il terra di Siena, anche perché contiene la parola “terra”».
Un amico perduto con cui rifare una cena?
«Con Giorgio Bocca, a casa sua in via Bagutta, ma con lui in cucina, perché il Bocca cucinava divinamente. Tranne il dolce, che portavo io».
Che tipo era Bocca?
«Era come avesse le mani coperte da una leggera carta vetrata, ma anche nelle sue cose più rudi e dirette c’era una verità. Era rimasto sempre in montagna a fare la lotta partigiana anche scrivendo».
Avete passato molte ore insieme?
«Sì, a casa sua, in montagna o nelle Langhe. Diceva: “Quando scrivo, sento le parole che mi arrivano dai muscoli delle braccia”. È così anche per me, come pittore, le cose che arrivano sulla tela non le sento provenire dall’intelletto, ma dall’apparato nervoso o muscolare».
Nel libro di ricordi, «Incroci», c’è un magnifico ritratto di Cesare Zavattini.
«Avevo 23 anni, gli scrissi e andai a trovarlo a Roma. È come se mi avesse accolto uno zio che non vedevo da tempo. Misi via i soldi per un taxi, e il tassista appena sentì l’indirizzo, mi disse: “lei va da Zavattini!”. Era celeberrimo, e io mi sentii al centro del mondo».
Come andò?
«Passò tre ore a darmi dei consigli tecnici, morali, pratici. Mi disse: “Smetti di studiare e vai a Milano…”. Si prese una bella responsabilità e mi cambiò la vita».
Il volto più presente nel nuovo libro, «Ritratti di ritratti», è Umberto Eco. È difficile ritrarre un amico?
«Ritratti da anni non ne faccio più, ma per prima cosa bisognava dimenticarsi l’amicizia e guardare la faccia come fosse una mappa silenziosa e inerte… Dopo lo studio della superficie, arrivano le emozioni, che no0n riguardano solo l’amicizia, ma tutto quello che ha fatto, pensato, scritto. Allora avviene una specie di raffronto tra due mappe, la prima deve contenere la seconda e viceversa, finché affiora concretamente il segno nero sulla pagina o sulla tela».
Qual è il tratto distintivo del volto di Eco?
«Era il modo particolare con cui partiva la riga dei capelli: c’era un piccolo ciuffo che alzandosi faceva l’“echità” di Eco. Un giorno, di fronte a un suo ritratto, Umberto mi disse che non si ritrovava, ma ci rivedeva suo nonno, una zia e una bisnonna. Ne fui contento. Facendo un ritratto volevo entrare nella echità, nella calvinità, nella gaddità, al di là della somiglianza».
Che amico era Eco?
«È stata un’amicizia allargata alle famiglie. Ci si vedeva da me o da lui nelle Marche. Quando veniva a Rosara, restava ore a galleggiare in piscina. Era una persona molto chiusa, Umberto, non lasciava trasparire niente di sé. Manifestava i sentimenti per piccoli gesti. In fondo forse non voleva neanche che qualcuno si aprisse con lui. Le anime per Umberto erano stupide, gli interessavano le menti».
Un ricordo?
«Era già malato. Una sera al ristorante arrivò a tavola un piattino di burro: Eco sembrò svegliarsi da uno stato di assenza, caricò di burro un minuscolo pezzo di pane. Gli dissi: “Non vorrai mangiarlo! Ti fa male!”. Mi guardò come un bambino e rispose: “Proprio per questo” e se lo cacciò in bocca. Con uno sguardo gli dissi che avevo capito».
L’opposto di Eco?
«Beh, con Emilio Tadini ci rovesciavamo addosso tutte le ansie, i problemi amorosi. Se gli avessi parlato dei guai sentimentali, Umberto, avrebbe cercato di tirarmi su con una barzelletta. Nelle serate con Gregotti, Eco, Fo, Pardi, era Emilio il vero mattatore».
Roberto Calasso, l’editore di Adelphi, è stato un amico?
«Circa un mese prima di morire mi scrisse una mail: “Caro Tullio, mi aspetto da te – diis faventibus – un disegno che ti stia particolarmente a cuore – e scelto da te. Non è sfrontatezza ma complicità, che c’è sempre stata fra noi”. Rimasi stupito. Gli mandai un quadro intitolato Il pittore e le modelle, degli anni 90. Pensavo che potesse piacergli. Mi fece una telefonata affettuosa. Sentivo che gli si sgretolavano le parole in bocca… un segno di commozione e fatica».
Com’era l’editore?
«Gli parlavi di un progetto e lui rispondeva va bene o non va bene. Se andava bene, il libro andava fatto al più presto, altrimenti era meglio non parlarne più».
Un suo consiglio?
«Gli proposi un libro di riflessioni sull’arte in forma di dialogo. Mi disse di no, niente dialogo, mi consigliò di trovare dieci parole e di scriverle come su un muro per vedere che cosa generavano. Fu un’idea folgorante, pensai a carte moschicide con gli insetti che volando finivano prigionieri… Per dare l’idea dei meccanismi del mestiere pensai al titolo Sul farsi. Mi fece notare che poteva sembrare un manuale sulla droga. Venne fuori Arte a parte».
C’è una lettera di scuse a Pericoli nell’epistolario di Calvino. Cos’era successo?
«Era l’84. Preparavo una mostra sui miei disegni per Robinson, e lui aveva appena scritto un articolo su Robinson. Gli telefonai per chiedergli un testo per il catalogo, mi disse che ci avrebbe pensato. Quando lo richiamai, mi fece una scenata tremenda: “Tu non mi devi cercare per lavoro, ma per andare al cinema o a prendere un caffè… Non ce la faccio più…”. Misi giù disperato e gli mandai una lettera di scuse. Mi rispose che stava passando un periodo difficilissimo di irritabilità e depressione, era pieno di impegni e incapace di concentrarsi… Sarebbe morto un anno dopo, mi dissero che aveva già avuto piccoli ictus».
Gli piacevano i ritratti?
«Mi ha fatto due dediche bellissime. Mi scrisse che le Cosmicomiche erano “il più pericoliano” dei suoi libri. Poi, mi dedicò Una pietra sopra con queste parole: “A Pericoli, questi saggi che se fossero disegni forse assomiglierebbero ai suoi”».