Tuttolibri, 17 giugno 2023
L’antenato sentimentale di Sherlock Holmes
Come si costruisce un investigatore nella letteratura gialla? Ci sono alcuni punti fermi da rispettare, alcune regole non scritte che non possono essere contraddette, come se una invisibile ma concretissima Unione Europea dei lettori fosse pronta a bocciare, tramite lo stop all’erogazione diretta di fondi attraverso il microcredito, qualsiasi giallo che contravvenga alle indicazioni della comunità. Detta in parole povere, il libro non lo compra nessuno.Il primo è che l’investigatore deve venire da qualche altra parte. Agatha Christie, nel ricostruire il processo che l’aveva portata a concepire il personaggio di Hercule Poirot, lo aveva immaginato belga: un ex funzionario di polizia belga, «e visto che come aspetto fisico me lo ero figurato basso e un po’ ridicolo, doveva avere un nome altisonante, come Hercules, anzi, no: meglio Hercule». Questa provenienza è funzionale al giallo, o meglio, all’indagine: attraverso l’occhio di Poirot, belga che tutti prendono per francese, vediamo meglio le idiosincrasie e le abitudini degli inglesi; grazie alla maggiore distanza, riusciamo a distinguere le cose importanti dai particolari insignificanti, a individuare la struttura liberandola dalle decorazioni e dagli abbellimenti, e infine a indicare il canaglione che ha ucciso qualcuno durante una bella riunione in salotto, di fronte al camino. La stessa distanza aiuta anche altri, come Nero Wolfe, in esilio dal Montenegro negli Stati Uniti, o per essere contemporanei il buon (si fa per dire) Rocco Schiavone, il personaggio di Antonio Manzini, mandato per punizione ad Aosta da Roma. Ecco, questo è un punto curioso: anche Poirot era stato mandato in Inghilterra da qualcun altro. Agatha Christie, infatti, conosceva parecchi belgi emigrati in Inghilterra per un motivo ben preciso: erano rifugiati di guerra. Esattamente come i siriani, gli ucraini e gli abitanti di molti Stati dell’Africa, arrivavano sulle coste più vicine alle loro per sfuggire a una guerra, e i giornali dell’epoca titolavano a piene pagine sull’invasione delle coste di Torquay e delle bianche scogliere di Dover da parte dei fiamminghi. Se vi ricordate, Poirot è anche lui un rifugiato, e nel primo libro a lui dedicato indaga sulla morte della povera signora Inglethorp perché sentiva di doverglielo: anni prima, la vittima l’aveva accolto in casa sua, lo aveva ospitato e rifocillato, insieme ad altri rifugiati, salvandogli la vita.Ci sono invece altri investigatori che si rifugiano nella loro solitudine per scelta, che nessuno, apparentemente, costringe a ritirarsi nelle loro stanze.A partire dalle più note, quelle del sociopatico per eccellenza, il principe degli hikikomori: il secondo piano del 221B di Baker Street. Sherlock Holmes, il primo investigatore privato dalla vita sin troppo privata, rintanato in una solitudine assurda e patologica alleviata solo dal violino, dalle droghe e dai bei momenti in cui finalmente uccidono qualcuno e il suo cervello ha modo di interagire con la realtà e con altri inutili esseri umani.Il primo, si diceva. O forse no. Perché in queste pagine conoscerete Maximilien Heller, un giovane avvocato francese che vive ritirato in una soffitta disordinatissima (e uno), in compagnia di un gatto e dei propri foschi pensieri. È solo al mondo, e fa uso di droghe per tenersi su (e due). A narrare la sua avventura è un medico (e tre) che dopo averlo conosciuto lo vede coinvolto in un omicidio (smetto di contarle). Non che sia ricercato o vittima: semplicemente, Heller contraddice la polizia, facendo notare agli inquirenti che hanno arrestato l’uomo sbagliato, e cercando di attenersi ai fatti, senza trascurarne nessuno, perché «quando li avrò tutti nelle mie mani, allora in mezzo a queste evidenze inverosimili che adesso sembrano così bizzarre vedrete la verità splendere più luminosa del sole». Suona familiare?Maximilien Heller ricorda molto, molto da vicino Sherlock Holmes, ma c’è una differenza sostanziale. Heller, infatti, possiede sentimenti umani. Laddove Holmes investiga per curiosità naturale o per lavoro, e l’unico sentimento che dimostra è la sottile soddisfazione che prova nell’umiliare il povero ispettore Lestrade, Heller si occupa del caso in cui si imbatte per salvare la vita a un innocente. Laddove Holmes investiga per se stesso, Heller lo fa per gli altri. O forse no, come vedrete leggendo tutto il libro.Ci sono differenze, tra i due, ma anche somiglianze impressionanti. Il comportamento, lo studio disordinatissimo, il medico che ne narra le gesta, la dipendenza dalla caffeina.Non si sa se Arthur Conan Doyle abbia letto il libro di Henry Cauvain. Di sicuro conosceva bene il francese, e di sicuro il libro parigino anticipa di quasi vent’anni il detective di Baker Street. Potrebbe averlo letto, o qualcuno dei suoi conoscenti potrebbe averglielo raccontato. Mettiamola così, ci sono forti probabilità che Conan Doyle conoscesse il libro e il suo contenuto, e soprattutto il suo protagonista; e che, volontariamente o meno, questi ricordi siano riaffiorati quando si accingeva a scrivere la prima avventura di Sherlock Holmes, Uno studio in rosso – contrariamente al primo romanzo di Agatha Christie, un libro in cui la trama è molto meno importante del personaggio principale. Perché, diciamoci la verità, gli intrecci gialli che affronta Holmes sono spesso assurdi, poco plausibili, e il primo romanzo in particolare è un feuilleton di lunghezza imperdonabile con una parentesi storica sui mormoni che rischia di annientare più di un lettore. Se non ci fosse il personaggio di Sherlock, il libro sarebbe ben poca cosa; un personaggio, lo ripeto, che somiglia in maniera più che sospetta al povero e malsano Maximilien Heller. Il che ci porta a considerare un aspetto che molto spesso, nella nostra vita, ci dimentichiamo. Lo scriverò una riga qui sotto, per sottolinearlo e per dargli la giusta importanza: Nessuno di noi pensa da solo. Noi sapiens usiamo in continuazione oggetti inventati da altri, e dei quali ignoriamo il funzionamento. È la base stessa della nostra civiltà. Quanti di noi sanno come funziona un computer, uno smartphone, o anche uno sciacquone? (Se credete di saperlo, chiedetevi se lo sapreste riparare). Io, per esempio, non ho mai pensato di scrivere un romanzo fino a quando non ho potuto usare un computer; se avessi dovuto farlo con carta e penna, solo l’idea di raccogliere i fogli e tenerli in ordine mi avrebbe fatto desistere in pochi giorni. E non avrei mai scritto i libri che ho scritto se non ne avessi letti altri, prima. I racconti di Stefano Benni. Tre uomini in barca. I gialli di Nero Wolfe.Il fatto è che gli strumenti che usiamo condizionano il nostro modo di pensare, o anche solo la nostra possibilità di applicarci a risolvere un problema. Se lo vediamo impossibile o inaffrontabile fin dall’inizio, dal modo in cui si propone, è molto più probabile che eviteremo di cimentarci. E per strumenti intendo anche quelli intellettuali.La matematica moderna, per esempio, è decollata dopo che è cambiato il modo di scriverla, in particolare dopo che è stato introdotto il simbolo di uguale, intorno alla metà del Cinquecento, da Robert Recorde: questo ci ha permesso di scrivere i problemi sotto forma di equazioni, e quindi di maneggiare quelle equazioni come se i loro termini fossero pesi su una bilancia a due piatti – se tolgo di qua devo togliere di là, e così via. E la narrativa, ogni tipo di narrativa, deve il suo sviluppo ai personaggi e alle trame dei libri precedenti. Non avremmo avuto Agatha Christie se prima non fosse comparso Sherlock Holmes, e non avremmo avuto Sherlock Holmes se non fossero mai stati raccontati Auguste Dupin e Maximilien Heller, prendendo palesemente in prestito alcune caratteristiche di Dupin (come ammesso da Conan Doyle stesso) e altre che sembrano copiate di peso da Heller. Di altre, invece, ha fatto a meno, togliendole al suo personaggio: la socialità e l’equilibrio mentale di Dupin, l’empatia e i sentimenti profondi di Heller. Perché anche se Holmes ha avuto molto più successo, Heller è un personaggio molto più credibile, molto più umano. Insomma, credo sia innegabile che Conan Doyle debba il suo successo a Maximilien Heller, ma credo anche che Heller abbia ancora da dire qualcosa, specialmente in un’epoca in cui rinchiudersi in casa ed evitare gli altri per paura di mostrare se stessi, o semplicemente per inerzia, sta ritornando pericolosamente in auge.Ci sono molti modi per negarsi agli altri: rinchiudersi in una soffitta è uno di questi, il più palese, trincerarsi dietro uno smartphone è un altro, meno chiaro ma altrettanto pericoloso, perché all’inizio siamo noi a usare il telefonino, e poi invece il coso inizia a usare noi. C’è un unico metodo, secondo me, per sfuggire a questo ambiguo tipo di solitudine, ed è quello che userà Heller. Per scoprire quale sia, avete un unico modo. Buona lettura.