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 2023  giugno 15 Giovedì calendario

I funerali di B.


Gabriele Romagnoli per Rep
Era un pomeriggio di sole imprevisto. I carabinieri, rigidi nelle loro uniformi, avevano rinviato fino a che era stato possibile il momento di calcare sulla fronte la lucerna con il pennacchio. Il sottogola era stato abbassato sul mento già lucido di sudore. Lo sguardo cercava una fissità intensa, che non sfigurasse nelle riprese di troppe telecamere. Nessuna disciplina prepara mai abbastanza per l’eccezionalità di eventi non previsti da alcun calendario, o regola. La gente, quella era già lì da ore. Sotto gli ombrellini chiari, dietro gli occhiali scuri. Con l’abito migliore o così com’erano. Per affetto e per difetto. Per inerzia e per volontà. Trascinati, come spesso, da una forza centripeta, cercando invano il corpo al centro della traiettoria. Cercando un centro che non c’è. Pregando, perfino, in ginocchio sul selciato, superate le transenne, brandendo come lasciapassare un’immagine sacra: “Regni sulla Terra la Signora di tutte le nazioni, scenda lo Spirito Santo per preservarle dalla degenerazione, dal disastro e dalla guerra”. Amen. E ripeti, perché possa funzionare. Perché se ne accorgano anche quelli che continuano a mandare messaggi dai telefonini, a scattare fotografie e caricarle sui loro profili, a parlare, urlare addirittura, quando dovrebbe essere un’occasione per il silenzio: un minuto, un’ora, fino a nuovo segnale.
Lì, i famosi non stavano. Passavano e andavano. Nell’isola d’ombra conquistata con anni di sacrifici per la causa, dedizione ricambiata. O per elezione, nomina, ereditarietà. Scivolati dentro come in ogni corridoio. La piazza era per gli altri, uomini e piccioni. Così simili, se li osservi bene, nei loro movimenti. S’addensano, scappano al primo rumore, si ricongiungono. E salgono, verso l’alto, sul piedistallo, la statua, il cavallo. Sulla spada sguainata, prospettiva affilata. Dimmi cosa vedi tu da lì. Lo vedi arrivare? Vedi l’orizzonte spostarsi, l’estrema porta spalancarsi? Bisognerà fare posto, prepararsi all’inverosimile o è soltanto una cerimonia come altre, con la sua tabella di marcia, tempi da non sforare, codici da rispettare? Che cosa ci facevano allora quei ragazzi felici come zingari perché potevanoscandire per l’ultima volta lo slogan della loro gioventù vincente, quando non erano re, ma avevano un re e per alcuni non è una consolazione, è proprio la stessa cosa: conta il risultato. Campione d’Europa, capitale del mondo, non è più lontana Milano dalla tua terra. La nebbia non c’è, la pioggia nemmeno. Chi era sfinito per l’attesa non lo dava a vedere. La stanchezza è un segreto da custodire. In piedi, tutta la curva. Il dissenso balena in un pugno che si apre e subito si richiude. Una mano tra migliaia. L’anomalia in un sondaggio che assicura l’unanimità del consenso. Eppure si faceva strada un dubbio: che cosa stiamo aspettando? Una finale o un finale? La vittoria definitiva o l’inevitabile resa? Occhio ai maxischermi, la partita si sta giocando altrove. L’arbitro ha fischiato tre volte, inquadrato al centro del campo, è rimasto un blocco di legno che non lascia passare la luce, comunque si intervenga sulle telecamere o sui giudizi.
A che cosa abbiamo assistito? Era l’ultima festa? E, come il Grande Gatsby, chi ha fatto gli inviti poi non si è presentato? Non si può ripetere il passato. Non si può ripetere niente. Si può soltanto tornare a casa, la stessa da cui siamo venuti. Ci sono ricordi che tutti abbiamo, ma li conserviamo in cassetti differenti: gioielli o stracci. Si torna per riporre anche questo. Un viso sbuca a tradimento sotto un portico, da una cabina. Sorride, saluta, ma non resta. Passiamo tutti e passiamo oltre.

Gianni Dantucci per il Corriere
Gesti. Non previsti. Non immaginati. Eleonora, le mani giunte come in una preghiera di ringraziamento all’altezza del mento, gli occhi dietro il velo nero, lo sguardo sulla piazza piena di gente e di sole. Barbara, le mani unite che dondolano, poi quasi un inchino. C’è un momento, dura meno di un minuto, che è il più intenso: finito il funerale, il carro funebre col feretro di Silvio Berlusconi si scosta dal centro della scena, per allontanarsi, e i suoi cinque figli restano là, allineati sul sagrato del Duomo, quasi schierati spalla a spalla, e si trovano di fronte la folla assiepata dietro le transenne, sormontata dai tanti bandieroni della curva del Milan.
Cori per il presidente. Applausi. E così Marina e Pier Silvio Berlusconi, Barbara, e forse ancor più Eleonora e Luigi, si scoprono immersi in una situazione che per loro è del tutto inedita. La folla che il padre per tutta la vita ha amato, ha acceso e ha attraversato, ha governato con i suoi gesti e i suoi discorsi, intercettandone sempre l’umore col fiuto del domatore, sia che si trattasse d’una folla politica, sia che fosse una bolgia da stadio: ecco, quando il carro funebre s’allontana, per la prima volta se la ritrovano di fronte loro, quella folla. In un frangente simbolico, proprio in quel momento, il loro padre non è più il centro di attrazione della gente: e dunque lo sperimentano i figli quel contatto diretto, quella comunicazione d’energia. Come un debutto, nel giorno dell’addio.
I figli sono cinque uomini e donne celebri per patronìmico, ma sulla piazza del Duomo per la prima volta senza patriarca. Il significato dei loro gesti sta racchiuso tutto qui. Eleonora apre le mani quasi a salutare; Barbara se le appoggia una sull’altra e sul petto, all’altezza del cuore, si gira da una parte e dall’altra come ad abbracciare tutte le facce che vede davanti a sé, a una dozzina di metri di distanza; anche Pier Silvio si posa una mano sul petto; Marina sussurra un «grazie, grazie» che si percepisce a stento dalle immagini televisive; Luigi invece le parole le scandisce bene, pure lui con le mani giunte, ma con la testa ben alta perché certo nessuno può sentirlo, tra i cori dedicati al padre, e però il figlio più giovane di Silvio Berlusconi cerca di rendere il più largo e marcato possibile il suo labiale, perché alla folla possa arrivare il suo messaggio: «Grazie – la sua frase si legge perfettamente —. Grazie per il vostro affetto. Grazie davvero».
Al termine della cerimonia il secondogenito a Mediaset incontra i dipendenti: «Ora torniamo a essere un’azienda viva e piena di forza»
Prima di salire in macchina e lasciare il Duomo, Pier Silvio si stacca per un secondo dalla famiglia e s’avvicina alle persone sotto il sole, per dire anche lui: «Grazie, grazie ancora». Gesti. Spontanei. Quasi che i figli, soprattutto i più giovani e meno abituati al pubblico, siano rimasti meravigliati da quel tributo, abbiano sperimentato con stupore l’energia che può salire da una piazza. Eredità, anche questa. La piazza per il padre che diventa (anche) per loro. Conseguenze di un lutto vissuto in pubblico: essere I Berlusconi, senza più Berlusconi.
Al funerale i figli hanno partecipato seduti dietro il primo banco, nella parte destra della navata centrale. Sono entrati ordinati dietro la bara e si sono sistemati con lo stesso ordine. Dopo Marta Fascina, dal centro verso l’esterno, Marina coi lineamenti più volte scossi e scomposti dal pianto, lo sguardo sempre fisso; accanto, Pier Silvio: giacca, camicia e cravatta blu, volto segnato da occhiaie grigie, sguardo mobile, a tratti quasi irrequieto; poi Barbara, un cerchietto a tenerle i capelli indietro; a seguire Eleonora, infine Luigi. Allineati in ordine di anzianità, dalla primogenita al più giovane, ed è come se la disposizione secondo un criterio il più possibile neutro sia servita da scudo: contro voci e ipotesi, contro tutto il possibile strologare sulle divisioni tra i primi figli e i tre di Veronica Lario. L’ordine della disposizione per evitare dettagli da interpretazione.
Accanto a Luigi, Paolo Berlusconi, il fratello che oggi ha perso Silvio e nel 2009, un anno dopo la madre, perse la sorella Etta. Durante la cerimonia il suo volto resta fisso, quasi inespressivo, bloccato in una maschera terrea che racconta la solitudine di ultimo rappresentante di una generazione in famiglia. Sarà Pier Silvio a dare il via al «dopo» Berlusconi, incontrando dopo la cerimonia i dipendenti di Mediaset riuniti negli studi di Cologno Monzese: «Da domani noi facciamo un clic e torniamo a essere un’azienda viva, piena di energia e forza, come è stata tutta la sua vita». In qualche modo, si riparte.
Marco Imarisio per il Corriere
Adesso è l’ora del congedo, non ci sono più parole da spendere. La messa è finita, andate in pace. I corazzieri si stringono, i necrofori si apprestano a sollevare la bara per l’ultimo viaggio. Appena dietro di loro, si sente un lamento. C’è un uomo sulla sedia a rotelle che mugola, non riesce a esprimersi, batte con il pugno sul bracciolo. Gli insulti del tempo lo hanno reso simile a un legno storto. Si voltano, e non lo riconoscono. Lo guardano perplessi e non capiscono, sono giovani.
Il Senatur
Umberto Bossi ha il volto coperto di lacrime che non riesce a fermare con le mani. «Lo voglio salutare» dice con uno sforzo enorme a chi si china su di lui. Ci vuole l’intervento dei giornalisti che si sono intrufolati fin lì, a qualcosa almeno serviamo, per spiegare chi è quel signore infermo, che facessero spazio, per favore. «Era un mio amico» sussurra quasi a giustificarsi il vecchio leone della Lega nord, mentre suo figlio Renzo, proprio lui, quello che chiamavano il Trota, dopo aver percorso l’intero perimetro del Duomo lo spinge avanti con dignità nel varco che si è aperto. «Gli ho voluto bene» geme Bossi.
Questa dovrebbe essere la cronaca di un funerale, ma è come se ieri ne fossero stati celebrati tanti in una sola cerimonia. Con Silvio Berlusconi finiscono molte cose, si chiudono in modo definitivo almeno due decenni, fatti in ordine cronologico di televisione, di costume e società, di sport e infine di politica. E non è proprio vero che furono gli anni peggiori della nostra vita, pazienza se all’estero non capiscono come non siano stati solo lustrini e paillettes, ci sono cose difficili da far capire in quanto molto, forse troppo italiane, com’era lui.
Certo, l’uomo non era di tutti e per tutti, rimangono le battaglie politiche e giudiziarie a provarlo. Alle 13 una signora si cala tra la folla in attesa indossando una maglietta «Io non sono in lutto», chiaro riferimento alle esequie di Stato e alla decisione imposta dal governo sull’onda emotiva generata dalla sua morte. Attimi di tensione, qualche insulto. «Vieni qui solo a farti pubblicità» le urla qualcuno.
Ma sarebbe stupido negare alcuni concetti semplici ribaditi dalla piazza che si sta riempiendo. In principio qualcuno dice che sono pochi, ma è solo perché non conosce Milano. Alla fine saranno quasi quindicimila persone, arrivate come sempre all’ultimo momento, dagli uffici e dagli altri luoghi di lavoro, che i familiari di Berlusconi ringrazieranno applaudendole a loro volta al termine delle esequie «Eri una persona umana» recita il cartello sorretto da due sue anziane sostenitrici, ed è una sola frase che forse conta più di mille commenti.
Le ovazioni
Giorgia Meloni scende dall’auto alle 14.40. Il suo arrivo ripreso dai maxischermi le vale un applauso che potrebbe avere un significato politico. A cinque minuti di distanza, seguendo la traccia del cerimoniale, fa il suo ingresso il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, anche lui accompagnato da una ovazione. Intanto, il corteo funebre è già in viaggio da Arcore. Ai bordi della strada si vedono molte persone che assistono al passaggio. Nei pressi dello stadio Brianteo, è quasi una piccola fiumana. Le auto passano davanti al palazzo di Giustizia, con la bandiera a mezza asta come tutti gli altri edifici pubblici. Se è un caso, ma non è detto che lo sia, c’erano possibili percorsi alternativi, sarebbe stato lui il primo a sorriderne.
La bara entra nella cattedrale. L’applauso che l’accompagna da fuori filtra attraverso le porte che si richiudono, così come il coro «Silvio, Silvio». Gli occhi sono tutti per loro. Per i Berlusconi, l’unica Dinasty che ci resta, e che al passo con i tempi potrebbe ben presto trasformarsi in Succession. La prima fila è composta dall’ultima compagna e dai cinque figli, e si chiude con il fratello Paolo, che segue gran parte della cerimonia con gli occhi socchiusi, chino su se stesso. Tanto si è scritto e detto, ma in questo momento così definitivo, sembrano davvero una famiglia unita. Si sostengono, si cercano con gli occhi, si accarezzano. Stanno nella prova.
Marta Fascina, la più vicina al feretro, piange in silenzio, con il padre Orazio che le posa spesso le mani sulle spalle per confortarla. Marina, la primogenita, è forse la più provata, anche se le graduatorie del dolore non esistono, cosa ne sappiamo noi, della fatica che ci vuole a sostenere tutti quegli sguardi. Siede accanto a Pier Silvio, che a un certo punto le stringe forte le mani, sussurrandole parole di incoraggiamento. Lei annuisce.
I volti
Anche a leggerla con il rigido filtro del funerale di Stato, la solitudine del Capo appare un concetto sopravvalutato. Il Duomo sembra diviso in due. Da una parte le autorità ufficiali, tra le quali un Matteo Salvini che fatica a trattenere l’emozione. E dall’altra, gli amici di una vita, Fedele Confalonieri e Gianni Letta che si asciuga di soppiatto una lacrima, Adriano Galliani che è stato il primo ad arrivare e ha una faccia sofferta che mai gli abbiamo visto prima d’oggi. Insieme a loro, sul lato destro della cattedrale guardando l’altare, i personaggi dello spettacolo, che a Berlusconi devono molto se non tutto. Il contrasto cromatico e antropologico tra le due parti non potrebbe essere più stridente. Quando mai capiterà ancora di vedere ministri, prefetti e alte cariche dello Stato che partecipano allo stesso lutto di calciatori famosi, di vecchi reduci di Drive-In, delle Iene in abbigliamento televisivo d’ordinanza, di Gerry Scotti, Flavio Briatore, DJ Ringo, Barbara D’Urso, Maria De Filippi.
«Vivere e amare la vita. Vivere e desiderare una vita piena. Vivere e desiderare che la vita sia buona, bella per sé e per le persone care. Vivere e non lasciarsi abbattere dalle sconfitte e credere che c’è sempre una speranza di vittoria, di riscatto». La difficile spiegazione di come sia stato possibile attraversare e unire mondi così diversi spetta all’arcivescovo Mario Delpini. Nella sua omelia descrive al meglio quella spinta interiore di Berlusconi che rimane il suo mistero più grande. Ma al tempo stesso, lo definisce «uomo d’affari» che in quanto tale «guarda ai numeri e non ai criteri», e uomo politico «quindi sempre di parte», quasi a riconoscere il potenziale divisivo della sua figura. Sono passaggi sui quali si è già cominciato a discutere. A noi sono sembrate soltanto parole che hanno reso onore alle qualità più intime della persona scomparsa, tenendo ben lontane le opposte tentazioni del moralismo e della beatificazione.
Perché infine non resterà che l’ultima immagine, affidata alla gente, alla sua città, con la quale non sempre Berlusconi ha avuto un rapporto facile, sentendosene a volte respinto. Quando invece le porte del Duomo si aprono sulla luce della piazza, esplode un boato di voci, di cori e di bandiere, soprattutto rossonere. Guarda Silvio, è la tua Milano, che ti saluta.

Massimo Gramellini per il Corriere
L’unico che mancava era lui, forse. Sono stati i funerali eleganti di un «re multitasking», come lo ha definito Emanuele Filiberto, esperto del ramo. Quale altra cerimonia sarebbe stata capace di tenere insieme Mattarella e Lele Mora, Giorgia Meloni e Franco Baresi, Mario Draghi e Maria De Filippi, Elly Schlein e Ilary Blasi, le corone di fiori di Lapo e Belen, ma anche quelle del Milan club Parigi e dei residenti di Milano 2?
L’ unico che mancava era lui, il presenzialista per antonomasia. Ma se c’era, e secondo me c’era, si sarà commosso e divertito: per gli umori della piazza, dove sventolavano bandiere di calcio e di partito, e si sentivano cori da stadio su «chi non salta comunista è» trasmessi in religioso silenzio dalle tv. Ma soprattutto per il passaggio del feretro davanti al Palazzo di Giustizia – il Palazzo di Giustizia, dico – con le bandiere a mezz’asta in suo onore. Maniaco della precisione com’era, si sarà magari arrabbiato per qualche piccola sciatteria dell’organizzazione. Per esempio, il segnaposto sulla sedia riservata in chiesa alla ex moglie recava scritto «Veronica Bartolini», improbabile incrocio tra il vero nome, Miriam Bartolini, e quello d’arte: Veronica Lario. Si sarà però ringalluzzito nel vedere che in piazza c’era una sola voce critica: una signora con la maglietta bianca e lo slogan «Non sono in lutto». Avrà pensato che tutti gli altri detrattori fossero finalmente passati dalla sua parte. O invece che lo avevano già dimenticato? No, questo avrà preferito non pensarlo affatto.
Dentro e fuori dal Duomo c’erano le sue tantissime Italie, una miscela inedita e irripetibile di ministri e centravanti, imprenditori e conduttrici, seguaci in tacco dodici e tifosi vari. Di mondo invece ce n’era pochino, praticamente solo l’ungherese Orbán e l’emiro del Qatar. L’assenza dell’establishment occidentale lo avrà offeso, ma non stupito: non poteva certo aspettarsi Sarkozy, Angela Merkel o «mister Obamaaa» in prima fila. Anzi, avrà considerato la loro latitanza come la prova provata che, per quanti imitatori abbia avuto all’estero, la sua complessa natura di «re multitasking» è stata percepita come tale soltanto in Italia. Però qui l’hanno percepita davvero tutti. Persino l’arcivescovo di Milano, monsignor Delpini. La sua magistrale omelia può essere letta per dritto e per rovescio: come un omaggio sincero ai talenti del defunto, ma anche come una riflessione critica sull’«uomo d’affari che, dovendo fare affari, forse si dimentica dei criteri». Chissà come l’avrà presa lui. Di sicuro non gli sarà dispiaciuto il passaggio in cui Delpini loda la sua voglia di vivere «senza troppi pensieri né inquietudini», che è l’immagine, non sappiamo quanto reale, che Berlusconi ha sempre voluto diffondere di sé. E da appassionato della grande Storia, o comunque dei riassunti che gliene faceva il colto Confalonieri, sarà stato lusingato dal riferimento finale al personaggio potente che, terminata la sua esistenza terrena, si presenta da semplice uomo davanti a Dio: più o meno le stesse parole rivolte, proprio in Duomo, da Sant’Ambrogio all’imperatore Teodosio.
C’è poi un aspetto della cerimonia che lo avrà colpito, forse sorpreso, sicuramente inorgoglito: la sua sobrietà, così lontana dal modello che nei decenni ci siamo abituati a etichettare come «berlusconiano». I figli erano assorti, composti, impeccabili. E anche chi non riusciva a nascondere i segni del dolore, come la compagna Marta e la primogenita Marina (la loro camminata sul sagrato mano nella mano è l’immagine simbolica della giornata) trasmetteva un senso di misura e dunque di sincerità. L’unico gesto, per così dire, «volgare» è arrivato dai tanti politici che in chiesa hanno sguainato il telefono per riprendere il passaggio della bara lungo la navata centrale. «Forse si aspettavano che saltassi fuori», avrà commentato lui. E non è mica ancora detto che non lo faccia.

Francesco Verderami per il Corriere
Nel Duomo di Milano è raccolta la storia politica dell’ultimo trentennio. Il volto di ogni leader è come lo stendardo di altrettante battaglie, vissute da una parte e dall’altra della barricata. Come reduci di guerra si accomiatano da Silvio Berlusconi e da un pezzo della loro vita. Insieme voltano la pagina che hanno contribuito a scrivere, in attesa di capire come verrà riempita la prossima. Perciò l’attenzione è concentrata su Meloni, che simbolicamente tende la mano per raccogliere il testimone.
I segni sono inequivocabili. La premier – dopo la lettera al Corriere – pubblica sulla rete un video commemorativo del Cavaliere in cui promette che non lo dimenticherà e che lo renderà orgoglioso. E in attesa di varare in sua memoria il pacchetto di riforme sulla giustizia, sul sagrato del Duomo abbraccia e bacia i figli del fondatore del centrodestra.
La liturgia è rispettata fino in fondo, «le manca solo di salire su un predellino», sussurra Renzi. Ma per assumere l’eredità politica di Berlusconi anche un solo passo non sarà piccolo e nemmeno facile, siccome il Cavaliere è stato il sistema metrico-decimale della Seconda Repubblica «e ora – spiega il governatore ligure Toti – bisognerà inventare un’altra unità di misura per andare avanti». Bisognerà capire come reagirà Fratelli d’Italia e come reagirà Forza Italia che – visti i presenti alla funzione religiosa – è un mondo molto più vasto e composito della percentuale che detiene. Resistenze personali si sommeranno a differenze politiche e culturali, pertanto non è scontato l’esito dell’operazione. Se si darà vita a una variante e l’intesa con Meloni sarà mediata da una lista alleata ancorata al Ppe. Una cosa è certa: ora che il numero di Arcore non squilla più, in tutti si scorge l’urgenza. Quasi fosse una emergenza.
Ma per due ore l’assillo resta fuori dal portone del Duomo. In chiesa ognuno si raccoglie pensando ai suoi trascorsi con Berlusconi. Chissà se la premier avrà ricordato quando – da giovane ministro – aderì alla battaglia del Cavaliere contro i «mostri architettonici» disegnati dalle «archistar di sinistra». «Mi hanno messo in croce con una serie di appelli per le villette che ho fatto allestire a l’Aquila dopo il terremoto. Ma Giorgia mi fa notare che sono gli stessi che hanno progettato quartieri come lo Zen a Palermo». E in pieno Consiglio dei ministri si sentì «Giorgia» esclamare: «Bravo presidente, buttali in mezzo alle tende ‘sti falsi potenti». O forse Meloni – da capo del governo – avrà pensato all’ultimo litigio con Berlusconi a causa della guerra: «Silvio ma non mi puoi dire certe cose. Mi sembra di sentire la propaganda russa». La telefonata finì male. Poi arrivò la ricomposizione.
La storia di Berlusconi incrocia le storie dei presenti. Casini, che fu contemporaneamente alleato e avversario del Cavaliere, avrà rammentato le parole che gli giunsero dal vertice del centrodestra quando il suo partito volle e ottenne una crisi lampo di governo. «E va bene, dovrei mandarvi a quel paese. Ma siccome sono una persona educata – sorrise a denti stretti Berlusconi – manderò a voi e al vostro amico Pier delle cartoline dalle Bermuda». Il fatto è che, a volte, la realtà aumentata del Cavaliere si trasformava in verità che non coincideva con la realtà. La nomina di Draghi alla Bce, per esempio, faceva parte del catalogo. Non si sa se all’ex governatore la cosa sia passata per la testa durante la cerimonia. Berlusconi ha sempre detto di essere stato lui ad indicarlo ai partner europei e «Supermario» non ha mai sconfessato la versione. Sebbene la proposta fosse arrivata da Sarkozy.
La cerimonia degli addii si consuma tra ricordi e sospiri. E quando Mattarella entra nel Duomo tutti capiscono che la storia si è compiuta definitivamente. Il capo dello Stato rende omaggio a trenta anni di confronti politici e di legittimi conflitti, che si intersecano nei passaggi della bicamerale per le riforme ai tempi di D’Alema e si concludono con l’elezione al Quirinale. Ma il suo ruolo è stato fondamentale nella vicenda politica del Cavaliere.
Se Berlusconi è diventato Berlusconi lo deve a Mattarella, alla sua legge elettorale: il Mattarellum che pose fine alla stagione proporzionale. Fu il Mattarellum che consentì infatti al Cavaliere di arrivare a Palazzo Chigi e di diventare l’alfiere del sistema bipolare, l’interprete di una stagione che non è più finita, nonostante il cambio di modello per il voto. E sarà una coincidenza ma sul sagrato, per dare l’ultimo saluto a Berlusconi, Mattarella e Meloni sono fianco a fianco: da una parte chi con la sua legge elettorale aprì la sua fase politica; dall’altra chi vorrebbe ereditarla.