la Repubblica, 15 giugno 2023
Intervista ad Antonio Albanese
Con Giuseppe Verdi condivide la data di nascita. E nel Rigoletto trova pane per i suoi denti: la figura del comico-malinconico, il “buffone” solitario e tragico anche quando fa ridere. Antonio Albanese debutta all’Arena di Verona l’1 luglio come regista della grande opera di Verdi/Piave (scene di Guillermo Nova, direzione musicale di Marco Armiliato). La fa diventare quasi un film in bianco e nero: in scena, non a caso, si vedrà anche un cinema all’aperto. E sul telone passerà qualche fotogramma – struggente – di Bellissima di Visconti. Come funziona un melodramma a tinte neorealiste?
«Melodramma e neorealismo sembrano due estetiche contrapposte. O forse no, perché insistono entrambi su emozioni integrali, viscerali. Sul batticuore. E davvero non so se un regista d’opera e un cineasta compiano gesti poi così diversi».
Albanese, il suo è un ritorno. E, ormai, si può parlare di una passione duratura.
«La mia avventura con l’opera da regista è cominciata ormai più di dieci anni fa, con un Donizetti alla Scala di Milano. Ma prima ancora sono stato interprete di Pierino e il lupo nel 2001, ancora alla Scala. Una decina di anni sono tornato a Donizetti, con un Don Pasquale al Petruzzelli di Bari. Nel mio modo irregolare di interpretare il lavoro che faccio, mi sembra che l’opera aggiunga una possibilità di raccontare il nostro tempo ripartendo proprio da quei “fondamentali” che non hanno tempo. I sentimenti più accesi, la passione, la rabbia, il desiderio».
Quanta ansia le mette l’idea di debuttare all’Arena?
«È una gioia incontenibile. Mi preparo sapendo di dover entrare con rispetto in un luogo così straordinario e unico. E che quello che posso mettere a disposizione di questa regia è il mio sentimento dell’interpretazione, il lavoro sul corpo degli attori-cantanti. D’altra parte, mi viene naturale diventare tutti i personaggi, incarnarli. Provarli e riprovarli come se dovessi interpretarli io. Cosa che credo farò anche dietro le quinte».
Le scelte di regia spesso fanno saltare sulla sedia i melomani di stretta osservanza. Lei sarà fedele o infedele?
«Credo che anche quando ci si allontana dall’ambientazione originale, sia importante non tradire un’atmosfera e un linguaggio. Il mio Rigoletto l’ho immaginato negli anni 50, in un secondo dopoguerra italiano affollato di macerie. Fisiche e morali. La guerra genera follia e dolore. Lascia segni. E quel casolare del mantovano al centro della scena emana un malessere che rimane nei luoghi come una traccia, un’aura a rovescio».
Quanto c’entra la lezione dei maestri neorealisti?
«Credo che il pubblico riconoscerà quel modello di racconto immediato, vicino ai soggetti e alle storie che racconta. Un azzeramento delle distanze. Un modo di restituire la vita com’è, di farla palpitare, sentire viva e struggente nella sua verità».
E della dialettica Rigoletto/Duca di Mantova qual è l’aspetto che le interessa mettere in rilievo?
«Rigoletto è un uomo psicologicamente sofferente, vive il suo amore malato. Il Duca di Mantova è l’arrivista di sempre, l’uomo di potere che approfitta del potere. Si sente superiore, intoccabile, protetto da un’impunità che gli permette di comportarsi in maniera disonesta. L’attualità dell’opera è notevolissima, siamo in un oggi eterno che mette a fuoco i rapporti di forza. Ma ciò che mi commuove è il costante movimento fra dolore e leggerezza, fra cupezza e desiderio. In un passaggio del terzo atto, in un momento di rabbia e tensione estrema, il Duca camuffato canta “La donna è mobile”…».
Che effetto le fa “sparire” nel lavoro di regia, essere invisibile?
«Anche se invisibile, me ne starò per conto mio a recitare tutti i personaggi. Perché non riuscirei a fare altrimenti. Non solo è eccitante avere a che fare con il talento puro, il dono quasi divino dei musicisti; è bello anche ascoltare, riascoltare, assimilare il cuore emotivo del testo e tradurlo in una visione che poi si cala in uno spazio scenico, in questo caso imponente. La larghezza dell’impianto scenografico misura quasi cinquanta metri. Non c’è bisogno di insistere su una parola abusata e che trovo insopportabile nel mondo culturale: evento. Stando all’etimo, è il puro accadere, l’avvenimento: non c’è bisogno di trasformare in evento ciò che già, nei fatti, lo è. L’incanto della voce, la magia del racconto».