Corriere della Sera, 15 giugno 2023
I 100 anni dell’Arena
VERONA Sul palco ci sono le rovine del passato e del post moderno, colonne diroccate dell’antichità e macchine avveniristiche distrutte alla Mad Max. Sono gli effetti della guerra e della tecnologia, «dell’ostinata distruzione dell’uomo per raggiungere tutto», dice Stefano Poda, a cui Cecilia Gasdia, sovrintendente pasionaria veronese, ha affidato l’Aida del centenario (come le edizioni, in realtà si aprì nel 1913, però ci fu l’interruzione della guerra) dell’Arena.
Si è partiti dall’idea di avere un regista italiano, e si insiste sull’italianità. Lo spettacolo è concepito come una installazione, e si vedrà domani in mondovisione su Rai1, presentato da Alberto Angela, Luca Zingaretti e Milly Carlucci. Era stato invitato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ma non ci sarà. Saranno presenti Sophia Loren, madrina della serata, e ben sette ministri, oltre a cantanti dell’altra musica, quella leggera: Gigliola Cinquetti, Orietta Berti, Iva Zanicchi, Morgan. E poi Jerry Calà, Lino Banfi, Fabio Testi e altri volti nazional-popolari, lontani dall’ortodossia della lirica.
Risuonerà l’inno nazionale (il coro in tuniche verde, bianche e rosse) e appariranno le Frecce tricolori che in realtà qui sopra volano da giorni, in prova anche loro: i tempi musicali e i tempi militari dovranno andare di pari passo. Acrobazie, archeologie e musica. La ripresa di Rai Cultura annovera 19 telecamere, 2 steadycam e un drone. Sul podio Marco Armiliato, la star è Anna Netrebko (il 7 dicembre riaprirà la Scala), schiava etiope e Radames è suo marito, il tenore Yusif Eyvazov, che sfoggia un abito con 6500 pietre incastonate.
Quest’Aida è «un viaggio epico, come un grande romanzo dell’800», dice Poda. Che ha 50 anni, è nato a Trento, lavora prevalentemente all’estero ed è al suo debutto in Arena, culla della tradizione, che considerava un mondo lontano dalle sue «visioni». Si definisce un umanista, cura anche scene, costumi e luci.
Frecce tricolori
Durante l’esecuzione dell’inno nazionale
in cielo appariranno
le Frecce tricolori
E cita come richiami ideali Dostoevskijj e Manzoni. Ma anche Dante: «È un viaggio simile a quello della Divina Commedia, si parte dall’Inferno e si arriva alla speranza della redenzione, alla catarsi», con i due eroi impossibilitati ad amarsi in vita che si ameranno per sempre sottoterra, sigillati da una pietra. L’Arena voleva un’Aida nuova ma non trasgressiva, sperimentale ma non concettuale. Uno spettacolo concepito per questo spazio, un grande circo, che qui ha ragion d’essere, con momenti di forte impatto. Un allestimento evocativo, che suggerisce e non rappresenta, con un sottofondo filosofico non sempre facile da decodificare, dove l’uomo è piccolo, sofferente, autodistruttivo.
Togliere e «purificare» sono le parole che il regista agita come un mantra (il suo Tristano e Isotta, regno della voluttà, era una resa all’erotismo). Nella scena del trionfo, tutta argentata, con movimenti stilizzati e costumi che rimandano rumori che diventano altri suoni, scena di grande impatto, non c’è retorica, ma tracce di popoli «che hanno subìto la guerra o l’hanno esercitata. I vinti, in perizoma e una tuta color carne (no black face), strisciano per terra formando un effetto Nilo, e hanno una loro dignità se non fierezza, e poi si alzano in piedi e formano un vero esercito. Un po’ come in Manzoni, Verdi non protegge i vinti e non disprezza i vincitori. Abbiamo una grande civiltà scomparsa che ci fa riflettere», sottolinea il regista Kolossal? Sì e no. Sì per i 400 sul palco, tra cantanti, coristi, figuranti eccetera.
Ma qui le piramidi alla Zeffirelli, dorate e scintillanti, non ci sono: troviamo piramidi al laser, o ricostruite con materiale trasparente, come quella che si trova davanti al Louvre, per capirci. I costumi sono un sintetico contemporaneo che mantiene l’arcaico, borchie e intarsi medievali, e chilometri di plissettati che rimandano a Capucci, o bianchi e neri, stile Armani. Un catalogo dell’artigianato italico tornato in auge in questo tripudio di tricolori.
La scenografia è dominata da una grande mano meccanica, di venti metri, robotica, metallica, che si snoda con tutte le falangi. Accanto, a destra e a sinistra del palco, ci sono decine di manine infilate su delle lance. «La mano è tutto – spiega Poda —. È il senso della civiltà egizia, è il simbolo dell’uomo, la costruzione e la distruzione». La mano accarezza e uccide, si fa preghiera o pugno, gesto bellico che accompagna l’azione. Poi c’è una piattaforma di policarbonato inclinata da cui emana la luce.