Corriere della Sera, 15 giugno 2023
Intervista a Carmen Lasorella
Carmen Lasorella, lei è stata una delle più famose giornaliste televisive. Ma è vero che da ragazza tutto voleva fare tranne che la tv?
«Volevo scrivere. Oddio, i miei mi avrebbero voluto avvocato. Nata a Matera da una famiglia senza potere né blasone, la televisione è davvero arrivata per caso. Mi ero appena laureata in Legge quando la sede regionale lucana mi chiamò per presentare un premio letterario. È iniziato lì e non è stato facile».
Otto anni di precariato in Rai.
«Però otto anni belli. Senza l’esclusiva potevo fare altri lavori, ho fatto anche il procuratore legale. E comunque sono stata la prima giornalista in Rai ad andare in conduzione pur essendo precaria».
Antonio Ghirelli, il direttore del Tg2 dell’epoca, le disse: «Si’ ‘na bella guagliona e hai stoffa».
«So bene che il mio aspetto fisico mi ha aiutato. Però riflettiamo: erano gli Anni Ottanta, in tv pochissime erano le donne viste come “firme” e non piuttosto come intrattenitrici. Io, Lilli Gruber, Tiziana Ferrario e le altre cominciammo ad affermarci allora. Ghirelli vide le donne come protagoniste dell’informazione, fu un passo avanti. E poi io avevo una tattica, giocavo col cognome per ottenere interviste. Chiamavo la segreteria di un ministro e dicevo: “Mi passa il dottor Tal dei Tali? Sono la sorella.” Ci cascavano quasi tutti. Solo il più furbo non la bevve, ma non dirò chi era».
Con Lilli Gruber eravate amiche?
«Ci siamo sempre ignorate serenamente».
Due tipi molto diversi.
«Parlo per me: io avevo questo pallino della politica internazionale. Studiavo, mi preparavo su aree specifiche del mondo, non mi truccavo, vestivo casual, puntavo molto sulla specializzazione. Finché, alla fine degli anni Ottanta, arrivò la grande occasione».
Cominciava l’operazione «Golfo 1», in cui i cacciamine italiani avrebbero partecipato allo sminamento delle acque tra l’Iran e l’Iraq. E in pieno agosto chi c’era in redazione?
«Solo io. Ok, mi dissero, parti tu».
Diciamola bene: oggi che una giornalista sia inviata in fronti caldi internazionali è normale, ma allora no.
«No, anzi. In quel caso per la prima volta una giornalista della Rai si affacciava su un teatro di crisi. Com’è comprensibile, gli ascolti del Tg2 si impennarono e lì avvenne una delle cose più spiacevoli della mia carriera. Giorgio Bocca, su Prima Comunicazione, scrisse un articolo intitolato “La tv dei cretini”, dicendo in sostanza che la gente guardava quel tg solo perché c’era una “con le poppe al vento”, testualmente. Fu un’offesa che non potevo ignorare e querelai il giornale».
Le scuse di Bocca furono una toppa peggio del buco, vero?
«Sì, perché mi scrisse un biglietto che recitava così: “Mia moglie e mia figlia mi dicono che ho esagerato. Credo che abbiano ragione”. Gli dissi che servivano scuse pubbliche e il mese dopo Prima Comunicazione uscì con un ampio pezzo dal titolo “Pubbliche scuse”. Con Bocca ci siamo anche rivisti e abbiamo sorriso di questo fatto, però vede, se in Italia alle soglie degli Anni 90 eravamo a questo livello, capisce quanto sia stato importante per me rompere quel soffitto di cristallo e fare, nel mio piccolo, qualcosa per le altre donne?».
Anche perché lei è stata un’inviata che ha fatto corrispondenze in sessanta paesi e che è riuscita a fare interviste importanti, per esempio con Siad Barre.
«Ho vissuto l’epilogo della Somalia di Siad Barre, documentando la fine di quel regime durato più di vent’anni. L’ho incontrato in una intervista rocambolesca, che avrebbe dovuto avere luogo alle 16 a Nairobi. Non si presentò nessuno. Alle quattro del mattino mi chiamarono al telefono e mi dissero di andare con la troupe in aeroporto. Lì ci aspettava un Cessna con un piano di volo fasullo che ci depositò nel cuore della savana. Quando finalmente arrivammo nella casamatta dove ci aspettava il dittatore mi accorsi che mancavano le luci giuste. Ah no, dissi, io così l’intervista non la faccio. Mi guardarono come si guarda una folle. Ma lo convinsi a posare all’esterno, con il suo trono e circondato dai suoi fedelissimi. Il giornalismo è ruvido».
A volte pericoloso. Lei è scampata a un attentato a Mogadiscio.
«Il fuoco incrociato degli assalitori ci ha tenuti per mezz’ora in ostaggio dentro una Land Cruiser non lontano dall’aeroporto, il 9 febbraio del 1995. L’operatore Marcello Palmisano morì sotto i miei occhi. Fu uno choc».
Lei lasciò allora il Tg2, fece altri programmi. Ma arrivò la chiamata di Berlusconi. Mentana stava rimpolpando il suo giovane Tg5.
«In Via dell’Anima eravamo io, Gianni Letta e il Cavaliere. Quando arrivò, Berlusconi mi disse: “Allora dottoressa è fatta, è dei nostri?”. Io risposi che avrei voluto più dettagli sul progetto e su che tipo di ruolo aspettarmi. Il Cavaliere rispose subito: “Va bene, ma le offro di più di quello che le hanno detto”. Alla fine poi non se ne fece nulla».
In seguito il suo rapporto con la Rai è stato complicato: cause per demansionamento, reintegri difficili. Lei è via dal 2019.
«Sì ma sono anche stata la prima presidente di RaiNet, corrispondente da Berlino e direttrice della sede di San Marino. Ho fatto tanto, diciamo che non sono “sparita”, come molti pensano, ma ho deciso di fare altro. Di prendermi il mio tempo, di pensare agli affetti, come mia madre che ha più di cento anni».
Il 30 giugno esce «Vera», romanzo edito da Marietti 1820.
«Una storia di sentimenti e di diritti nell’era informatica che ha per protagonista una donna, un’attivista. E tante altre donne. Si parla di migrazioni, visto che oggi quello che sta succedendo nel mondo è una vergogna, penso che spostarsi sia un diritto. Si parla di catastrofi climatiche, visto che sono ormai la realtà. È vero che mi sono staccata dalla narrazione dei fatti, ma anche la mia fiction resta ancorata a quello che succede».
E dopo un matrimonio finito, che lei stessa chiama «l’Errore», nella sua vita c’è William.
«Quando me ne sono andata da San Marino mi sono detta che mai più ci sarei tornata. Oggi con William abbiamo lì una casa. Il bello della vita è anche ritrovare quello che siamo convinti di avere perso».