Corriere della Sera, 15 giugno 2023
Su "La vita che non voglio" di Roberto Perrone (HarperCollins)
Precisa. Schematica. Decisamente incantevole. Forte delle sue regole contrappuntistiche e della struggente polifonia delle sue diverse voci, la fuga è, musicalmente, qualcosa che ha a che fare con l’arte. E, come tale, necessita di quelle regole che a volte è necessario infrangere per rincorrere altro. Del resto, si fugge sempre da qualcosa, da qualcuno o semplicemente da sé stessi senza preoccuparsi troppo di chi o di che cosa si abbandona. E anche questa è un’arte. Allo stesso modo, come seguendo una partitura antica in cui le note sono graffiate dalla vita vera, un uomo e una donna lasciano tutto dietro di sé per concedersi di rifiatare. «Rifiatare significa scappare, fuggire, allontanarsi, staccare da persone e situazioni e trovare un luogo tranquillo dove rifugiarsi, in attesa di un mutamento della condizione umana». E non è un caso che quell’uomo e quella donna scelgano come rifugio la Sicilia invertendo la rotta di chi, storicamente o narrativamente, da lì se n’è sempre andato.
È la possibilità di un’isola, quell’approdo gentile da cui ha inizio il romanzo postumo di Roberto Perrone, La vita che non voglio (in libreria da domani pubblicato da HarperCollins), che, come un regalo insperato, addolcisce il ricordo della sua memoria — è scomparso a gennaio di quest’anno — e riporta al lettore il suo sguardo sul mondo e quella sua scrittura tonda, avvolgente, lontana da ogni retorica grazie alla quale la sua voce arriva, ancora una volta, forte e appassionata.
Lena è una giornalista poco più che trentenne, irrequieta e silenziosa, costretta suo malgrado a prendere una decisione che può solo procrastinare scappando a Trapani a casa di Anastasia, detta Ani, «un incrocio tra Madre Teresa di Calcutta e la migliore gattara di Roma», per cercare quella tranquillità che a Milano le è negata.
Peccato che non sia da sola come aveva precedentemente programmato perché un’altra persona ha avuto la sua stessa idea: è Patrick Kessler, un anziano prete tedesco con la passione per il caffè italiano e per l’iconografia del Cristo, che si accomoda in macchina accanto a lei per raggiungere l’agognata pace nel refugium peccatorum della comune amica. Ed è grande, calda, pulsante la casa che li accoglie e che si sottrae a ogni logica architettonica perché sa di vita, di colori, di passioni, esattamente come Ani che, appena il tempo di una cena, si accomiata dai due fuggiaschi a causa di una peritonite che la obbliga al ricovero coatto in ospedale. E, come diretta conseguenza della sua assenza, costringe i suoi ospiti a una bizzarra convivenza che non lascia loro molte alternative se non una variazione colorita delle comuni aspettative. Del resto, nelle fughe gli imprevisti sono sempre da mettere in conto, no?
Ne nasce un curioso e regolare ménage in cui il tempo è scandito dalle abitudini che, al pari di un contrappunto, muovono i due coinquilini in una ripetizione di azioni e di gesti man mano più familiari e che, come tali, sembrano lenire dolori e preoccupazioni. «Sì, questa è la vita che voglio, amici, parole, orizzonti sgombri, possibilità, basta con l’oppressione» pensa Lena, per lo meno fino al giorno in cui un messaggio sul telefono la riporta alla realtà e a quei pensieri con la cui assenza, fino a quel momento, aveva giustificato la sua fuga.
La girandola di sentimenti che si rimette in moto potrebbe avere il potere di sopraffare la ragazza se non fosse che padre Kessler, fedele all’abito talare che indossa, non la invitasse ad aprirsi in una confessione sui generis che sarà scandita, nottetempo, dall’immancabile dose di caffeina. A cui farà da contraltare, sempre seguendo idealmente uno spartito musicale, il racconto del prete in un dialogo di solitudini agli opposti, che non si riconoscono ma che, nonostante tutto, finalmente si accolgono. Perché «quando sembra tutto fermo la tua ruota girerà, sopra il giorno di dolore che uno ha» canta Ligabue, citato nell’esergo che apre il romanzo; e lo pensa il lettore quando la dedizione alla narrazione viene sostituita da una malinconia lieve che possiede, naturalmente, quel respiro ampio e ricco di emozioni che si può e si deve condividere per lasciare poi sedimentare.
La vita che non voglio, di base, è proprio questo: un romanzo che contiene una matassa di emozioni e sentimenti da sbrogliare che il tempo immobile creato dalla fuga dei due protagonisti congela giusto il necessario per permettere loro di poterli affrontare. Ma è, insieme, un contenitore privilegiato di quell’umanità di cui Roberto Perrone è fine indagatore e che si ritrova in quel suo gusto prezioso del racconto, in quei personaggi apparentemente semplici la cui complessità si svela, pagina dopo pagina, quasi in sordina; in quella freschezza con la quale scandaglia l’animo umano restituendone un acquerello pastoso e lieve. In quella curiosità mite, anche, accompagnata da una straordinaria capacità di entrare in connessione con chi legge per regalargli, ancora una volta, un romanzo generoso e profondo. Esattamente come lui.