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 2023  giugno 15 Giovedì calendario

L’età di Berlusconi è finita col tramonto del secolo

Non c’è stata, negli ultimi cinquant’anni della nostra vicenda nazionale, una personalità che abbia inciso così a fondo nella carne del Paese come Silvio Berlusconi. E anche se allarghiamo lo sguardo al di là delle Alpi, ai nostri tempi non troviamo molte altre figure storiche che abbiano avuto un impatto paragonabile. Gli storici del futuro si eserciteranno a lungo sulla biografia del Cavaliere e ne daranno inevitabilmente una valutazione articolata. Nel momento stesso in cui gli dedicheranno la propria attenzione, tuttavia, ne staranno riconoscendo la rilevanza straordinaria.Se dovessi condensare in una sola battuta il valore storico della vicenda umana di Berlusconi, direi che ha impersonato meglio di chiunque altro in Italia, ma forse perfino nel mondo, lo spirito dell’ultimo quarto del ventesimo secolo. Come secolo del primato della politica, segnato dai totalitarismi ma anche dal keynesismo e dal welfare state, il Novecento comincia a concludersi nella seconda metà degli anni ’60 col presentarsi e il fallimento dell’ultima esplosione di politica, la contestazione studentesca e operaia. Nel decennio successivo si apre una fase storica ben diversa, che potremmo dire post novecentesca, segnata per un verso dal rifiuto più o meno radicale della politica, e per un altro dalla fiducia ottimistica nella capacità del mercato e della società civile di produrre spontaneamente ordine e progresso. Questa fase si consoliderà nel corso degli anni ’80 e giungerà al suo punto culminante dopo il crollo del comunismo. Sul terreno internazionale il suo spirito si è incarnato soprattutto in Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Da noi, in Berlusconi.Diversamente da Thatcher e Reagan, a quello spirito Berlusconi ha dato sostanza già da imprenditore. Prima come costruttore di un’interpretazione italiana delle “gated communities": comunità urbane protette e compiute in se stesse, quasi piccoli stati nello Stato capaci di offrire a chi li abitava servizi pubblici esclusivi sostitutivi o ulteriori rispetto a quelli, ritenuti insufficienti, forniti dalle istituzioni. E poi, soprattutto, come tycoon televisivo. I canali Mediaset si sono contrapposti frontalmente alla Rai da un punto di vista filosofico prim’ancora che aziendale: quanto questa era terreno di caccia della politica e dei partiti, animata almeno in teoria dall’aspirazione di educare gli italiani – di farli «scendere dagli alberi», secondo una frase attribuita allo storico direttore generale dell’azienda, Ettore Bernabei –, tanto quelli ambivano invece a esprimere la vitalità della società civile, a diventare uno specchio dei pensieri e sogni degli italiani per com’essi erano davvero, non per come le élite politiche e intellettuali avrebbero voluto che fossero.Molto è stato detto, di negativo, sugli anni ’80: sull’individualismo, sul predominio del mercato, sull’appassire della politica, dell’impegno civico, della dimensione pubblica. Tutto vero. Ma non possiamo nemmeno dimenticare l’impulso fortissimo a sovvertire le gerarchie tradizionali ed emancipare i desideri soggettivi che quell’individualismo portava con sé. Non possiamo dimenticare insomma quanto gli anni ’80 siano stati un figlio irregolare delle aspirazioni rivoluzionarie degli anni ’70. È in questo terreno che ha affondato le sue radici la poderosa spinta libertaria e, a suo modo, egualitaria che ha caratterizzato il berlusconismo politico. Una spinta che la cultura progressista, altrettanto robustamente radicata nel moralismo, non è mai stata in grado di comprendere. Quella cultura non si è nemmeno avvicinata a capire quanto profondamente democratico fosse il berlusconismo, e per questo non gli è riuscita a prendere le misure e, dallo scontro, è uscita spesso con le ossa rotte.Nel 1994 Berlusconi ha saputo riempire col suo messaggio individualistico, libertario, vitalistico e sostanzialmente antipolitico l’immenso spazio politico che avevano aperto i magistrati di Mani pulite. Fare politica con un messaggio antipolitico può sembrare una contraddizione in termini. Ma è una contraddizione che segna tutti gli anni ’80, e non soltanto in Italia. Proprio in virtù della sua biografia d’imprenditore, poi, Berlusconi era perfetto per maneggiare quell’antinomia senza farsene intrappolare. Infine, la cospicua parte destra dell’elettorato italiano sembrava fatta apposta per apprezzare il progetto proprio nella sua ambivalenza: militante abbastanza da partecipare alla vita pubblica, ma pure sufficientemente diffidente della politica e dello Stato da dare il proprio voto a un leader che prometteva di ridimensionare questo e quella.La rivoluzione liberale – il risvolto costruttivo delle emozioni per lo più negative che ho illustrato finora – non si è mai materializzata, com’è ben noto. Berlusconi non era Thatcher, l’Italia non era il Regno Unito, gli anni ’90 non erano gli ’80. Soprattutto, quando Berlusconi è arrivato a governare stabilmente il Paese, nel 2001, il clima storico si era ormai profondamente modificato. Con la svolta del secolo l’ottimismo e la fiducia negli spiriti vitali della società italiana hanno cominciato a lasciar spazio a un pessimismo crescente e al senso che la Penisola fosse entrata in una fase decadente. Come detto, Berlusconi incarnava lo spirito fiducioso dell’ultimo quarto del Novecento – con l’atmosfera cupa dell’inizio del ventunesimo non aveva più molto a che vedere. Certo, si è schierato al fianco di George W. Bush nella guerra al terrore, ha collaborato con la Conferenza episcopale del cardinal Ruini negli scontri biopolitici di quegli anni. Ma erano conflitti, in definitiva, che avevano ben poco a che vedere con la sostanza spensieratamente, caoticamente, inclusivamente libertaria del berlusconismo. Era molto più nelle sue corde, semmai, lo spirito di Pratica di Mare, la promozione dell’incontro fra Russia e Stati Uniti: il Cavaliere era uomo di giochi a somma positiva, di transazioni felici e remunerative, non di lotte di religione. Perfino quando faceva l’anticomunista.Alla fine del primo decennio del ventunesimo secolo, con la grande recessione, la fiducia nelle magnifiche sorti e progressive consolidatasi alla fine degli anni ’70 si è spenta del tutto e l’atmosfera storica, per il berlusconismo, si è fatta mefitica. Fra il 2011 e il 2013 la crisi del debito sovrano, il governo Monti e il successo elettorale del Movimento 5 stelle hanno fatto a pezzi il sistema politico bipolare che il Cavaliere aveva saputo costruire intorno a sé. Dotato di risorse straordinarie – vitalità, determinazione, televisioni, soldi –, Berlusconi è rimasto un protagonista della vita pubblica italiana per dieci anni ancora. La sua stagione era finita, però, e nella posizione centrale che aveva occupato fino ad allora nel sistema politico si sono avvicendati altri: Renzi, Grillo, Salvini, Meloni.Il nuovo clima storico ha richiesto allora una nuova destra. Che è riuscita infine a prender forma in maniera ragionevolmente stabile, anche se ci son voluti quasi dieci anni. Nell’articolo che ha pubblicato ieri sul Corriere della Sera, Giorgia Meloni ha detto con grande chiarezza che cosa questa nuova destra voglia ereditare da Berlusconi. Nel ricordare il suo predecessore, la presidente del Consiglio si è soffermata in particolare su due punti: Berlusconi l’outsider, innanzitutto, l’italiano qualunque che ha fatto fortuna ma non ha perduto la capacità di mettersi in comunicazione empatica con gli altri italiani qualunque; e poi Berlusconi il fondatore del centro destra in uno schema politico bipolare. Sono i due punti cruciali: se tiene unito il suo popolo, molto più compatto e facile da maneggiare del dirimpettaio progressista, e alla testa di quel popolo mette un leader che senta di appartenergli profondamente, non se ne presuma migliore e non pretenda di educarlo, la nuova destra può andare lontano.Meloni ha ricordato pure il Berlusconi «formidabile difensore del nostro interesse nazionale». Qui, però, il suo desiderio di mettersi in continuità col Cavaliere deve fare i conti col radicale mutamento di clima degli ultimi trent’anni. Oggi difendere l’interesse nazionale significa ridare centralità alla politica. Non solo: proprio a quegli aspetti della politica – i duri conflitti di interesse, la competizione ultimativa per le risorse, il potere, la violenza – che negli anni ’80 e ’90 si sperava fossero stati esorcizzati per sempre. L’umanità sta giocando una difficilissima e pericolosissima partita di ripoliticizzazione, la nuova destra dovrà capire molto velocemente come affrontarla, e in questo l’eredità berlusconiana non potrà esserle di nessun aiuto. Ieri abbiamo celebrato il funerale dell’Italia felice, vitale, espansiva, spensierata che il Cavaliere ha cantato come imprenditore e come politico. Mi consenta il lettore di rimpiangerla.