La Stampa, 15 giugno 2023
Attenti a Cateno De Luca
Ora comincia il lungo addio del berlusconismo. La rottamazione di Forza Italia. La sua fine, forse. Nel diluvio, evocato per anni, e atteso, che segue la morte del Re Sole di Arcore, affogheranno le ambizioni di tanti. Dal minuto successivo all’annuncio della morte di Silvio Berlusconi ognuno pensa a salvarsi come può.L’amore sconfinato che a 86 anni sapeva ancora attrarre a sé il leader non basterà. Lo sanno tutti. Lo sa Giorgia Meloni, che si trova a dover maneggiare un’eredità non sua, e i possibili effetti collaterali dell’implosione del partito azzurro. Tutto lascerebbe pensare alla premier pronta ad approfittare dell’esodo dei berlusconiani, per rosicchiare un altro po’ di consenso e accomodarsi al posto a tavola riservato ai moderati. Non è così. Non prima delle Europee. Parlando con ministri e consiglieri di Meloni, è intuibile la preoccupazione di una nuova faida nel centrodestra in vista di quel voto. Manca un anno. Dodici mesi sono tantissimi. E pochi pensano che Antonio Tajani, nelle vesti attuali di coordinatore nazionale, possa farcela a tenere integro quel che resta della creatura di Berlusconi.Eppure i meloniani sperano. E faranno di tutto, dicono i più vicini alla linea della leader, per aiutare Tajani. Anche perché ne va dello stato di salute del governo. Basta ascoltare cosa profetizza Gianfranco Micciché, presidente dell’Assemblea regionale siciliana, tra i vertici azzurri nell’isola, anche lui presente ieri ai funerali in Duomo: «Fi è morta e ora, senza Silvio, Meloni e Salvini si scanneranno». Torneremo tra poco su questa profezia, che pone l’accento sul ruolo di cuscinetto che aveva il fondatore di Fi tra due destre a loro modo identitarie e concorrenti.L’altro motivo che preoccupa Meloni sono gli equilibri che seguiranno al voto europeo, più precisamente il progetto di nozze tra popolari europei e conservatori. Un’utopia, al momento. A cui però gli uomini di Fratelli d’Italia non smettono di credere. Non lo fa Raffaele Fitto, ex Dc, ex Forza Italia, l’uomo che ha traghettato Meloni nel gruppo di Ecr, per tenerla lontana dalle sirene sovraniste e populiste della famiglia dove si sono accasati Matteo Salvini, Marine Le Pen e l’estrema destra tedesca. Non lo fa Guido Crosetto, anima liberale e moderata del partito che fondò dieci anni fa con Meloni, proprio in risposta ai capricci padronali di Berlusconi. Non lo fanno i fedelissimi della traversata post-missina del clan più ristretto di Meloni. Forza Italia deve mantenere un consenso minimo e l’obiettivo è il 4 per cento. È la soglia per accedere all’Europarlamento. La soglia di sopravvivenza. Se non riuscisse, non porterebbe un solo eletto a Bruxelles. E così il terzo Paese più grande d’Europa – Paese fondatore dell’Unione – non fornirebbe un solo eurodeputato al Ppe. In Italia scomparirebbero i popolari europei. E, proprio in casa di Meloni, sarebbe un mazzata fatale al piano di alleanza con i conservatori guidati dalla premier. Piano che soffre già della diffidenza di una parte del Ppe (vedi in Germania e in Spagna) e di antiche antipatie, come in Polonia dove il conservatore Mateusz Morawieski e il popolare Donald Tusk si detestano e si sfideranno a settembre.Tre sere fa, durante la presentazione a Roma, a palazzo Wedekind, del libro sui leader dell’ex capo di gabinetto di Mario Draghi, Antonio Funiciello, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari, molto ascoltato da Meloni, discuteva così del futuro di Fi: «Dovrebbero far partire una riflessione. Anche sull’opportunità di cambiare pelle, e il nome, troppo legato a Berlusconi. Possono rifare i popolari, raccogliendo altre forze centriste». C’è dunque questa attesa, questa paura. Che ha un fondamento.E qui dobbiamo tornare a Micciché. Il politico siciliano annusa gli umori dell’isola, principale serbatoio di consenso che era rimasto a Berlusconi. Oggi FI ha un forbice nazionale tra il 6-9 per cento. Potrebbe esserci anche un rimbalzo sul breve, ma poi? Micciché sa che in Sicilia i voti si pesano e si portano. Con un battito di ciglia, migliaia di voti possono essere traghettati da destra a sinistra e viceversa. È successo, e succederà. Scendere bruscamente in Sicilia vorrebbe dire polverizzare Forza Italia. Le sirene della Lega di Salvini sono già state attivate, con il suo luogotenente Antonino Minardo. Per le Europee si gareggia con il proporzionale. È un tutti contro tutti, anche nella stessa coalizione. Dunque, i voti servono. Ma in queste ore è spuntato un altro nome in bocca ai meloniani, come fonte di preoccupazione. È il sindaco di Taormina, ex sindaco di Messina, Cateno De Luca. Ha fondato un partito, Sud chiama Nord, che ha eletto due parlamentari ed è pronto a candidarsi come capolista per le Europee, nelle circoscrizioni Isole e Sud. Qualche berlusconiano siciliano è già andato a bussare alla sua porta. Il voto per Bruxelles sarà un test per misurare la sua forza, e quanto è grande la dote che è in grado di portare al progetto di un Terzo Polo rinnovato, federale, più solido in alcune zone d’Italia, con Matteo Renzi, Carlo Calenda e Letizia Moratti (con il primo e la terza si sono già sentiti, con il leader di Azione avrà un confronto a breve). Un soggetto politico che in Parlamento, sfruttando i numeri eternamente in bilico del Senato su cui Renzi ha dimostrato di essere bravissimo a giocare, sarebbe in grado di ribaltare le sorti di maggioranza e governo.