la Repubblica, 14 giugno 2023
Ritratto di Nikola Jokic
Definire Nikola Jokic non è mai un esercizio completo se non si parte dall’alone di scetticismo che lo insegue da sempre: il serbo è molto alto (2,11 m) ma non superman, è due persone normali messe una sopra l’altra, naso rosso, mani gonfie e pelle bianca lattiginosa, un “Cattivissimo Me” in canottiera che appare sempre esausto e gioca scuotendo la testa. La Serbia ha 7 milioni di abitanti e giugno è un buon mese per essere serbi. Due di loro sono i migliori atleti del momento: Nole Djokovic è tornato n. 1 al mondo dopo aver vinto il Roland Garros. Jokic è il nuovo campione Nba con i Denver Nuggets. Battendo lunedì Miami 94-89 in Gara 5 hanno chiuso la serie 4-1 e conquistato il loro primo titolo dopo 56 anni e 38 partecipazioni ai play-off. Migliaia di persone si sono riversate per strada. Aaron Gordon, uno dei protagonisti, è uscito direttamente dallo spogliatoio in pantaloncini e a torso nudo per unirsi ai tifosi. Poi da qualche altra parte un tizio ha aperto il fuoco e ferito 9 persone, ma lì il basket c’entra poco. Nole aveva cercato il numero di Jokic per complimentarsi. Nikola ha rivelato di aver ricevuto sul cellulare il messaggio da Djokovic. «Mi ha scritto davvero, non mentiva». Beh, gli avrà scritto bravo.
Ora sono amici, ma così diversi: Nole alterna l’ironia alla freddezza da serial killer dei campi, Jokic non viene preso sul serio da nessuno, inseguito dalla storia di santo bevitore di bibite gassate e sollevatore di cartoni di pizza. Sui canali Usa appaiono foto di lui bambino con gli ormai celebri anelli di ciccia. Quando nel 2014 venne scelto al Draft da Denver, dormiva. E quando venne chiamato il suo nome, sulla Espn trasmettevano uno spot di Taco Bell che promuoveva ilquesarito, misto di burrito e quesadilla. Nel sottopancia dello schermo apparve il flash con scritto Jokic. Il fratello lo svegliò per dargli la notizia, lo champagne era pronto. Nikola disse ok, poi tornò a dormire. Voleva giocare a basket, certo, ma non aveva fretta.
Neanche i soprannomi sono da King del parquet: Joker, Big Honey, Cookie Monster, tipo i biscotti alla cannella che spopolano nei supermercati. Non è così che si costruisce un mito in America. Ma poi c’è il parquet, e lì la storia cambia. Intanto le statistiche: in stagione Jokic ha sfiorato la tripla doppia di media, con 24,5 punti, 11,8 rimbalzi e 9,8 assist a partita. Nelle 5 gare con Miami ha segnato 27, 41, 32, 23 e 28 punti, preso 61 rimbalzi e distribuito 36 assist. Il suo arrivo a Denver coincise con quello del coach Mike Malone. L’anno dopo arrivò Jamal Murray. Al 4° anno i Denver erano secondi a Ovest, ma nessuno li prendeva sul serio. In piena pandemia Jokic si è trasformato: ha perso chili, variato il gioco, inventato linee di passaggio. Ma anche ora, i giornalisti Usa continuano a chiedersi: può davvero essere inserito tra i totem del basket uno così, che sembra arrivato in pigiama? Lui non fa granché per togliersi questa patina. La notte del trionfo, quando gli hanno chiesto se non vedesse l’ora di partecipare alla parata dei Campioni per le strade di Denver, si è rivolto di scatto verso l’addetto stampa: «Quand’è?». «Giovedì». Jokic ha detto: «No». Si è passato la mano sulla fronte e aggiunto con aria afflitta: «Ho bisogno di tornare a casa». Nove anni dopo la notte del draft, non è cambiato.