Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  giugno 14 Mercoledì calendario

Biografia di Nikola Jokic

Sono le 19 e 55 del 24 marzo 1999. Un missile delle forze Nato colpisce l’aeroporto militare di Sombor, nella Repubblica Federale di Jugoslavia. È una città di 90mila abitanti vicina al confine con Croazia e Ungheria, tra le prime a finire sotto le bombe. Nikola Jokic è nato lì vicino, in campagna, quattro anni prima. La sua famiglia sarà risparmiata dalle armi occidentali.
Dodici anni più tardi quel bambino serbo è diventato un adolescente grassottello, con le guance paffute, il petto calante e un sorriso timido. Vive tra bestiame e cavalli, va pazzo per la Playstation. È una buona forchetta (eufemismo) e un bevitore seriale di Coca Cola (tre litri al giorno, secondo la leggenda). La mamma Giordana lo cresce a pasti pantagruelici. Il ragazzo ha due fratelli maggiori maneschi, chiassosi, folli e amatissimi, Nemanja e Strahinja (hanno 11 e 13 anni più di lui). Con loro anche una partita a carte può trasformarsi in una rissa memorabile, in compenso – a gomiti e spintoni – gli insegnano a giocare a pallacanestro. Il giovane Nikola ci sa fare. Eccome, ma è indolente. Il 7 febbraio 2011, ore 15 e 51, scrive un post su Facebook per trovare un amico con cui fare due tiri: Oce neko na basket. “Qualcuno vuole giocare a basket?”. Risposte: nessuna. Zero. Il canestro, peraltro, è solo la seconda passione del giovane Jokic: viene dopo i cavalli, lui vorrebbe fare il fantino. La crescita impetuosa gli suggerisce che il suo destino è altro, insieme a un talento smisurato.
Ecco, il destino si compie altri 12 anni dopo. Lunedì notte Nikola Jokic ha impresso in via definitiva, a caratteri cubitali, il suo nome nella storia del basket. È diventato leggenda, prendendo per mano i Denver Nuggets fino al primo titolo Nba. In oltre mezzo secolo di vita sportiva, non erano mai arrivati nemmeno alle finali.
Quel sedicenne sovrappeso si è trasformato in un atleta folle e micidiale: lo chiamavano Fat-Kola, oggi è The Joker. Un mago, prestigiatore della palla a spicchi. In campo, è difficile spiegare, si muove con la pesantezza di una montagna e la leggiadria di un ballerino. Sa fare tutto: domina sotto i tabelloni e dentro l’area pitturata, trova soluzioni immaginifiche per mandare a canestro i compagni, è preciso da 3 punti. Ha appena ricevuto il premio di miglior giocatore delle finali, dopo aver vinto per due anni consecutivi quello di uomo dell’anno. Macina record di “triple doppie” (almeno dieci punti, assist e rimbalzi nella stessa partita). È semplicemente immarcabile: un mistero senza soluzione per le difese avversarie.
In una Lega tra le più ricche e competitive al mondo, un microcosmo di super atleti con ego giganti, gonfiati pure più dei muscoli, Jokic è il contrario: un antieroe. Uno che fugge ogni divismo e se la ride in tutte le conferenze stampa, evase a monosillabi. Uno che gioca ancora essenzialmente per divertirsi, senza l’imperativo del marketing e l’assillo della perfezione (tanto la raggiunge lo stesso). Uno che ha dovuto lavorare sul fisico, certo, perdere massa grassa (quando è arrivato a Denver era il 22% del suo peso), ridurre i consumi ciclopici di bevande zuccherate, ma è diventato fuoriclasse in un corpo ordinario, tutt’altro che pompato. Uno che la notte del draft, quando fu chiamato dai Nuggets per iniziare la carriera tra i professionisti, era a letto. Fu scelto al secondo giro, numero 41: poco più di uno scarto. Anni dopo gli hanno chiesto se ci fosse rimasto male, ha risposto così: “Quella sera dormivo. Mi ha telefonato mio fratello, stava brindando con lo champagne. Lui era a New York, io in Serbia. Dormivo perché per me era già tanto essere entrato nell’Nba”. È seguito dai fratelloni in ogni angolo d’America, un po’ guardie del corpo, un po’ famiglia balcanica da film di Kusturica: ingestibili, festaioli, rissosi (fanno danni su Twitter firmandosi @Jokicbrothers e a Los Angeles hanno litigato persino con Jack Nicholson).
Il Joker lo potresti trovare nel pub dietro casa con una pinta in mano. Anzi due. Telefona a casa ogni settimana per parlare al telefono con Dream Catcher. La mamma deve tenergli la cornetta vicino alla criniera: Dream Catcher è il suo cavallo prediletto. Gira per il mondo, spesso per l’Italia, alla ricerca di nuovi purosangue per la sua scuderia (uno di loro, Enzo Jet, ha sbancato Capannelle in tre corse consecutive).
Il ragazzino grasso che non aveva amici con cui tirare a canestro è diventato il giocatore più forte del mondo. Con i giornalisti si è informato su quando fosse la parata celebrativa per le strade di Denver. “Giovedì”, gli hanno detto. “Nooo. Devo tornare a casa”. Domenica c’è una gara all’ippodromo.