il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2023
Berlusconi visto da Montanelli
Pubblichiamo alcuni stralci di “Indro. Il 900”
(edito da Rizzoli, 2021)
Un certo Berlusconi. Il 2 giugno 1977 un commando delle Brigate rosse gambizza Indro Montanelli ai giardini Cavour, a Milano, davanti alla sede del suo Giornale. Ricoverato alla clinica La Madonnina, il giornalista riceve la visita di una sua recente conoscenza, che presto entrerà nell’azionariato del quotidiano. “Non riuscivo più a staccarmelo dal letto. Piangeva a dirotto, si disperava, non faceva che chiedermi come mi sentissi. Gli feci notare che avevano sparato a me, non a lui. Non ci fu nulla da fare. Mi toccò fargli coraggio: temevo che mi svenisse sulla barella da un momento all’altro”.
Un loculo nel mausoleo. Verso la fine degli anni Ottanta, Berlusconi lo invita a pranzo ad Arcore e, dopo il caffè, lo porta in visita guidata al mausoleo funerario che si è appena fatto costruire nel parco di Villa San Martino. Un’opera monumentale dello scultore Pietro Cascella, un sacrario in granito bianco di 7,5 metri per 7,5, sobriamente ispirato alla tomba di Tutankhamon, in uno stile che qualcuno definirà “assiro-milanese”, con i 36 posti-loculo. Fra torce ardenti, sarcofagi variopinti, simboli esoterici e un gigantesco gruppo elettrogeno (installato, pare, in vista di un impianto per l’ibernazione). Indro trattiene a stento le lacrime: “Mi mostrava tutti quei loculi intorno al suo sarcofago da faraone e mi diceva: ‘Indro, vedi, questo è il cerchio dell’amicizia. Lì andrà Fedele Confalonieri, lì Marcello Dell’Utri…’. Poi, a tradimento, mi indicò un loculo vuoto: ‘Ecco, lì io sarei veramente onorato se tu, Indro, volessi…’. Aveva l’aria ammiccante, come se stesse facendomi l’onore più grande della mia vita. Io, appellandomi a tutti gli scongiuri che mi vennero in mente, ammutolii. Poi mi venne di rispondere: ‘Domine, non sum dignus!’. E me la diedi a gambe”.
Silvio, anzi Lazzaro. Nel 1994 Berlusconi entra in politica e prova a trasformare il Giornale nell’organo di Forza Italia, alle spalle di Montanelli. Che se ne va con 50 redattori e fonda La Voce. Il Cavaliere vince le elezioni, diventa premier e vara subito il decreto Biondi per salvare dal carcere i tangentisti Fininvest. Poi, a furor di popolo, è costretto dagli alleati Bossi e Fini a ritirare il “Salvaladri” e schiuma di rabbia a reti unificate. Montanelli commenta sulla Voce:
“Uno strazio aggiuntivo di questi torridi giorni sono per me le apparizioni sul video del Cavaliere che, avendone a disposizione sei tra pubblici e privati, non perde occasione di abusarne (…). A opprimermi è il sorriso con cui Sua Presidenza accompagna le parole: tirato, stirato, studiato col consueto puntiglio cosmetico, ma ormai completamente estraneo a un volto non più bene ambrato come una volta, ma lucido di sudore. Non erano questi i sorrisi di Berlusconi quando non era ancora ‘il Cavaliere’. Anzi, quelli non erano nemmeno sorrisi, ma risate: belle, aperte, squillanti, a gola spiegata. A provocarle ci voleva poco: un aneddoto, una battuta, una barzelletta anche da fureria, anzi specialmente se da fureria. Ma soprattutto lo esilaravano le proteste di noi amici quando lo coglievamo con le mani nel sacco di qualche bugia. Perché bugiardo Silvio era anche allora. Mentiva senz’accorgersene, come io e voi respiriamo, e disinteressatamente: per il piacere infantile d’inventare e senza nessuna pretesa che noi gli credessimo, spesso coinvolgendo nella menzogna sua moglie – la prima, l’adorabile Carla – che lo secondava, ma lasciando ben capire che non lo faceva per complicità, ma per una sorta di materna indulgenza. Perché era l’indulgenza che Silvio ispirava, non soltanto a sua moglie, malgrado i suoi già strepitosi successi. La ispirava con la sua primaverile freschezza, il suo calore umano, la forza trascinante e contagiosa dei suoi entusiasmi, la disarmante sincerità delle sue menzogne. Le diceva perché non distingueva fra sogno e realtà. E forse è per questo che è riuscito a tradurre in realtà questi sogni. Fra i più assidui partecipanti a queste meravigliose cavalcate di Silvio in quello che allora sembrava il mondo della sua fantasia, c’era anche suo padre, un anziano signore discreto e cortese, pensionato della Banca Rasini, che ascoltava il figlio in silenzio, fisso l’occhio sul cronometro, e biascicando qualcosa che sui primi tempi ritenevo degli scongiuri. Un giorno, avvicinatomi di più a lui, sentii che mormorava, nelle pause del soliloquio di Silvio: “Desmila… Vintmila… Trentmila…”. Gliene chiesi con lo sguardo il significato. “Sono”, mi mormorò all’orecchio, “gl’interessi che, mentre lui parla, stanno maturando nelle banche sui suoi debiti”. Silvio amava profondamente quel suo padre sommesso e sottomesso, sebbene fosse la sua antitesi, o forse proprio per questo; e che – dicevano – aveva un tale rispetto del denaro che, quando citava il suo amico Ottolenghi, lo chiamava Settelenghi per risparmiare un lengo. Il pover’uomo cercava di tenere quella specie di Grande Gatsby, che la sorte gli aveva assegnato come figlio, ben ancorato alla realtà, ma in fondo ne era – come tutti noi – affascinato, lo guardava con gli stessi occhi con cui gli astanti dovettero guardare Nostro Signore quando disse a Lazzaro: “Alzati e cammina”; ma senza mai liberarsi del terrore che con Silvio il miracolo non si ripetesse. Silvio soffrì moltissimo per la morte del padre. Lo vidi piangere come una vite tagliata, e quella volta erano lacrime vere. Qualche giorno dopo, parlando di lui, mi disse: “D’ora in poi mio padre sei tu”. Mi chiedo a quanti altri lo aveva già detto, o stava per dirlo. Ma sono arciconvinto che a tutti lo diceva con la stessa assoluta sincerità. Ecco perché mi fa tanto male vederlo sul video con quel sorriso fasullo. Quasi un ghigno, che non ricorda neanche da lontano la bella risata fresca e squillante del Silvio di Arcore, non ancora Cavaliere. Quante bugie mi diceva anche allora. Ma come volergliene? Erano le sue chanson de geste, qualcosa di mezzo fra I tre moschettieri e Il barone Münchhausen, senza nessuna pretesa di credibilità. Ora le presenta come un programma di governo che, anche se mantenuto al 5 per cento, non basterebbe più a chiamarlo “miracolo”. A ognuna di esse, quando gliele risento snocciolare dal video, mi viene fatto di biascicare: “Desmila… Vintmila… Trentmila…”. Ma senza nessuna speranza che stavolta Lazzaro si alzi e cammini” (la Voce, 22 luglio 1994).
Papale papale. Nell’estate del 1998 Berlusconi minaccia di sfasciare tutto per garantirsi l’impunità, tant’è che il centrosinistra gli offre una Commissione parlamentare d’inchiesta su Mani Pulite per tenerlo buono. Roba da “far arrossire anche il più spudorato mozzorecchi”, scrive Indro. Che lancia la proposta provocatoria di un referendum sul seguente quesito: “Volete voi l’abrogazione dei reati in base ai quali è stato condannato l’on. Berlusconi?” (…) Papale papale (…). Anche perché papale papale è il fine a cui mira l’on. Berlusconi, che lo pone come condizione non trattabile della sua rinunzia ad agitare la piazza contro le persecuzioni del “regime” (un regime che sta rischiando la spaccatura sul prezzo da pagare all’opposizione per ottenerne un po’ di benevolenza) (…). Ma come si può – dirà qualcuno – indire un referendum su un caso personale? Non si è mai visto. È vero. Ma non si era nemmeno mai visto un Paese spezzato in due e paralizzato da un caso personale. Ma – dirà qualcun altro – una vittoria del sì, che i sondaggi del Cavaliere danno per certa, non significherebbe, oltre che la sconfessione della magistratura, il rinnegamento di Tangentopoli, la riabilitazione indiscriminata delle sue cosiddette “vittime”, anche la definitiva rinunzia a qualsiasi speranza di radicale bonifica della nostra vita pubblica? Certo che significherebbe tutto ciò. Ma è appunto per questo che proponiamo il referendum: perché la responsabilità e il peso di una simile decisione può assumerseli soltanto il popolo. Sta a lui decidere se sia ammissibile, anzi concepibile, che un caso personale possa bloccare e paralizzare la vita della nazione; e come, se questo caso si dà, vada trattato. Eppoi, diciamo la verità: qui si tratta anche di approfittare dell’occasione per prendere qualche precauzione per l’avvenire. In Italia – ormai lo sappiamo – può succedere di tutto. Per almeno impedire che Palazzo Chigi o addirittura il Quirinale possano diventare appannaggio di qualche avanzo di galera (senza nessuna allusione, per carità, al Cavaliere), non c’è, di sicuro, che un modo: abolire la galera” (Corriere della Sera, 20 luglio 1998).
Il ritorno del Caimano. Più le elezioni del 2001 si avvicinano, più Indro ritrova la verve del ’94 ed evoca il pericolo del “regime”. “A Salò per giustificare il suo passato di dittatore, Mussolini disse: ‘Come si fa, in un Paese di servitori, a non diventare padrone?’ (…) Se avesse avuto pure la tv, probabilmente sarebbe ancora qui”. “Se penso che la destra è Berlusconi, ho sbagliato tutto nella vita. Io sono un liberale, ma non come lui. Io sono un cornuto della destra. Sposando la destra, ho sposato una moglie puttana”.
Il 14 marzo Daniele Luttazzi mi intervista a Satyricon (Rai2) su L’odore dei soldi, il libro che ho scritto con Elio Veltri sui rapporti fra Berlusconi e la mafia. L’indomani scoppia il putiferio. La polemica approda al Raggio verde di Michele Santoro, che fa il record di ascolti (25,98% di share, 6,1 milioni di telespettatori) anche grazie alla telefonata in diretta di Montanelli, che conferma la mia ricostruzione del suo divorzio dal Giornale smentendo quella di Vittorio Feltri. Il Cavaliere grida al complotto e attacca Indro: “L’ho sempre difeso, e ora ecco come vengo ripagato. È come Tartarin di Tarascona: a furia di raccontarsi certe storie inventate, alla fine ci crede. Non riesco a capire come un mio ex dipendente possa dire certe cose di me. Indro se n’è andato perché preparava da mesi un nuovo giornale. È innamorato della sua immagine e non poteva sopportare la coabitazione con uno come me che lo stava superando proprio nell’immagine”. Il 25 marzo Montanelli gli risponde sul Corriere:
“Una volta un’alta personalità della finanza, nota anche per il suo infallibile fiuto degli uomini (Enrico Cuccia, ndr), mi disse di Berlusconi: ‘Avrà anche i suoi difetti, ma un merito bisogna riconoscerglielo: quello di non deludere mai. Quando ti aspetti che dica una scempiaggine, la dice’. Lo ha fatto anche stavolta contro di me, smentendo fatti che hanno a testimoni tutti i redattori del vecchio Giornale, quello mio, eccettuati, si capisce, quelli che si misero e tuttora si trovano al suo servizio (…). Mi taccia di mendacio per il fatto di aver spacciato per dissenso politico la smania di lanciare un nuovo quotidiano in concorrenza con quello che io stesso avevo fondato (…) e che per vent’anni avevo diretto facendone lo scopo della mia vita. Per quale motivo io avrei accarezzato questo disegno proditorio, il Cavaliere non lo dice (…). Dice che dopo la sua arringa alla redazione del Giornale, io lo abbracciai e gli giurai eterna amicizia. Falso. Giorni prima (…) gli avevo consigliato, anzi l’avevo supplicato, di non entrare in politica. ‘Se non c’entro, mi fanno a pezzi’, mi rispose testualmente. ‘Ti fanno a pezzi se c’entri’, ribattei dando prova della mia scarsa vocazione di Cassandra (…). Non sono mai venuto meno all’impegno, preso non con il Cavaliere, ma con me stesso, di non associarmi mai alla sua demonizzazione. Ma non posso sottacere ai lettori i pericoli che si nascondono sotto questa sua allergia alla verità, questa sua voluttuaria e voluttuosa propensione alle menzogne, la naturalezza con cui riesce a pronunziarle. Al tavolo della pace di Versailles, il vecchio prostatico Clemenceau, guardando il nostro Orlando continuamente in lacrime per le umiliazioni che, a suo dire, gli Alleati gl’infliggevano, bofonchiava: ‘Ah, se potessi pi…are come lui piange!’. Chissà cosa avrebbe detto se si fosse trovato di fronte Berlusconi, cui nulla riesce tanto bene quanto la parte di vittima e perseguitato. ‘Chiagne e fotte’, dicono a Napoli dei tipi come lui. E si prepara a farlo per cinque anni di seguito ”.
L’Italia peggiore. Gli house organ berlusconiani si scatenano un’altra volta contro Montanelli. E non solo quelli. Quel mattino Indro raggiunge Ferruccio de Bortoli al ristorante Da Giacomo per il solito pranzo della domenica, cui partecipano spesso Enzo Biagi, gli avvocati Cesare Rimini e Vittorio D’Aiello, pochi altri vecchi amici. Quando si siede, il titolare gli consegna una busta chiusa appena giunta per posta. Dentro, una lettera anonima con pesanti minacce di morte. E non sono le prime. Da un paio di giorni riceve sul telefono di casa chiamate di insulti e minacce: qualcuno, molto ben informato, ha passato ad anonimi facinorosi il suo numero privato. Per questo Indro ha dovuto cancellare le iniziali I.M. dal citofono della sua abitazione in viale Piave. Lo racconta a Laura Laurenzi di Repubblica.
“La cosa più impressionante sono state le telefonate anonime. Ne sono arrivate cinque, una dopo l’altra, tre delle quali di donne. Non so chi avesse dato loro il mio numero, assolutamente introvabile. Dicevano tutte la stessa cosa: delle invasate che urlavano: ‘Lei che per vent’anni ha mangiato alla mensa di Berlusconi!’. Io, capirai! Come se fossi stato mantenuto da Berlusconi (…). Questa è la peggiore delle Italie che io ho mai visto. E dire che di Italie brutte nella mia lunga vita ne ho viste moltissime. L’Italia della marcia su Roma, becera e violenta, animata però forse anche da belle speranze. L’Italia del 25 luglio, l’Italia dell’8 settembre, e anche l’Italia di piazzale Loreto, animata dalla voglia di vendetta. Però la volgarità, la bassezza di questa Italia qui non l’avevo vista né sentita mai. Il berlusconismo è veramente la feccia che risale il pozzo (…). Non sono spaventato: piuttosto sono impressionato, come non lo ero mai stato. Va bene, mi dicevo, succede anche questo: uno dei tanti bischeri che vengono a galla, poi andrà a fondo. Ma adesso sono davvero impressionato, anche se la mia preoccupazione è molto mitigata dalla mia anagrafe. Che vuole, alla mia età preoccuparsi per i rischi del futuro fa quasi ridere (…). Io non avevo mai preso parte alla campagna di demonizzazione: tutt’al più lo avevo definito un pagliaccio, un burattino. Però tutte queste storie su Berlusconi uomo della mafia mi lasciavano molto incerto. Adesso invece qualsiasi cosa è possibile (…). Io voglio che vinca, faccio voti e faccio fioretti alla Madonna perché lui vinca, in modo che gli italiani vedano chi è questo signore. Berlusconi è una malattia che si cura soltanto con il vaccino, con una bella iniezione di Berlusconi a Palazzo Chigi, Berlusconi anche al Quirinale, Berlusconi dove vuole, Berlusconi al Vaticano. Soltanto dopo saremo immuni. L’immunità che si ottiene col vaccino”.