Corriere della Sera, 14 giugno 2023
B, ovvero l’uomo che ha lasciato un segno dappertutto tranne che in politica
Se fossi chiamato a tenere un discorso ai funerali di Stato, cosa che per fortuna dello Stato non avverrà, e mi venisse chiesto un aneddoto – uno solo – in grado di illustrare l’essenza dell’uomo, credo che ignorerei le tv, la politica, il sesso e gli affari, e mi concentrerei su una monetina. Una monetina da cento lire, come quella che, nella primavera del 1990, dagli spalti dello stadio di Bergamo planò sulla testa del centrocampista Alemao, consentendo al Napoli di vincere la partita a tavolino e di precedere il Milan in classifica. Berlusconi non se ne fece mai una ragione. Dapprima ordinò una perizia, nientemeno che all’università di Stoccarda, dalla quale risultò che la parabola compiuta dalla monetina per scavalcare la recinzione che separava il campo dalle gradinate ne aveva ridotto sensibilmente la velocità, rendendola più innocua di un petalo di rosa. «Ma essendo come san Tommaso» si infervorava nelle convention, «ho voluto sperimentare anche di persona. Ho mandato mio figlio (in realtà il maggiordomo) al primo piano di Arcore e gli ho ordinato di tirarmi una monetina sulla testa. Poiché non ho sentito nulla, l’ho pregato di salire al secondo e di tirarmela da lì: ho avvertito un dolore risibile. Solo quando sono stato colpito dal terzo piano mi è venuto un bernoccolo guaribile in tre giorni». Era dunque questo, Berlusconi? Un uomo che per avere ragione adorava presentarsi come vittima, al punto da arrivare ad infliggersi il martirio da solo?
D opo avere letto i giornali di ieri, compresi quelli stranieri che quasi all’unanimità lo dipingono ingiustamente come un fenomeno da baraccone, mi sono accorto che ognuno di noi ha il suo Berlusconi, apparentemente incompatibile con quello degli altri. Come se ci fosse impossibile accettare che nella stessa persona possano coesistere il nostro pregiudizio e il suo contrario. Marchionne, che era un po’ italiano e un po’ no, non si capacitava che l’uomo capace di accoglierlo a Palazzo Chigi dicendo «sai perché i cannibali piangono mentre gli esploratori bianchi cuociono in pentola? Per intenerirli» riuscisse a conciliare lo spiritaccio da animatore di villaggio-vacanze con il senso del business. Quando Marchionne disse che non aveva tempo da perdere con le storielle, avendo molto da lavorare, l’altro gli rispose che quello per lui era il lavoro: condire gli affari di barzellette e di barzellette gli affari.
Berlusconi era davvero tante cose, in contemporanea. Il playboy vanesio del bunga-bunga, ma anche il classico italiano medio che la sera costringeva le sue ospiti di palazzo Grazioli a sedersi davanti a uno schermo per sorbirsi il rito a tutti noi tragicamente noto del Filmino delle Vacanze, che per lui erano i viaggi di Stato all’estero: Silvio con Bush, Silvio con Putin e Silvio con Silvio, il suo preferito. L’implacabile trasvolatore di regole e ricercatore di scorciatoie che denunciavano i suoi critici, ma anche il commendatore col cuore in mano che ogni anno si rifiutava di licenziare un dipendente ladro perché lo sapeva padre di un disabile, come mi raccontò Maurizio Costanzo.
Fedele Confalonieri, forse la persona che lo ha conosciuto meglio, una volta lo definì «un Ceausescu buono», cioè un dittatore dolce, ma nessuno può avere la risposta giusta, dal momento che lo sono un po’ tutte. Lui stesso faticava ad accettare di contenere moltitudini, un miscuglio di luci e ombre. Una sera, in volo sul mar Tirreno dopo un comizio, chiese al giornalista che lo stava intervistando, Pino Corrias, che cosa volessero davvero i giudici da lui. Corrias rispose: «Credo sospettino che lei abbia usato capitali non suoi, agli inizi». Berlusconi, troppo stanco per cavarsela con una battuta, sospirò: «Nella mia vita di soldi ne ho usati tanti. E i soldi si prendono dove ci sono». Non riusciva a capire che cos’avesse fatto di male, e soprattutto di diverso, da tanti altri imprenditori di prima generazione.
Alla fine, come succede a tutti, sarà la sua eredità a definirlo. L’impressione è che abbia lasciato un segno ovunque, tranne che in politica. Lì ha imparato fin troppo bene il mestiere, ma a differenza dei grandi leader del dopoguerra non ha saputo legare il suo nome a una riforma in grado di sopravvivergli. In fondo i suoi elettori gliene chiedevano una sola: la riduzione drastica delle tasse. Il 28 marzo 1994, nel commentare l’inatteso trionfo elettorale, disse: «Abbiamo fatto la cosa più difficile, fermare i comunisti. Ora non ci resta che la più facile, governare». Invece si direbbe l’unica che non gli è riuscita.