5 maggio 2023
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Biografia di Alessandra Ferri (Alessandra Maria Ferri)
Alessandra Ferri (Alessandra Maria Ferri), nata a Milano il 6 maggio 1963 (60 anni). Danzatrice. Già prima ballerina del Royal Ballet di Londra (1980-1984) e dell’American Ballet Theatre di New York (1985-2007) e prima ballerina assoluta del Teatro alla Scala di Milano (1992-2007). «Il talento appartiene all’anima, non al corpo. Bisogna soltanto abituare corpo e anima a essere accordati, e l’accordatura cambia a seconda dell’età» (a Maria Laura Giovagnini) • «La sua prima coreografia. “A 3 o 4 anni mamma metteva i dischi, Giulietta e Romeo o Il lago dei cigni, e io ballavo sotto a un tavolo, creavo delle storie, magari diventavo la principessa. Quando si parla di destino e indole, è vero: sono nata con un qualche cosa dentro, da sempre, non ho mai voluto impegnarmi in altro”» (Alessandro Ferrucci). «“Già a tre anni vivevo delle storie dentro di me e sentivo un’altra realtà che mi chiamava. E, anche se i miei non frequentavano i teatri, dissi: voglio andare a scuola di danza. Mi hanno iscritta, e per me fu subito chiaro che era la mia vita. Non è che mi piacesse il tutù, non era una cosa ‘trallallero trallallà’: mi piaceva proprio lo studio, capivo che era la mia chiave per aprire la porta della libertà interiore”. Viene dalla borghesia milanese, papà ingegnere, mamma casalinga: quanto l’hanno sostenuta? “Passeggiavo con mamma a Milano quando vidi il bando per la scuola della Scala. Nel frattempo ci eravamo trasferiti a Monza, ma io dissi: voglio studiare lì. Ricordo la riunione familiare, attorno al tavolo della cucina. Mamma era stata maestra e aveva dovuto rinunciare al lavoro, ma teneva all’indipendenza femminile e convinse papà a farmi fare le medie alla Scala”» (Candida Morvillo). «“Quando sono entrata alla Scala avevo dieci anni e all’audizione siamo passati in dodici su duecento, e appena in due siamo arrivati in compagnia”. […] A 10 anni, oltre a danzare, cosa? […] “Volevo ballare, le mie energie erano su quello: quando chiudeva la scuola e seguivo mia mamma a Milano Marittima, non ne potevo più: stavo sul lettino e immaginavo balletti”» (Ferrucci). «Enfant prodige alla Scala di Milano, allieva prediletta di Ljuba Dobrijevič, vince una borsa di studio che la catapulta quindicenne a Londra, al Royal Ballet. […] “Erano gli anni Settanta, anni in cui alla Scala il balletto era sindacalizzato come non mai. Andare a Londra fu una liberazione, oltre che molto divertente. Londra era bella, io ero timidissima ma avevo il mondo davanti, e lì non ero obbligata a stare in fila ad aspettare l’anzianità per essere promossa. Io, lo ammetto, ho sempre voluto fare la prima ballerina: stare nel corpo di ballo non mi è mai interessato. Non ho nemmeno mai imparato i passi per stare in fila”» (Anna Bandettini). «A Londra diventerà prima ballerina. “Fu straordinario l’incontro con Sir Kenneth MacMillan, questo grandissimo coreografo, che iniziò ad affidarmi ruoli importanti. Al mio esordio come prima ballerina, in Mayerling, ero nervosissima. Ricordo che salii sul palco e sentii in petto come una bolla di sapone che scoppia: una sensazione meravigliosa di connessione col pubblico che non dimenticherò mai, quel sentirsi più grandi del corpo che siamo”» (Morvillo). «“Kenneth MacMillan […] mi ha forgiata: ha visto il mio talento individuale e lo ha tirato fuori, permettendo a me di riconoscerlo: a 17 anni non sapevo chi fossi davvero”. Cosa ha tirato fuori, esattamente? “L’interprete ‘naturale’: ho recitato nei balletti non in maniera melodrammatica, teatrale, com’era una volta. Il suo Romeo e Giulietta mi ha accompagnata dai 19 ai 52 anni: è quello che mi connota di più nel mondo”» (Giovagnini). «In un breve volgere di tempo si affermava eccellente interprete in tre balletti di Kenneth MacMillan: Histoire de Manon, Mayerling, Romeo e Giulietta. Questi tre balletti, le stesse coreografie restavano a lei legati per la singolarità dell’interpretazione, che riproponeva in varie occasioni anche in Italia, alla Scala. Altro punto importante nella sua carriera l’incontro con il ballerino Michail Baryšnikov, che la invitava all’American Ballet Theatre di New York nel 1985» (Felice Cappa e Piero Gelli). «Anche lì, étoile. “Mi avvicinò a Milano, dopo Il lago dei cigni di Franco Zeffirelli alla Scala. Mi chiese: verresti all’American Ballet Theatre? Risposi: sì, anche domani mattina. Avevo 21 anni. Nel primo spettacolo che facemmo insieme, Giselle, a Miami, vederlo provare senza sosta nonostante un grosso problema al ginocchio m’insegnò tantissimo. Poi, naturalmente, c’è stato l’incontro con Roland Petit, a Marsiglia, ballando Carmen. Con lui ci fu proprio una scintilla. Quindi, Julio Bocca: io 21 anni, lui 19, e abbiamo ballato insieme per oltre vent’anni”» (Morvillo). «Venivo da Londra, dal Royal, dove c’era questa cultura del crescere e accudire i propri fiori. A New York avevo ventuno anni, non conoscevo nessuno, Miša non era l’artista che ti aiutava e gli altri ballerini mi guardavano con diffidenza, forse temendo di essere spodestati. Me ne andavo la sera dal Met e nel percorso dal teatro a casa piangevo. Cenavo sola con la mia minestrina e il giorno dopo gli allenamenti ricominciavano. Per quanto tempo l’ho fatto? Niente però mi avrebbe fatta tornare indietro. Nei momenti in cui c’è da mettersi in gioco, non mi sono mai tirata indietro. E col senno di poi dico che l’American Ballet è una scuola tecnica eccellente per ogni ballerino. Io lì mi sono perfezionata. Ho imparato la tecnica che mi ha dato la libertà di esprimermi come voglio. Ancora oggi in scena vivo di quella sapienza. […] C’è stato un periodo in cui anche io ho ballato solo per il successo, per quello che dicevano gli altri. Per fortuna mi feci male. Mi ingessarono un piede, tornai a Monza a casa dei miei e mi presi un momento per me. Ero caduta nella trappola di ballare per gli altri, per gli applausi, e non ballavo bene». «Come l’ha superato? “Molto mi ha aiutato l’incontro con Fabrizio (Ferri, celebre fotografo e suo ex marito): la nostra unione, le nostre figlie, mi hanno permesso di liberarmi degli altri”» (Ferrucci). A New York «ritornava in varie occasioni per interpretare i ruoli protagonistici di Giselle, Schiaccianoci, Romeo e Giulietta, La sonnambula, Les Sylphides, tutti appartenenti al repertorio classico-romantico. Ciò non le impediva di affrontare altri ruoli di creazione o del repertorio moderno e contemporaneo: Fall River Legend (Opéra 1991; Torino, Regio 1994), Un petit train de plaisir di Rossini-Corghi-Amodio, White Man Sleeps di Volans-Ezralow, Carmen e Le Diable amoureux di Petit, La voix humaine di Cocteau (testo recitato e danzato). Tornava poi anche ai grandi balletti del repertorio» (Cappa e Gelli). Nel 2007 annunciò l’addio alle scene, con un ultimo spettacolo tenuto il 10 agosto al Teatro Greco di Taormina: «Meglio smettere prima. Amo troppo la danza e i miei personaggi. L’idea che ballarli possa diventare una fatica, o semplicemente vedere che non riesco più a interpretarli come so fare… sarebbe orribile. Questa carriera è stata per me un dono incredibile. Voglio uscirne dal palcoscenico con un grande inchino, non dalla porta di servizio piena di acciacchi. Voglio terminare ora, col bicchiere di champagne in mano, alla Roland Petit». Nel 2013, a sorpresa, il ritorno, al Festival di Spoleto (29 giugno), interpretando la sua prima coreografia, in The Piano Upstairs di John Weidman. «Un evento che coincideva con una svolta nella sua vita. “The Piano Upstairs”, dice, “racconta la fine di un matrimonio. E, proprio mentre costruivamo quello spettacolo, si concludeva il mio rapporto con Fabrizio Ferri, dopo 16 anni di matrimonio e due figlie”» (Federico Rampini). A decretarne il nuovo trionfo internazionale fu però, l’8 dicembre successivo al Signature Theatre di New York, la sua interpretazione in Chéri di Martha Clarke, al fianco di Herman Cornejo. «Dal New York Times al Wall Street Journal, gli esperti sono unanimi: la Ferri è sublime come sempre, quasi che non avesse smesso di ballare neppure per poche settimane. […] “Quando la regista e coreografa Martha Clarke mi ha proposto questo Chéri”, racconta la Ferri, “l’idea mi è piaciuta subito. Mi sono rispecchiata nel personaggio di Léa, una donna matura. Una storia in parte autobiografica, perché Colette stessa ebbe una relazione con un ragazzo giovanissimo. La sua Léa mi piace perché accetta l’invecchiamento con serenità”. […] Come accade che una ballerina di fama mondiale possa dare l’addio al suo mondo, restare fedele a quel proposito per così tanti anni e poi decidere un ritorno ad alto rischio? “Quando smisi”, racconta la Ferri, “sentivo che quell’Alessandra era finita. Un capitolo era terminato per me. Sentivo che Carmen, Giulietta, Manon, tutti i personaggi che mi avevano accompagnata non mi appartenevano più. Ho avuto una fase di lutto. Poi un’altra, di sollievo. Mi sono occupata delle mie bambine, ho curato aspetti della vita che erano stati secondari rispetto alla carriera. E, poi, terza fase: essendo nata artista, ho cominciato a soffocare. Non è la scena, non è il pubblico, è proprio il ballare, il bisogno di vibrare quello che mi mancava. Ora, quello che sto facendo non è un ritorno indietro: sono cose nuove”. […] Le chiedo se ha avuto un attimo di panico prima di affrontare il pubblico dopo un’assenza di tanti anni. “Ah, il panico! Quello, lo conosco bene. Mi ha accompagnato per una vita, ero terrorizzata dalla scena. L’angoscia fu proprio una delle ragioni per cui diedi l’addio nel 2007. E ora? Ho scoperto di essere… guarita. Sono proprio in un altro mondo. Per la prima volta non ho più paura. Forse perché ora sento che lo sto facendo solo per me stessa”» (Rampini). «Da quando è tornata a ballare nel 2013, i maggiori coreografi hanno voluto creare da zero ruoli per lei, realizzando un repertorio adatto a una cinquantenne, che prima non era mai esistito. Com’è stato possibile? “Non avevo immaginato un secondo capitolo, invece Wayne McGregor ha creato per me il ruolo di Virginia Woolf in Woolf Works e poi AfteRite; […] John Neumeier ha creato Duse; Martha Clarke ha creato Chéri… tutti ruoli che mi rendono felice, perché sono convinta che, anche invecchiando, siamo comunque esseri splendenti. Amo questa parte della mia vita artistica e di donna perché mette l’accento non sulla prestazione, che non può essere più quella dei vent’anni, ma su introspezione e conoscenza di sé”» (Morvillo). Nel 2021, con un anno di ritardo per via della pandemia, ha celebrato i quarant’anni di professionismo interpretando la matura ballerina Winnie in L’heure exquise di Maurice Béjart, ideato nel 1998 per Carla Fracci (1936-2021). «Nella rielaborazione ideata da Béjart sul tema di Giorni felici di Beckett, Winnie vive nella sua malinconica solitudine i gioiosi ricordi dei giorni felici. È una donna sepolta dal tempo che passa, e nell’immaginazione di Béjart vive sepolta da una meravigliosa montagna di scarpette a punta, che stanno a rappresentare il suo passato, i sogni e le speranze che si trova ad affrontare. Per non affondare nell’angoscia del tempo, Winnie ricorda e si immerge nei suoi “giorni felici”» (a Chiara Pavan). «Fino a quando ballerà? “Io, a ogni richiesta che arriva anche per gli anni a venire, rispondo: sì, va bene”» (Morvillo) • Due matrimoni alle spalle: il primo con lo psicoterapeuta Maurilio Orbecchi, il secondo col fotografo Fabrizio Ferri, dal quale ha avuto le due figlie Matilde (1997) ed Emma (2002). «Prima figlia nel 1997: quanto ci pensò prima di mettere in pausa la danza? “Per nulla, fu una decisione d’amore. Mi sono detta: sono una donna che balla e le due cose devono convivere. Sapevo che se avessi sacrificato la danza avrei odiato la famiglia, e se avessi sacrificato la maternità avrei odiato la danza. Quando Emma e Matilde erano piccole, viaggiavano con me: le ho portate ovunque. Quindi, mi sono fermata, ho fatto la mamma e la moglie e, quando sono tornata a ballare, uscivamo da un periodo difficile, dalla mia separazione: riprendere a danzare è stato importante per me e per le figlie, perché hanno visto quanto conta avere indipendenza emotiva”. Il divorzio dal suo secondo marito, il fotografo Fabrizio Ferri, fu così doloroso? “È stato uno di quei momenti in cui la danza mi ha salvata. Era stata una storia d’amore bellissima, il divorzio è arrivato inaspettato”. Vi incontraste a Pantelleria a casa di Isabella Rossellini e lì nacque il libro fotografico Aria, che suscitò stupore per i nudi. “Fu l’incontro di due artisti che poi si sono amati moltissimo, che hanno voluto parlarsi e conoscersi attraverso la propria arte. Nacque prima l’idea del libro e, mentre lo realizzavamo, l’amore”. Finiste in cronaca rosa anche per la separazione che ne conseguì dal suo primo marito. Scrissero che lui la chiuse a chiave fuori casa o che prese a sassate il loft di Fabrizio. Era vero? “Diciamo che fu un tale colpo di fulmine che lui non la prese bene. Lo capisco. Tutte le storie, finendo, hanno momenti difficili, melodrammatici. Si fanno follie per amore e per dolore”» (Morvillo). In seguito al divorzio ha avuto una relazione col ballerino argentino Herman Cornejo (1981). «Tra i due, una sensibile differenza d’età. […] All’origine del colpo di fulmine tra Alessandra ed Herman il bello c’è un curioso gioco del destino che ha mescolato le carte tra scena e vita: il balletto galeotto Chéri, tratto dai romanzi di Colette con coreografia di Martha Clarke, è appunto la storia d’amore tra la cinquantenne Léa e il giovane Chéri» (Valeria Crippa). «In amore mi sento più libera di quand’ero giovane. Libertà di testa, di scelte, di coraggio, di essere chi sono e come sono adesso» (a Leonetta Bentivoglio) • «Ha due figlie grandi ormai: hanno mai pensato alla danza? “Mai, neanche per sogno… Forse una bastava in famiglia”» (Pavan) • «La Ferri si sente italiana e milanese fino al midollo (Porta Genova il suo quartiere originario, la mamma vive a Monza). Pur mettendo radici […] a New York, d’accordo con il marito decise di iscrivere le due figlie […] alla Scuola d’Italia. Una scelta non scontata, visto l’ampio ventaglio di scuole internazionali che offre New York. “Non saremmo stati a nostro agio, io e Fabrizio, a far crescere due ragazzine americane. L’imprint culturale è importante”» (Rampini). Nel 2018, dopo aver vissuto per oltre trent’anni a New York, si è trasferita a Londra. «“Ci sto bene, sono più vicina alle figlie, che vivono a Milano”. […] Tornerà a vivere in Italia? “Prima o poi, credo di sì. Gli affetti sono qui”» (Morvillo) • «Alessandra Ferri è mai andata in discoteca? “Ci sono stata tre o quattro volte, quando avevo 18 anni: le odiavo. Non è che mi dispiaccia ballare per divertirmi, lo faccio anche. È l’idea dello sballo che a me non piace: avere gente fuori di testa intorno a me è insopportabile. Le poche volte che ci sono andata mi sono sentita alienata, molto sola: sentivo di non appartenere a quel mondo”» (Anna Prandoni) • «Cosa c’è sempre nella sua valigia? “Le scarpette da punta: senza, mi sento persa”. Un personaggio letterario che ama. “Carmen, per la sua indipendenza, pure davanti alla morte”. Legge l’oroscopo? “Non più, me ne sono liberata: preferisco credere di potermi creare la quotidianità”. Un vizio. “Sono un po’ pigra: se non ballo, posso stare ore in casa a bere tè e leggere”. Scaramanzia. “Davanti al gatto nero mi fermo sempre, e pure le scale, non ci passo sotto; mentre a teatro non lo sono, altrimenti è un inferno”» (Ferrucci) • «Finta fragile, è una stacanovista cocciuta» (Bandettini) • «È una donna minuta anche per essere una ballerina. […] Il corpo è leggerissimo, flessuoso, reattivo; il gesto morbido e preciso. […] Al contrario dell’immagine tradizionale della ballerina perfetta e imperturbabile, capolavoro estetico ed espressione di una grammatica astratta, Ferri si turba e turba il suo pubblico, nella sua danza è profondamente attrice, senza mai tradire la qualità del movimento, che è il cuore della sua arte. Spesso chi la guarda ha la sensazione che in certi momenti il corpo sia completamente abbandonato al gesto, non opponga alcuna resistenza all’azione del partner che la porta, la solleva, salvo scattare con un dinamismo insieme dolce ed energico quando tocca a lei agire. Allora sembra che balli con gli occhi chiusi, sentendo il suo corpo dal di dentro, abbandonandosi alla passione» (Ugo Volli). «Una delle più grandi ballerine drammatiche di tutti i tempi» (Gia Kourlas) • «“Credo che il mio approccio all’interpretazione sia rimasto lo stesso, da Giselle ai balletti di MacMillan: una recitazione reale, senza finzioni da pantomima”. […] In America fu definita “la Magnani della danza”. “Fu un giornalista: l’etichetta mi restò attaccata a lungo. Ma non mi sono mai sentita Magnani: troppo drammatica, terrena. Soprattutto, troppo romana”» (V. Crippa) • «La danza per lei non è mai stata carriera o lavoro, ma vita. […] “Per me è la vita: è chi sono. Così lo era per Carla Fracci: per alcuni di noi la danza è una vocazione, una missione. Ma ci sono anche migliaia di ballerini che danzano per lavoro, che staccano la sera e riprendono il giorno dopo”» (Pavan). «Il mio corpo è uno strumento, non è solo una cosa da vestire. È lo strumento attraverso il quale esprimo la mia anima e la mia interiorità, scopro il mio essere. Sono un tutt’uno. […] Non è un’anima rivestita: è l’anima che ha bisogno del corpo per sublimarsi e per vivere la sua vita». «Il palcoscenico è il tempio, un luogo sacro in cui gli artisti scoprono la propria essenza» (a Dario Crippa). «Io sono più contenta quando lavoro che quando sto in vacanza» • «Io sono ancora la bambina di quattro anni che voleva essere la musica e per questo sognava di ballare. Per me la musica è l’aria, è qualcosa che ci avvolge, ci riempie, ci dà vita. Io ho sempre avuto un rapporto emotivo e profondo con la musica. Le mie interpretazioni vengono fuori da lì: io mi unisco, mi abbandono alla musica e lascio che i personaggi escano».