Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  maggio 08 Lunedì calendario

Biografia di Glenda Jackson (Glenda May Jackson)

Glenda Jackson (Glenda May Jackson), nata a Birkenhead (Inghilterra, Regno Unito) il 9 maggio 1936 (87 anni). Attrice. Vincitrice, tra l’altro, di due premi Oscar alla migliore attrice protagonista (nel 1971, per Donne in amore di Ken Russell, e nel 1974, per Un tocco di classe di Melvin Frank), un Tony Award alla migliore attrice protagonista (nel 2018, per Tre donne alte di Edward Albee) e tre Emmy Award (due nel 1972, alla migliore attrice protagonista in una serie drammatica e alla migliore attrice protagonista in una miniserie o in un film televisivo, per Elisabetta regina, e uno nel 2020, alla migliore attrice, per Elizabeth Is Missing). Ex politico (Partito laburista). Già sottosegretario ai Trasporti (1997-1999). Già membro della Camera dei comuni (1992-2015). «Mi chiedono ancora quanto sia difficile recitare. Che volete che risponda? È un duro mestiere. Altrimenti, perché scomodarsi tanto per farlo?» (a Filippo Brunamonti) • «È nata nel 1936 a Birkenhead, nel Cheshire, una contea agricola dai costumi severi e puritani. Il padre faceva il muratore e la madre la commessa, e lei stessa, primogenita di quattro femmine, dovette ben presto impiegarsi per aiutare la famiglia: avrebbe voluto fare il medico o l’assistente sociale, ma fu invece costretta a fare la commessa, la dattilografa, la barista» (Costanzo Costantini). Secondo un’altra versione, «avrebbe voluto diventare ballerina classica. Ma crebbe troppo (ha piedi alla Greta Garbo), e iniziò troppo tardi» (Adele Gallotti). In ogni caso, «quando era libera recitava a tempo perso in un teatrino locale, finché un amico non la convinse a chiedere una borsa di studio per la Royal Academy of Dramatic Art: ottenuta la borsa di studio, si trasferì a Londra, dove ebbe come compagni di accademia Albert Finney e Peter O’Toole, ma dove, per un tipo come lei, era tutt’altro che facile farsi strada. La fortuna arrivò nel 1964, allorché Peter Brook, già allora uno dei maggiori registi teatrali inglesi e internazionali, la chiamò a far parte della prestigiosa Royal Shakespeare Company. La sua biografia di attrice è […] ricca di avvenimenti stimolanti, di ruoli particolari e di esiti sorprendenti o scandalosi. Nel 1966 si spoglia per la prima volta, in uno spettacolo teatrale provocatorio e scottante, messo in scena da Peter Brook alla London Academy of Music and Dramatic Art: si tratta di due sketch ricavati da due articoli del Times, il primo dei quali ispirato alla morte di John Fitzgerald Kennedy e il secondo alla sentenza sul caso Profumo-Keeler [scandalo politico a sfondo sessuale che destò grande clamore nel Regno Unito dei primi anni Sessanta – ndr]: lei entra in scena nelle vesti di Christine Keeler, viene portata in prigione, lavata e rivestita da carcerata, ma in quel momento, con un colpo di scena perfidamente dissacrante, si trasforma in Jacqueline Kennedy, mentre la vasca da bagno della prigione diventa la bara del presidente degli Stati Uniti. L’effetto fu portentoso, lo sbalordimento e lo scandalo generali. L’anno dopo Peter Brook le affida un altro personaggio scabroso, quello di Charlotte Corday nel Marat/Sade di Peter Weiss» (Costantini). «Glenda Jackson In Marat/Sade inventava splendidamente una ragazza colpita dal male del sonno che – finzione nella finzione – deve raffigurare Carlotta Corday per riacquistare con la tecnica dello psicodramma una più normale personalità. La recita s’interrompe più volte per la lascivia dirompente della protagonista, resa senza la minima volgarità dall’attrice e dal regista Peter Brook» (Piero Perona). «La debuttante Glenda Jackson faceva una magnifica Charlotte Corday, procace e proterva con una gran chioma flagellatrice e rossa, e improvvisi coccoloni o abbiocchi da malattia del sonno. Come colpita da mosche tse-tse o tiè-tiè, fra le sregolatezze dei pazzi furiosi. (Altro che antipsichiatrie alla moda d’allora)» (Alberto Arbasino). «Ha recitato in otto spettacoli di Brook, e, quando nel ’64 fece Ofelia […] a Stratford, i critici dissero: “Potrebbe essere un grande Amleto”» (Mirella Appiotti). «Lanciata nel mondo del teatro da P. Brook (che la dirige al cinema in Marat/Sade, 1966), debutta sul grande schermo nel 1963 in Io sono un campione di L. Anderson; ma il primo riconoscimento importante arriva nel 1970 con il premio Oscar per Donne in amore di K. Russell, con cui recita in altri quattro film, fra i quali spiccano L’altra faccia dell’amore (1971) e L’ultima Salomè (1988). Durante gli anni ’70 la sua carriera vive il momento di maggior splendore, alternando commedie e ruoli drammatici: è vibrante protagonista di Domenica, maledetta domenica (1971) di J. Schlesinger, vince un secondo Oscar per Un tocco di classe (1973) di M. Frank e brilla in Una romantica donna inglese (1975) di J. Losey» (Gianni Canova). «Agli scandali teatrali seguono gli scandali cinematografici. Interpreta Donne in amore e L’altra faccia dell’amore, i due clamorosi film di Ken Russell: nel primo appare nuda in sequenze di sottile perversione sessuale, nel secondo smania nuda sotto gli occhi del marito impotente e omosessuale, nel tentativo di sedurlo» (Costantini). «Per Glenda Jackson il cinema inglese non offre che parti scabrose. Eppure l’attrice è brutta, né si piega a compromessi. La Jackson è l’antidiva degli anni ’70. […] Il vero choc è stato quello di Domenica, maledetta domenica di Schlesinger. Glenda Jackson impersona una donna sola che si lega disperatamente ma senza enfasi a un fatuo giovanotto che non si nega a un anziano omosessuale (Peter Finch). Lo sguardo della Jackson al rivale, quando nell’ultima sequenza si conoscono, è indimenticabile» (Perona). «“Per i ruoli che ho interpretato in questi film”, mi dice l’attrice, “mi hanno raffigurata come la donna-scandalo, la donna perversa, un demoniaco simbolo del sesso. Ma io sono nata in una famiglia puritana, in una contea puritana, e sono rimasta anch’io puritana”» (Costantini). In seguito «è esilarante a fianco di W. Matthau in Visite a domicilio (1978) di H. Zieff e Due sotto il divano (1980) di R. Neame, prima di rendere sempre più sporadiche le sue apparizioni» (Canova). Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, la Jackson abbandonò la recitazione per la politica. «“Mi sono iscritta al partito laborista a 17 anni”, ha ricordato la Jackson, rosa rossa alla bottoniera, “ma ho deciso di far politica attiva solo in questi ultimi anni [articolo del 1992 – ndr], quando il governo Thatcher mi ha fatto vergognare di essere inglese”. Gli avversari insinuano, invece, che la meravigliosa interprete di Madre Coraggio, di Elisabetta I, di Lady Macbeth, di Hedda Gabler, di Cleopatra e tanti altri ruoli al cinema e sul palcoscenico cominciasse a trovare poche scritture adatte a lei. Ma queste sono malignità da politici in difficoltà, naturalmente. Lei proclama il suo impegno per migliorare “la legislazione sulla maternità, per sanare lo sfruttamento del lavoro part-time, per dare a tutti una casa decente. Non ho mai visto tanti giovani dormire nelle strade come qui in Inghilterra”. Quale è il suo modello, le chiedono, vuole diventare come la Thatcher o Reagan? Glenda risponde secca, con uno sguardo fiammeggiante, di quelli che usa sul set: “Non credo sia possibile paragonare la situazione inglese a quella americana. E poi, se mi permettete, ho forti dubbi sul fatto che Reagan sia mai stato un attore e anche un politico. No, il mio modello è Barbara Castle, ex ministro laborista. Ma io aspiro soprattutto a essere il migliore parlamentare che Hampstead abbia mai avuto”» (Paolo Patruno). «Il suo impegno politico è assoluto. La sua preoccupazione è quella di assicurare a milioni di persone, soprattutto nei quartieri più poveri di Londra, la possibilità di uscire da quella che lei stessa definisce “la gabbia della miseria”. […] “Sono problemi che non possono attendere”. La Jackson è molto dura a proposito della politica sociale della signora Thatcher. Ritiene che questa abbia premiato una piccola minoranza dei cittadini. Ma i poveri sono diventati più poveri. Della Lady di ferro quello che dava più fastidio era la “inflessibilità”» (Paolo Filo della Torre). «Glenda Jackson è il simbolo inglese delle donne che hanno cercato, a un certo punto della loro vita, di ricostruirsi professione e successo non legati alla propria immagine, ma alla propria sostanza. Così, seguendo la sua fede socialista e femminista, riscaldata dall’amicizia con Vanessa Redgrave, […] si buttò in politica. Dura gavetta, lavoro a tappeto nel collegio elettorale di Hampstead, il quartiere dell’“intellighenzia” londinese, infine l’elezione alla Camera dei comuni e la sospirata poltrona nel governo laburista, come sottosegretario ai Trasporti. Da quando è scesa in campo, Glenda Jackson ha fatto un giuramento a se stessa: di non truccarsi più. Niente rossetto, niente rimmel, niente matita sulle ciglia, rughe lasciate libere di scavare nel suo bel volto. Le era sembrato un buon modo di chiedere voti non in nome del suo fascino, passato e presente, ma delle sue qualità» (Antonio Polito). La Jackson abbandonò dopo poco più di due anni, nel luglio 1999, il suo ruolo nel primo governo guidato da Blair, per concentrarsi sull’obiettivo di ottenere la candidatura laburista alla carica di sindaco di Londra, in vista delle elezioni dell’anno successivo: il tentativo fu però vano, e la Jackson, risentitasi per il mancato sostegno di Blair alla sua candidatura (da lui in un primo momento incoraggiata), rifiutò da allora ogni ruolo nei suoi esecutivi, e, puntualmente rieletta alla Camera dei comuni, esercitò con immutato impegno l’attività parlamentare da posizioni marcatamente di sinistra, spesso in aperta contrapposizione con l’allora capo del partito e del governo, soprattutto in merito alla partecipazione britannica alla guerra in Iraq, da lei aspramente avversata. La sua lunga esperienza politica si concluse nel 2015, quando, dopo aver rinunciato per ragioni anagrafiche a ricandidarsi, tornò ben presto a votarsi alla recitazione. «A ottanta anni Glenda si era cimentata con il ruolo più complesso del repertorio shakespeariano e in una parte scritta per un uomo. La sua performance nel Re Lear aveva trasceso il genere: “Uno dei Lear più potenti che abbia mai visto”, aveva scritto al debutto all’Old Vic la critica dell’Observer Susannah Clapp. Per Lear la Jackson aveva vinto il premio dell’Evening Standard dedicato alla memoria di Natasha Richardson» (Alessandra Baldini). «In scena ogni momento sembra scoperto all’istante. Ora potente, feroce, insana, ora ilare, sana, folle, in ogni singolo frammento la sua presenza è restituita in modo preciso e inflessibile, con un particolare accento sulla volatilità della vecchiaia. Che la Jackson non nasconde né attenua, ma al contrario usa come chiave di volta per scavare fino all’osso ogni nuance di quello che i critici hanno definito “l’Everest dei ruoli”. La sua scalata è fluida, intensa, diretta e assoluta. […] La critica britannica si è levata unanime ad acclamare la sua performance. […] In molti si sono interrogati sull’origine di quella potenza, della forza assoluta della sua voce: da dove viene tutta quell’energia? È così esile, pallida, addirittura spettrale la definiscono… Da dove viene quel Lear?» (Carla Di Donato). «Due anni dopo è a New York, al John Golden Theatre a Broadway, in Tre donne alte di Edward Albee, regia di Joe Mantello, con cui vince un Tony Award come miglior attrice protagonista in un’opera teatrale» (Alessandro Poggiani). «“È stato indimenticabile”, racconta l’attrice. […] Sorriso tagliente, occhi da bambina, questo è il suo ritorno a Broadway dopo trent’anni. “Resto sempre scioccata quando leggo i testi dei drammaturghi contemporanei. Ma perché non sanno scrivere ruoli per le donne? Albee, al contrario, ne ha scritti ben tre insieme”. […] In scena al Golden Theatre tre donne di generazioni differenti: una sui 90 anni, una di 50 e una di 20, strette attorno a un letto di morte. E tutte e tre sono la stessa persona. Secondo il New York Times, in Three Tall Women “la mandibola di Glenda Jackson si sporge in avanti come la prua di una nave, la bocca a schermo panoramico si avvolge su se stessa attorno a consonanti taglienti”. […] “Mi stupisco che a New York ancora si ricordino di me e vengano ad applaudirmi”» (Brunamonti). Oltre che in teatro, negli ultimi anni la Jackson è tornata a recitare anche per la televisione, in Elizabeth Is Missing di Aisling Walsh (2019), e per il cinema, in Mothering Sunday di Eva Husson (2021) e The Great Escaper di Irene Jordan (attualmente in fase di postproduzione), in cui sarà ancora coprotagonista al fianco di Michael Caine, a quasi mezzo secolo di distanza da Una romantica donna inglese di Joseph Losey (1975) • Divorziata, un figlio • «Sono autoritaria con gli uomini e per niente materna nell’amore» • Monarchica • «Tutto ciò che le interessa oggi è “pagare le bollette e fare la spesa. Sono una socialista asociale e antisociale”, sorride» (Brunamonti) • «Amo i libri, purché non si tratti di letteratura sentimentale» • «Non possiede un cellulare, e i suoi Oscar li ha tenuti a lungo la madre, che “li spolverava religiosamente, senza mai esibirli”» (Brunamonti) • «Ha senso dello humour (“Se non ridi, se soprattutto non ridi di te, non sei umano, sei pericoloso”). […] Donna conosciuta come la più difficile di carattere, scontrosa, tagliente, capace di rabbie enormi e furibonde, incapace di essere carina per finta, di un puritanesimo di ghiaccio e di fuoco, gelosissima di sé» (Appiotti) • «Visino di calmucca» (Leo Pestelli). «Occhi a fessura, frangia geometrica e bocca tagliente» (Simone Marchetti). «Secca, zigomi alti, viso piccolo su un collo lungo, bocca all’ingiù e un taglio degli occhi insolito; tutto fuorché bella, ma personalissima, superba attrice» (Gallotti). «Capelli corti e scomposti, zigomi da lottatore dilettante, profilo elisabettiano, abito da suora in borghese, Glenda ha gli spigoli intellettuali alla Natalia Ginzburg e il sorriso amarognolo che illustrò Katharine Hepburn: è un eccellente esempio di diva costruita tutta di testa, e non di petto. […] Vicino a tanta semplice sciattezza lo spettatore di cinema resta sperduto, ma il critico un poco rinfrancato» (Stefano Reggiani). «È una delle donne-attrici più sconcertanti che mi sia stato dato di incontrare. È un enigma: brutta d’una bruttezza pressoché assoluta, eppure quanto mai eccitante, in possesso d’un fascino singolare e d’uno stile inarrivabile; priva quasi totalmente di quegli elementi di cui consta, per convenzione generale, la bellezza femminile o il sex appeal, eppure una delle incarnazioni più moderne e inquietanti del sesso, nonché uno dei simboli sessuali più folgoranti e indecifrabili della storia del cinema» (Costantini, nel 1973) • «Una corrugata espressività cui basta un nulla perché metta fuori la grinta. Votata al grave» (Pestelli). «Calcolata gestualità e tecnica di recitazione brechtiana» (Frank Rich). «Una grande interprete shakespeariana, forse una delle migliori attrici di tutti i tempi» (Filo della Torre). «Fortunata interprete di cinema, […] duttile, interprete tragica e comica» (Gaia Servadio). «Straordinaria protagonista del cinema inglese degli anni ’70, apprezzata anche a Hollywood per il suo talento ironico, è capace di conquistarsi un ruolo da diva quasi esclusivamente per il proprio carisma interpretativo e per le scelte intelligenti compiute durante la carriera» (Canova). «La sua qualità speciale era un’originalità organica che rendeva tutto ciò che faceva inaspettato, diverso, sebbene mai bizzarro – aggirava gli stereotipi per rivelare una sfaccettatura più autentica e più nitidamente osservata del comportamento umano» (Peter Brook) • «Anche la parola “arte” è usata con parsimonia, fatto raro nel mondo dello spettacolo. Glenda Jackson preferisce il termine “work”, “lavoro”: corrisponde maggiormente al suo concetto di un’attività nobile, sì, ma non più di quelle svolte quotidianamente da milioni di uomini e donne, che nessuno intervista, che nessuno loda e cui nessuno dà premi» (Mario Ciriello) • Tra recitazione e politica, secondo la Jackson, «ci sono molte similarità. Occorre saper stare bene in scena. Occorre anche molto controllo. Ma l’assemblea di Westminster è sempre stata più capace di intimorire di qualsiasi teatro o set cinematografico» • «Nessun regista mi ha mai dato un lavoro per il mio aspetto fisico. Non ho mai pensato di essere attraente: da ragazza ero cicciona, brufolosa, coi capelli unti. Se mi preoccupano le rughe? No. Me la sono guadagnata, questa faccia».