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 2023  maggio 12 Venerdì calendario

Biografia di Harvey Keitel

Harvey Keitel, nato a New York (New York, Stati Uniti) il 13 maggio 1939 (84 anni). Attore. Vincitore, tra l’altro, dell’Orso d’argento-Gran premio della giuria al Festival internazionale del cinema di Berlino (nel 1995, per Smoke di Wayne Wang). «Quella frase, “Sono il signor Wolf e risolvo problemi”, fu una trovata geniale di Tarantino in Pulp Fiction. È diventata una sorta di suo autografo, un tormentone: la gente si è divertita molto» (a Valerio Cappelli) • «Chiamatemi “Kaitel”, e non “Keitel”» • Figlio di un polacco con ascendenze italiane e di una romena, entrambi ebrei, crebbe a Brooklyn, nella zona di Coney Island. «“Quando ero ragazzo questo quartiere era un enorme melting pot. C’erano irlandesi, portoricani e naturalmente italiani. Sono andato a scuola con ragazzi di tutte queste diverse comunità”. Che ricordi ha della sua infanzia? “Il mio primo desiderio, da ragazzino cresciuto a Brooklyn, era quello di trovarmi da solo, un giorno, sulla Grande Muraglia cinese. Un giorno magari lo farò”» (Cezar Greif). «Da bambino commisi un mucchio di furti. E fu formativo per me nel decidere di iniziare a recitare, perché devi fingere di non aver rubato. A volte rubavo i piccioni dal pollaio di qualcun altro. Li portavo nel mio e commettevo l’errore di aprire la porta troppo presto, così tornavano direttamente ai loro pollai. Rubavo cose in drogheria e al supermercato, come le patate, che io e i miei amici andavamo ad arrostire sul fuoco. L’unica volta in cui fui beccato fu quando era il mio turno di rubare caramelle dal negozio di dolciumi. Le misi sotto la camicia, e mentre me ne stavo andando caddero. Ero terrorizzato. Mi bloccai immediatamente. Penso di essere ancora adesso in quel negozio. Ma non fui punito severamente, e mi feci furbo nel farlo. Imparai a indossare camicie più grandi» (a Catherine Shoard). «Vengo da una famiglia che era ampiamente sotto la middle class. Cercavo di sentirmi qualcuno: sfortunatamente l’ho fatto lasciando la scuola. […] Ho studiato da adulto. È il mio unico rimpianto nella vita, non aver fatto il college. […] Con i miei due migliori amici cercavamo un viaggio epico: ci siamo arruolati nei Marines. Sono stati tre anni che mi hanno forgiato: ho imparato la disciplina, ho superato la paura dell’oscurità. Ricordo che andai per un addestramento in un campo in North Carolina. Appena arrivati, ci fecero fare una simulazione di combattimento nel buio totale. Ero in preda al terrore. Ho pensato di nascondermi, poi ho sentito la voce dell’istruttore: “Avete tutti paura dell’ignoto, dell’oscurità. Io vi insegnerò a conoscerla e non ne avrete più timore”. Ne ho superate tante, nella vita, di paure» (ad Arianna Finos). Coi Marines finì in Libano, ma fu congedato «giusto in tempo per non essere spedito in Vietnam. Ma non ero contrario alla guerra, perché […] la propaganda del governo aveva necessità di presentare i vietnamiti disumanizzati per convincere i giovani ad andare ad ammazzarli. Il mio Paese è “love or leave it”, si ama o si lascia, e io lo amavo, ci credevo, ero troppo giovane per pensare con la mia testa. Solo dopo, vedendo il moltiplicarsi dei dissidenti, degli scritti contro la guerra, delle marce per la pace, è cominciato il dubbio: ho capito che sbagliavo, che il governo aveva sbagliato» (a Maria Pia Fusco). «Era tornato nella sua Brooklyn dopo tre anni coi Marines: vendeva scarpe e faceva lo stenografo in tribunale per pagarsi i corsi all’Actors Studio di Elia Kazan e Lee Strasberg» (Lorenzo Soria). «Facevo domanda, ma non mi prendevano mai. Alla fine mi hanno accettato, e non so se abbiano sbagliato prima o dopo…». «Ispirandosi a Stanislavskij, ci hanno insegnato il Metodo, un concetto del tutto nuovo di fare teatro: l’attore deve sperimentare le emozioni, non solo rappresentarle. Un’interpretazione che non ho mai dimenticato è quella di Raf Vallone in Uno sguardo dal ponte. Poi ho saputo che Vallone non sapeva granché del Metodo: sono i miracoli dell’attore». «Ricordo che una volta uscii con una bellissima ragazza e la portai a vedere Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo. Mi dimenticai di lei: la mia attenzione era tutta sul film. Che non ho mai dimenticato. E la ragazza? Non lo so più. Lei, l’ho dimenticata». «Il mio primo curriculum da attore era tutto una bugia tranne che per il mio nome. Mi assicuravo che i drammi in cui avrei dovuto recitare dovessero essere rappresentati fuori città». «A 27 anni Keitel rispose all’annuncio di uno studente di Cinema della New York University che cercava un protagonista per il film della laurea. Si chiamava Martin. Martin Scorsese» (Soria). «“Martin stava cercando giovani attori disposti a recitare gratis, perciò girava solo nel week-end, visto che per sopravvivere facevamo vari lavoretti: camerieri, lavapiatti… Era il suo primo film, Chi sta bussando alla mia porta?”. […] Come ottenne la parte? “Al provino finale Martin mi dice di andare in fondo a un corridoio, in una stanza buia e vuota con un tizio seduto. Lo saluto, quello mi risponde bruscamente, c’è una mezza litigata, ci mandiamo a quel paese. Si sente una voce: stop. Era Martin, che mi dice: questa era un’improvvisazione. Gli rispondo che sarebbe stata una buona idea se me lo avesse detto prima”» (Cappelli). «Usavamo l’appartamento di Martin per lavorare e girare alcune scene in interni a Little Italy. E c’erano i suoi genitori. Il padre, tornato a casa una sera per cena, cominciò a urlare “Che cazzo succede qui?” perché stavamo ancora girando, e Martin lo cacciava fuori dalla stanza perché dovevamo finire di lavorare». «Un giorno mi chiede di rivedere le prime scene che avevamo girato, all’università. Vedo la scena in cui il personaggio cammina nella chiesa e Martin fa i primi i piani alle icone: lì ho capito il suo talento». «“Sono stato al suo fianco sia davanti che dietro alla macchina da presa in Street Scenes, un’altra produzione studentesca, che trattava le agitazioni durante la guerra del Vietnam”. Ma ha continuato a stare al fianco di Scorsese anche negli anni successivi… “Non subito. Prima c’è stata una parentesi. […] Per diversi anni ho lavorato in teatro, specie in compagnie dell’off-Broadway. Martin Scorsese però si è ricordato di me, e mi ha mandato a chiamare sia per Mean Streets che per Alice non abita più qui e Taxi Driver”» (Lamberto Antonelli). «Nel 1973 l’incontro con De Niro. Insieme avete scritto la storia del cinema. “Ricordo l’energia che avevamo all’epoca, quel sentirci legati da credenze religiose: dopotutto, è Dio quello che sta bussando alla porta nel titolo del film. Avevo visto Robert a teatro a New York e in uno spettacolo off-Broadway, insomma conoscevo un po’ il suo lavoro. Ma non ci eravamo mai incontrati, finché all’Actors Studio una giovane attrice ci presentò: ‘Robert, lui è Harvey. Harvey, questo è Robert’. Ci guardammo, annuimmo, borbottammo un saluto. Poi accennammo una smorfia, che divenne un sorriso e poi una grassa risata! Non lo rividi fino all’anno dopo, sul set di Mean Streets, e da allora usiamo la dinamica del nostro rapporto nello stesso modo in cui sfruttiamo qualsiasi altro elemento per creare arte”. […] Tre anni dopo avete girato insieme Taxi Driver. È vero che per interpretare il protettore di Betsy, Matthew detto Sport, ha rinunciato a una parte più importante? “Sì, sarei dovuto essere il giornalista Tom, ruolo che poi andò ad Albert Brooks. Ma allora vivevo nel quartiere di Hell’s Kitchen a Manhattan e conoscevo bene i papponi della zona, così ho preso un po’ da uno, un po’ dall’altro e ho creato il personaggio, con i suoi capelli lunghi, il cappello, le scarpe con la zeppa…”» (Greif). «Lei avrebbe dovuto avere il ruolo del capitano Willard in Apocalypse Now, al posto di Martin Sheen. Invece Coppola la licenziò durante le riprese. Vogliamo parlarne? “Ero molto più giovane, e anche Francis. Eravamo su due percorsi diversi. E poi io sono un marine, e lui no”. Che c’entra? “Dopo due settimane sul set e una di riprese, i tipi della Paramount vengono da me e pretendono di mettermi sotto contratto per 5 anni. Loro volevano comprarmi, io non potevo farmi comprare”» (Soria). «Dopo l’ossessivo I duellanti (1977) di R. Scott, nonostante l’efficace prestazione nei panni di un commissario-psicoanalista in Il lenzuolo viola (1980) di N. Roeg, la sua stella sembra offuscarsi, ma con l’inizio degli anni ’90 ritorna prepotentemente alla ribalta» (Gianni Canova). Risalgono a quel periodo «diversi celebri personaggi. Il primo è l’ispettore Hal Slocumb in Thelma & Louise, film del 1991 di Ridley Scott con Susan Sarandon e Geena Davis in cui l’attore americano è all’inseguimento delle due donne ribelli in fuga. L’anno successivo Harvey Keitel è tra i protagonisti di Le iene, celebre film-debutto di Quentin Tarantino, in cui veste i panni di Mr White/Larry, uno dei sei criminali assoldati per partecipare alla rapina ai danni di un grossista di diamanti» (Francesco Tortora). «Incontrai uno sconosciutissimo Quentin Tarantino, che lavorava ancora in videoteca: fui colpito dalla sceneggiatura del suo Le iene e accettai di farlo. Quando quel ragazzone entrò in casa mia, gli offrii da mangiare e mi svuotò il frigorifero. Da allora, sapendo che stava per arrivare, io e i miei amici nascondevamo i cibi migliori perché non ce li finisse. Aveva una fame cronica» (a Roberto Nepoti). «Abel Ferrara aveva visto quello che avevo fatto e mi mandò una sceneggiatura di un film che voleva girare con me. Era sottilissima, saranno state dieci-quindici pagine in corpo 23, una roba illeggibile, e la buttai nel cestino. Ero arrabbiato, poi ci pensai su per un po’. La andai a recuperare e la lessi con molta attenzione, e mi accorsi che la mia parte era tutta da sviluppare, era tutta da scrivere su di me. Ne rimasi sconvolto. Sul set de Il cattivo tenente c’era molta improvvisazione. Nel film sono andato oltre me stesso: è stata un’esperienza totalizzante». «Anomalo, viscerale e sanguigno, è il maori che irrompe nella vita di Ada, muta sposa per procura di Lezioni di piano (1993) di J. Campion, e l’esperto chiamato per deprogrammare una giovane australiana in Holy Smoke (1999), diretto ancora dalla regista neozelandese. È poi l’inarrivabile gestore della tabaccheria che in Smoke (1995) e in Blue in the Face (1995) di W. Wang diventa l’epicentro dell’umanità eterogenea che vive nei pressi di Park Slope, a Brooklyn» (Canova). «Il più celebre ruolo interpretato al cinema da Harvey Keitel è quello di Mr Wolf in Pulp Fiction, pellicola di Quentin Tarantino del 1994. L’attore è l’elegante e misterioso personaggio che “risolve problemi”. […] Nel 1996 Harvey Keitel è tra i protagonisti di Dal tramonto all’alba, pellicola diretta da Robert Rodriguez con sceneggiatura di Quentin Tarantino» (Tortora). «Poi c’è Angelopoulos... “Angelopoulos è una delle voci più importanti del cinema e del teatro. […] Per me lui è come un antico narratore di storie: è omerico. Quando si reca in un posto, ne diviene parte. Quando mi diede la sceneggiatura di Lo sguardo di Ulisse, venne a New York a casa mia per mostrarmi alcuni suoi film in dvd. Ne mettemmo uno nel televisore in presenza del mio agente. Angelopoulos sedeva davanti a me. Guardai il film, e dopo circa un’ora mi addormentai. Il mio agente mi mise una mano sulla spalla e mi scosse. Angelopoulos mi stava guardando. Reagii dicendo: ‘Faccio il film. Sì, sì, lo faccio’. E sorrisi. Il suo talento è così straordinario che non ha importanza cosa ci sia scritto nella sceneggiatura. Basta la sua immaginazione a trasformare il film in un evento”» (Renzo Fegatelli). «Ci sono poi i film con i registi italiani, a partire da Ettore Scola con La nuit de Varennes. Roberto Faenza ne ha fatto un tenente della narcotici di New York in L’assassino dei poliziotti, Lina Wertmüller lo assolda per Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti, Damiano Damiani per L’inchiesta. Ma ha lavorato anche con Carlo Lizzani, Dario Argento, Giovanni Veronesi, Sergio Citti, Renzo Martinelli. E […] con Paolo Sorrentino. Che in Youth lo ha trasformato in Mick Boyle, regista al crepuscolo intestarditosi a voler fare il suo film-testamento che finisce per suicidarsi. […] Chi ha cercato chi? “Sono stato io a cercare lui. Avevo visto Il divo. La Grande bellezza […] mi parve non il più bel film straniero ma il più bel film in assoluto. Avevo appena cambiato agente, gli ho detto che volevo lavorare con Paolo. E Paolo mi ha chiamato. Ci sono registi che sanno che tu sai e che tu sai che loro sanno: con lui è andata così. Non c’è stato bisogno di tante spiegazioni. Più che lavoro, mi sembrava di uscire ogni giorno con una donna nuova: euforizzante”» (Soria). «The Irishman invece ha segnato la tanto attesa rimpatriata con Scorsese e De Niro. Perché ha accettato di tornare sul set anche per una parte minore come quella del boss di Philadelphia Angelo Bruno? “Stanislavskij diceva: ‘Non ci sono parti piccole, solo piccoli attori’. È un assioma che ho seguito per tutta la vita. E ho lavorato su questo ruolo allo stesso modo che su quelli di Taxi Driver o Mean Streets: cambia solo il carattere del personaggio, ma la tecnica è la stessa. Con Marty è come se il tempo non passasse mai: siamo solo diventati un po’ più ricchi spiritualmente”» (Greif). Tra le ultime pellicole cui ha preso parte, Fatima di Marco Pontecorvo (2020) Lansky di Eytan Rockaway (2021) e Blood on the Crown di Davide Ferrario (2021) • Tre figli da tre donne diverse: Stella (1985) dalla sua lunga relazione con l’attrice Lorraine Bracco, Hudson (2001) dal breve rapporto con la ceramista Lisa Karmazin e Roman (2004) dal matrimonio con l’attrice Daphna Kastner, sposata nel 2001 • «In tutta la mia vita, quando avevo dei problemi, ho chiesto aiuto a Dio perché mi aiutasse a superare i momenti più difficili. Ora, vedendo come tante persone stanno reagendo di fronte a questa emergenza [la pandemia da Covid-19 – ndr], sacrificandosi per gli altri senza preoccuparsi per sé stesse, capisco che gli angeli che cercavo in cielo sono davanti a me. […] Se questo virus ci è stato imposto, ci sono stati dati anche questi infermieri, che sono angeli in terra. Noi tutti lo siamo, abbiamo il potere per esserlo: “Come in cielo, così in terra”, dice il Vangelo, no?» • «Pacifista, ma disincantato nei confronti di un mondo nel quale spesso vince la legge del più forte, sono straconvinto che ogni film contro la guerra sia utile» (a Giovanna Grassi). «Una volta, con altri colleghi, sono stato ospite di Putin. Ci disse: “Rispetto a noi, voi artisti avete molte più possibilità di influenzare il pubblico”. Risposi: “Però voi avete le armi, e le usate”» (a Fulvia Caprara) • «Modi apparentemente ruvidi che nascondono sensibilità spiccate e inattese tenerezze» (Caprara) • «La faccia maschia e intagliata, ma lo sguardo mobilissimo e tenero: ne hanno fatto un perfetto protagonista di eroe disperato e romantico» (Simonetta Robiony). «Ex marine con il naso da pugile, orgoglioso ed emblematico esempio di brooklyniano» (Canova) • Mauro della Porta Raffo ha inserito la sua interpretazione di Auggie Wren in Smoke nella propria lista di «Cose per cui è valsa la pena vivere» • «La partenza è il testo. Lavoro su quello, analizzo il personaggio, mi chiudo nella mia stanza e immagino come mangia, come prega, come ama, uso la tecnica per creargli un’esperienza e poi dalla mia stanza la porto sul set». «Il Metodo Stanislavskij mi è servito, ma […] quello che fa veramente la differenza quando reciti è la tua esperienza personale. Quanto ci metti di tuo nel personaggio che interpreti. Nessun metodo può supplire a quello che sei» • «Per alcuni lei è quello sempre nudo. “Gli attori raccontano delle storie, e per farlo occorre coraggio. Cerchi la verità del personaggio. È questa ricerca a dirti se per farlo dovrai essere vestito o nudo”» (Soria) • «Spesso i personaggi interpretati da Keitel sono minacciosi, a volte fanno paura. Perché la sua immagine è così legata a personaggi portatori di violenza? “La violenza è qualcosa di reale e terribile, ma sono convinto che, proprio perché è reale, il cinema debba rappresentarla”» (Nepoti) • «Studiavo all’Actors Studio, ma non mi sono mai inginocchiato a Hollywood, che non ha niente da insegnare. […] Ho lavorato ovunque: sono l’americano più appetibile per gli europei. Io ho amato Tavernier e i vostri Scola e Wertmüller, eredi di un cinema che è stato patrimonio dell’umanità» (a Maurizio Porro) • «Con quali registi e attori con cui non si è ancora trovato sul set vorrebbe lavorare? “Marlon Brando, Charles Laughton, Fredric March! So che purtroppo ho perso l’occasione (sorride), ma per me sono eterni! Se devo pensare a un regista, invece, direi Taika Waititi, che ha diretto Jojo Rabbit”» (Greif) • «Harvey Keitel non è mai stato protagonista di un blockbuster. Non è mai stato in un film di azione di quelli che costano una fortuna e generano incassi con tanti zeri. […] Si sente un puro? “In realtà mi sarebbe piaciuto fare più film di cassetta. Hollywood è una macchina alimentata dai soldi, e coi soldi ti compri la libertà. Tutti vogliono il denaro: la questione è come guadagnarlo in modo onorevole. Ho detto ‘no’ a molte occasioni, ho rifiutato due milioni di dollari quando due milioni erano molti soldi. Forse avrei dovuto essere più furbo. Alcune di quelle parti, avrei dovuto prenderle. Alla fine, comunque, ho avuto un altro genere di soddisfazioni”» (Soria) • «Non cambierei niente della mia vita. Sono felice di essere attore e di avere il successo che ho. […] Siamo fortunati a poterci guadagnare da vivere recitando: non sono tantissimi a poterselo permettere» • «La vecchiaia è un fatto mentale e io non penso molto all’età, agli anni che passano. […] Io penso che la vita sia bellissima. Che vada vissuta ogni giorno, perché poi finisce. Non sappiamo da dove veniamo, non sappiamo dove andiamo, ma siamo qui, siamo presenti. I buddisti sostengono che dobbiamo vedere tutto come un gioco, anche la morte. Ecco: io continuo a giocare».