3 aprile 2023
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Biografia di Salvatore Sciarrino
Salvatore Sciarrino, nato a Palermo il 4 aprile 1947 (76 anni). Compositore. Accademico. «Il più famoso compositore italiano vivente. […] Creatore eretico e genialmente singolare, ormai eseguito in tutto il mondo. […] Il corpo è sempre al centro dell’arte di Sciarrino, che pare come stupefatta di fronte ai miracoli della natura e dei tesori sensoriali: “Io non prescindo mai dalla fisicità del suono”» (Leonetta Bentivoglio) • «Salvo, come lo chiamano gli amici, è stato un bimbo precoce: nato a Palermo in un famiglia piccolo-borghese, dipingeva quadri a quattro anni, “e a nove ero giunto all’informale dopo aver visto riprodotte le opere di Burri. Ne avevo dodici quando la musica ha fatto irruzione nella mia vita, senza studi tradizionali: mai avuto un diploma di conservatorio”» (Bentivoglio). «Come è arrivato alla musica? “In famiglia se ne ascoltava tanta. A sei anni, già mio fratello mi portava a teatro. E ascoltare mi piaceva molto”. Ha iniziato a comporre a dodici anni. Prima aveva studiato qualche strumento? “No, e neppure più tardi. Fare il compositore è un po’ come fare l’architetto: non è che devi saper usare la cazzuola”» (Piera Anna Franini). «Quell’inizio è stato determinante per il mio percorso. Prima ho cominciato a scrivere musica e poi, per tutta la vita, ho studiato. È come imparare una lingua: si assimila subito quella viva e contemporanea e dopo si apprende la tradizionale. Il sistema scolastico ritarda le funzioni creative. Meglio lanciarsi nel vuoto e in un secondo tempo applicarsi al passato. Diceva Rilke: bisogna trovarsi già in volo, altrimenti non si ha il coraggio di spiccare il salto». «È un autodidatta ostile agli accademismi: “Da ragazzo mostravo i miei esperimenti musicali a un compositore, Antonino Titone, fondatore delle Settimane di nuova musica di Palermo, manifestazione profetica e seguita a livello internazionale, dove a diciott’anni venni stroncato dalla critica perché scrivevo cose non somiglianti a niente”. Osserva che i musicisti tendono a essere corporativi, “mentre per me conta l’insieme del sapere: saggi, poesia, temi scientifici. Da bambino studiavo i minerali e prendevo la corriera per fare ricerche sui terreni in collina come un archeologo”. Diffida degli apprendimenti schematici: “Se ci si specializza troppo, la testa non si apre. Sono un anti-scolastico cresciuto con felice libertà”. Era in seconda media quando Titone controllava i suoi abbozzi musicali, “ma senza impormi manuali. ‘Questo tuo passaggio funzionerebbe meglio se guardassi i Notturni di Debussy’, mi diceva. Io oggi insegno nello stesso modo”. […] Durante il suo apprendistato, confessa, è stato vittima di “alcune malattie della musica contemporanea, dall’aleatoria al grafismo, per poi trovare la mia strada, senza ideologie né filiazioni”» (Bentivoglio). «I primi brani risalgono a uno Sciarrino diciannovenne, quali Sonata per due pianoforti del 1966 e Berceuse composta nell’anno successivo, rivelando, seppur in maniera ancora da sviluppare, quella tendenza ai suoni fantasmagorici che gli sarà propria» (Renzo Cresti). Abbandonata la Sicilia nel 1969, dopo un breve periodo trascorso a Berlino visse dapprima tra Roma, «dove ho fatto anche il copista per Ricordi», e Venezia, dove era ospite del compositore Ernesto Rubin de Cervin e della moglie («Sono stati i miei primi mecenati oltre che amici sinceri. Io vivevo in miseria. A Roma non avevo riscaldamento, ma per fortuna passavo gran parte del tempo degli inverni a Palazzo Albrizzi, loro ospite. Quegli inverni passati a Venezia sono fra i ricordi più belli e strani che conservo»), per poi stabilirsi a Milano, dove a soli 27 anni «mi diedero un posto al Conservatorio per chiara fama, poiché avevo già debuttato alla Scala. Mi è successo tutto in anticipo». «A Berlino ho vissuto pochi mesi, prima di trasferirmi a Roma. È stata un’esperienza importante, perché la città era pervasa dall’energia dei moti del ’67, antecedenti a quelli parigini. L’atmosfera era carica di tensione e fermento. Si iniziavano a intravedere nuove direzioni» (a Carlotta Petracci). «La musica di Sciarrino, […] già al suo apparire negli anni Settanta, fu di un’assoluta originalità, non solo in ambito italiano ma internazionale. […] La scrittura è costruita su suoni pulviscolari, formata da figurazioni veloci e impostate su armonici che rendono il frusciare della musica simile a un soffio, impalpabile e ai limiti di un silenzio panico. […] I brani composti fra gli anni Settanta e Ottanta hanno tutti queste caratteristiche, da Sonata da camera (1971) a Il paese senz’alba (1976), da Il paese senza tramonto (1977) a Che sai, guardiano, della notte? (1979), brani che esprimono l’impalpabilità di forme in continuo movimento, da Introduzione all’oscuro (1981) alla polifonia liquescente di Let me die before I wake (1982) a Fra i testi dedicati alle nubi (1989), una poetica rivolta al notturno e alle forme-non-forme delle nuvole, sempre cangianti e in movimento; inoltre le Sonate pianistiche, iniziate nel 1965 (la quinta è del 1995). Figure musicali fluide e finemente elaborate in micro-variazioni di arabeschi preziosi. […] Anche al teatro Sciarrino giunse presto: a 26 anni scrisse Amore e Psiche, opera basata su una concezione teatrale a-tematica e volatile. […] Seguirono altre prove che segnarono sia l’attitudine teatrale di Sciarrino, la sua vocazione alla lieve e labile narrazione, sia l’affermazione del suo personalissimo modo di raccontare e di nascondere, di evocare e di tacere, di rievocare e di favoleggiare; in pochi anni si susseguirono Aspern (1978), Cailles en sarcophage (1980), Vanitas (1981) e Lohengrin (1983). […] Al 1986 risale l’incontro con Alvise Vidolin, dal quale Sciarrino apprende l’uso del live electronic come elemento progettuale: al tempo Sciarrino stava iniziando a lavorare all’opera Perseo e Andromeda (1991), che fu il suo primo lavoro basato su suoni generati in tempo reale da quattro computer che operano per sintesi sottrattiva ossia agiscono attraverso filtri che selezionano i suoni dal suono bianco» (Cresti). «In Perseo e Andromeda non ho usato le sonorità brillanti e smaltate dell’elettronica, ma ho cercato di ricreare artificialmente dei rumori reali: le pietre battute, il vento, il mare. Ottenere questi suoni sinteticamente, cercando di ricreare una iper-realtà, era un approccio totalmente divergente ai miei tempi, ma che si fondava sulla consapevolezza della capacità dell’organismo di riconoscere e rispondere a quei suoni». «Il teatro è anche vocalità, e una ricerca di Sciarrino riguarda l’uso nuovo delle modalità del canto, aspetto evidente in Perseo e Andromeda ma ancor più nella fortunata Luci mie traditrici (1998), dove il fulcro dell’opera sono proprio le voci, attorno alle quali girano i suoni strumentali, creando un ininterrotto flusso di coscienza. Il primo nucleo dell’opera Macbeth risale al 1976, e verrà completata nel 2001. […] Sono da ricordare anche l’estasi di un atto Infinito nero (1998), l’originale musica per pupi siciliani Terribile e spaventosa storia del Principe di Venosa e della bella Maria (1999), l’opera Da gelo a gelo (2006) e il “quasi monologo circolare” La porta della legge (2009)» (Cresti). «Oggi ha al suo attivo più di un centinaio di cd e ha composto varie opere liriche, con una sensibilizzazione progressiva per l’uso della voce: “Via via ho compreso che il mio modo di usarla non era caratterizzato come negli strumenti, e ho messo a punto un mio stile vocale utile ai lavori teatrali”. Ama il racconto scenico e gli piace ispirarsi alle passioni nere e antiche: la follia di Torquato Tasso, il suicidio di Borromini, il principe omicida Gesualdo da Venosa. Rievoca e trasforma con partecipazione emotiva Mozart, Scarlatti o Gesualdo, filtrando dentro un linguaggio nuovo, ombroso e poetico la sua fiducia nella musica del passato» (Bentivoglio). «Opera sua più famosa Luci mie traditrici, scritta nel ’98, ispirata alla tragica vicenda di Gesualdo da Venosa, che in nome dell’onore fece massacrare sua moglie e l’amante di lei. Un’opera fortunata. […] “Sì, Luci ha girato il mondo, ma per me è ormai lontana. Come se non mi appartenesse più. Ormai inseguo altro”, assicura Sciarrino. Eppure quel groviglio sanguinoso di voluttà e delitto lo perseguita. Per Ti vedo, ti sento, mi perdo, l’opera commissionatagli dalla Scala per il 2017, […] con la Staatsoper e la regia di Flimm, lo spunto è un altro compositore secentesco, Alessandro Stradella, trucidato con la sua amata dai sicari di un geloso abbandonato. “Amore, morte, tradimento sono i motori del teatro e della vita. In quelle di Gesualdo e di Stradella l’irrazionale e l’eccezionale diventano normalità”» (Giuseppina Manin). Tra le sue ultime composizioni Il canto s’attrista, perché? (Scene da Eschilo). «L’opera si insinua fra l’Ifigenia di Gluck e l’Elektra di Richard Strauss: sentiamo finalmente la voce di Clitemnestra. […] Rispetto a Eschilo, ho sfoltito molto i cori per evitare tutti gli antefatti della guerra di Troia. Credo anche di essere riuscito a eliminare ogni puzza di aula chiusa sfrondando il linguaggio di espressioni che non significano più nulla oggi. Cassandra non dice “ahimè” ma canta come un uccellino impaurito: “Ototototoi popoi popoi da, Apollo Apollo”» (Stefano Nardelli). All’attività di compositore affianca tuttora quella di docente, in particolare presso l’Accademia Chigiana di Siena. «A Siena, come a Boston e a Toronto, ha un approccio didattico molto differente da quello in uso nei conservatori: “Non si possono imparare a scuola la grammatica e la sintassi e poi sentirsi poeti. Perciò parto dal linguaggio dei grandi compositori: solo analizzando in profondità le loro partiture si assorbiranno certe caratteristiche”» (Bentivoglio) • Numerosissimi riconoscimenti conseguiti, tra cui il Leone d’oro alla carriera per la musica alla Biennale di Venezia (2016), per aver scoperto «un mondo sonoro inaudito, dando un impulso decisivo al rinnovamento della musica contemporanea e dimostrando come la musica, per rinnovarsi e ritrovarsi, debba uscire dalla propria forma storicizzata per farsi esperienza d’ascolto in cui lo spettatore è al centro di fenomeni misteriosi e quasi ancestrali». «L’Università di Palermo mi ha pure dato la laurea honoris causa in Musicologia, ed è una cosa che mi ha creato un cortocircuito interiore. Perché tutti i problemi con mio padre erano legati al fatto che non fossi laureato: per lui la musica era un’idea priva di senso» • Celibe. «Ho deciso di fare il compositore perché era un’impresa difficile. Un mestiere da uomo dimezzato. Anche quando sto con gli altri c’è sempre una parte di me che resta al tavolo di lavoro. Non ho famiglia, non avrei potuto averla» (Manin). Dal 1983 risiede a Città di Castello (Perugia), «“tuffato nel verde e respirando aria pulita, fondamentale per le mie allergie”. […] Si è stabilito nella cittadina umbra perché vi ha trovato la dimora che cercava, “duecento metri su tre piani, dove ho potuto mettere tutta la mia biblioteca e la mia folta quadreria”» (Bentivoglio) • «Quanto all’essere siciliano, io lo sono profondamente. Sia nel modo di pensare, sia nel basare tutto sulla centralità dell’identità culturale. La Sicilia è stata un territorio importantissimo, e siccome l’Italia è un Paese arretrato la Sicilia rimane ancora una delle terre più importanti» (a Michele Coralli) • «Non vivo male, ma non sono ricco: sono sempre un po’ al limite del tracollo» • «“Fino al 2007 ho resistito […] al telefonino, poi ne sono diventato schiavo. L’antidoto sono i libri. Mi piace leggere e ancor più rileggere”. Ascolta musica? “Solo in compagnia: la musica va condivisa. Da solo mai: è distraente. Coltivo la disciplina del silenzio”» (Manin). «Gli piacciono il rock, il rap, i madrigali. I Beatles e Beethoven, Stockhausen e Ligeti» (Manin) • Appassionato di haiku giapponesi sin dall’infanzia, «quando ebbi la fortuna di leggere il maestro Basho, asceta del periodo Edo. Le sue poesie rapide ed essenziali fanno percepire con immediatezza il mondo esterno per trarne un ritmo e una successione» • «Riservato al limite della segretezza» (Manin). «Emana qualcosa d’innocente e impudico, da folletto. Nulla di solenne o istituzionale sfiora i suoi discorsi. Si colloca all’opposto del grande compositore parruccone e vanesio. Sembra appagato, salutista e zen» (Bentivoglio) • «Un solitario fuori da mode, correnti o ideologie» (Manin). «Uno dei grandi irregolari» (Mario Gamba). «Sempre squisitissimo» (Mario Bortolotto). «“La musica incontra il corpo. Tocca e accarezza. Brividi, penetra”: così proclama il libretto sciarriniano [di Ti vedo, ti sento, mi perdo – ndr]. La sua musica però non rivela queste qualità. Manca proprio di fisicità, di corpo. Con le sue microvariazioni di microcellule ritmiche e melodiche, i suoi soffi, i suoi trilli e glissandi, sfiora tutto senza afferrare nulla. Vola impalpabile. E ha, sia pure con alcune varianti, lo stesso lessico che il pubblico di Sciarrino ascolta da 40 anni: rivoluzionaria per davvero al suo apparire, manieristica oggi. Come se l’autore fosse ormai epigono di se stesso. D’altra parte circola tantissimo, ovunque. E quindi ha ragione lui a riproporla instancabilmente» (Enrico Girardi) • «Si sente più ammirato all’estero o in Italia? “All’estero, dove m’innalzano come un vecchio maestro. L’Italia è un Paese che tiene le finestre chiuse”» (Bentivoglio) • «La sua grande ispiratrice resta sempre lei: madre natura. “Se uno non sa ascoltare i suoi infiniti suoni, non sa nemmeno ascoltare la musica”, avverte Salvatore Sciarrino. […] “Rifiuto l’idea di dividere il mondo fra animato e inanimato – spiega –. Per me tutto è vivo. L’uomo non è al centro dell’universo: un animale o un albero possono insegnarmi molto di più sul rispetto degli altri. E anche sulla solidarietà”» (Manin). Rivendica a sé la definizione di «eretico» per aver sempre perseguito una musica «ecologica»: «Io mi occupo di percezione. Per me il centro della partitura non è la pagina di musica, bensì ciò che raggiunge l’ascoltatore. L’eresia consiste nel sottrarre la partitura a una pretesa di oggettività. […] Fino agli anni Settanta, quello che facevo veniva considerato come una rappresentazione della realtà e in buona parte rigettato, perché tra i musicisti, ancora oggi, prevale la visione di “arte per l’arte” di fine Ottocento. L’ambiente invece è un concetto ecologico, perché io non distinguo tra linguaggi umani e animali, essendo tutti segnali che ci circondano e che riconosciamo. Gli stessi rumori del tram fanno parte della città, se non li sentiamo è per mancanza di attenzione. […] Il linguaggio non è un dato oggettivo, perché viene filtrato dalla percezione individuale. […] Ho sempre pensato che ci si debba orientare verso la scoperta dell’uomo e che la musica sia chiamata a umanizzarsi». «Ciò che mi interessa davvero è che la musica possa riscoprire il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente, che era ed è tuttora negato nell’insegnamento della composizione all’interno dei Conservatori. La scissione tra una sorta di musica pura e quello che è il nostro modo di vivere la musica è una cosa insana». «È la percezione che cambia il suono» • «In generale, […] guardando la storia della musica elettronica, sebbene ci siano state alcune opere che hanno veramente aperto nuovi mondi, mi sembra che non ci siano poi state le mietiture che sarebbe stato legittimo attendersi» (a Maurizio Azzan) • «Lei ha un catalogo sterminato, però per il cinema non ha mai scritto. “Ho avuto delle occasioni, ma le ho sempre rifiutate. Morto Nino Rota, Fellini mi diede un appuntamento a Roma: mi chiedeva che lo seguissi sempre, quindi rinunciai. ‘Al maestro si dice sempre di sì, poi al limite lo molli’, disse un’amica. Venni rimproverato un po’ da tutti. […] Conservo ancora una lettera dove si dice dispiaciuto della mancata collaborazione. Mi è rimasta impressa questa frase: ‘La tua musica ha le sue immagini’”. In compenso ha scritto un brano in omaggio a Ennio Morricone. “Nel suo genere è il più bravo, da ammirare. Lo conosco bene perché quando avevo vent’anni facevamo parte entrambi del gruppo Nuova Consonanza: suonava la tromba”» (Franini) • «Credo che ogni opera sia destinata […] a trasformarsi. È sbagliato pensare al rispetto ortodosso delle volontà dell’autore: io conosco dei colleghi che vivono così, andando in giro come forsennati a controllare le proprie esecuzioni. Ma è nel tradimento che un’opera vive» • «Non vedo differenza tra musica antica e moderna, tra classica e leggera. Il problema oggi è la mancanza di capacità di ascolto. Quando andiamo a sentire qualcosa, non siamo pronti ad accettare l’estraneo. Ecco perché la musica contemporanea viene considerata difficile, soprattutto in Italia». «“Certa musica risulta ostica a causa di un diffuso imprinting negativo. L’intero clima sonoro che ci circonda ignora la libertà d’ascolto e impone esclusivamente la musica leggera: la pubblicità, la televisione, gli insegnanti nelle scuole… Andrebbe fatta tabula rasa”. […] Ma come si fa a partire da un grado zero dell’ascolto in questa nostra realtà soffocata dal rumore? “Tramite un lavoro di ecologia. Da ragazzino, in Sicilia, facevo ascoltare Stockhausen nei circoli di paese e gli uditori sentivano il suono dell’acqua o il canto degli uccelli. Se si è dentro la routine della vita, non si fa altro che parlare. Parli e parli, senza riflessione: il tacere ci dà ansia. Solo nel silenzio sarà possibile riflettere e ascoltare”» (Bentivoglio) • «Sembra che lei rifiuti di essere giudicato “difficile”. “La mia musica ha una forte immediatezza d’espressione. Non è intellettualistica ma corporale: lavora sulle percezioni di chi ascolta. Oggi è più tagliente: usa suoni vecchi e li fa sembrare nuovi. E tocca emozioni profonde”» (Bentivoglio) • «La musica rende migliori? “Non credo. A me però ha dato maggiore logica. La musica apre la mente all’immaginazione, aiuta a raggiungere i sogni”» (Manin).