14 aprile 2023
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Biografia di Goffredo Fofi
Goffredo Fofi, nato a Gubbio (Perugia) il 15 aprile 1937 (86 anni). Critico cinematografico, letterario e teatrale. «Il fare conta quanto il pensare, e un pensiero che non si fa azione, carne, corpo, storia non vale niente» • «Famiglia contadina, così povera che il padre è costretto a emigrare in Germania, da cui fugge quando rischia di essere assoldato dai nazisti» (Cristina Battocletti). «A Gubbio i tedeschi ammazzarono per rappresaglia 40 persone, tra le quali vidi morire il genitore d’un mio compagno. Poco dopo mio padre mi condusse a Roma, alle Fosse Ardeatine: le file di bare allo scoperto, il pianto dei famigliari. Quelle visioni hanno lasciato un segno. Domande, paure, anche angosce. Le mie nevrosi sono nate allora, insieme al bisogno di stare con le persone, concretamente» (a Simonetta Fiori). «Fofi, come molti ragazzini italiani, da bimbo serviva messa con grande devozione e sacrificio, alzandosi all’alba per svolgere questo compito» (Antonello Catacchio). «Il bambino, rapito da una terribile paura della morte, guarisce andando avanti e indietro dal cimitero come chierichetto. Il cattolicesimo è un punto fermo fino all’adolescenza: da qui la sua simpatia per i preti di strada e gli “ultimi” di padre Turoldo. Gubbio è anche la città dove si innamora del divertimento alla portata di tutti, il cinema, e soprattutto di Macario, Magnani (allora comica) e Totò» (Battocletti). «Io sono cresciuto in una famiglia operaia socialista che trasmetteva, in modo generico, questi ideali. Poi leggevo l’Avanti!, partecipavo alle riunioni della Società operaia di Gubbio» (a Enrico Di Fabio). «“Il Sud è stato il mio primo amore”. […] Fofi, come ha scoperto il Sud? “Come molti della mia generazione. A 14 anni lessi Cristo s’è fermato a Eboli, poi su Cinema Nuovo di Aristarco vidi un fotoservizio di Enzo Sellerio dedicato alla Sicilia di Dolci. Dopo il diploma di maestro, nel 1955, da Gubbio decisi di scendere da Danilo. All’appuntamento mi accompagnò mio padre, un contadino umbro con la terza elementare: essendo di fede socialista, non batté ciglio e mi lasciò andare”. I disoccupati di Partinico e i bambini di Cortile Cascino, quasi Terzo mondo. “Per me la scoperta di un mondo tragico, il Sud raccontato da Levi ma anche dal neorealismo di Germi. Partecipai allo ‘sciopero alla rovescia’ dei disoccupati: erano in gran parte poveri cristi della banda Giuliano che uscivano dal carcere. Vidi bambini che languivano nella miseria. Una notte mi chiamarono nella baracca d’una ragazzina uccisa dalla fame. Partecipai alla veglia funebre, quando all’improvviso ne sentimmo esplodere la pancia rigonfia. Avevo 19 anni”. […] Da dove nasceva la sua vocazione missionaria? “Eravamo in tanti, allora. All’inizio c’era forse un po’ di velleitarismo, poi venivi coinvolto in una rete sociale e intellettuale molto forte. Grazie a Danilo, ho avuto la possibilità di essere accolto dalle famiglie Calogero e Gobetti, di stringere la mano a Parri, di incontrare Salvemini, di diventare amico di Capitini, Bobbio e Venturi. È come essere trascinati nella storia”» (Fiori). «È stata un’esperienza in qualche modo mistica, come nel Medioevo quando i santi venivano gettati nella fossa dei serpenti e ne uscivano miracolosamente intatti. Da quella comunità di circa un migliaio di persone – ché i miei rapporti non erano soltanto con i bambini, ai quali insegnavo, appena diplomato maestro, le nozioni più elementari – ho imparato tutto. Il Cortile Cascino, dico sempre, è stata la mia università. È lì che ho imparato a sentire la necessità di occuparmi del prossimo, che la cultura è fatta di rapporti umani e significa in primo luogo comprensione dei bisogni sociali. […] Di Gubbio, dove sono nato, amo soprattutto le pietre, il sentimento che ho con i morti, di cui ascolto la voce. La Sicilia è stata per me la scoperta della vita» (a Marcello Benfante). «I carabinieri gli firmano il foglio di via, che è ancora un provvedimento da Ventennio fascista, ma a rileggere oggi l’accusa è anche il viatico della sua intera vita: “Per avere insegnato senza percepire stipendio”. Lucio Lombardo Radice scrive in sua difesa un editoriale sulla prima pagina dell’Unità: “Delitto d’alfabeto”. E lui stesso detta il suo primo articolo, pubblicato sul Nuovo Corriere di Romano Bilenchi: “Era siglato ‘g.f.’. Lo lessi emozionatissimo: parlava di lotte rurali e di miseria nera. Ma lo lessi in treno, perché il mondo stava cambiando”» (Pino Corrias). «“Se non fossi andato via”, spiega Fofi, “sarei diventato come loro”, come gli esclusi di Partinico. Margine aperto sul nulla. Fuga dalla Sicilia, dunque» (Costantino Cossu). «Tentammo una breve esperienza simile in Calabria, ma il movimento non attecchì. Allora Raniero Panzieri, che era stato dirigente del Psi in Sicilia, mi suggerì di andare a Torino. Era lì che si spostava lo scontro di classe, perché i contadini emigravano, si inurbavano e diventavano operai». «A Torino c’è tutto da fare: scioperi, cineforum, corsi di italiano per gli immigrati che parlano solo dialetto. In prospettiva la Rivoluzione, certo. Nell’immediato le riviste. Cominciando da quelle che ci sono: Il Ponte, Nord e Sud, Nuovi Argomenti. Naturalmente i Quaderni Rossi di Raniero Panzieri, dove si declina il “marxismo scientifico”. E poi il Giornale dei Genitori appena fondato da Ada Gobetti, Il Nuovo Spettatore Cinematografico, con Gianni Rondolino, le inchieste sul campo da ciclostilare. Racconta: “Un’estate, la passai girando in treno e a piedi per la Val d’Aosta con la mia amica Giorgina Vicquèry, maestra elementare, a intervistare i ragazzini pastori affittati nel Sud e spostati di mille chilometri, per quattro mesi all’anno, nella solitudine dei pascoli alti delle Alpi”» (Corrias). «Fofi aveva vissuto in prima persona uno scontro al vertice dell’egemonia culturale comunista, quando Giulio Einaudi si rifiutò di pubblicare il suo primo libro, L’immigrazione meridionale a Torino, spaccando il comitato editoriale della casa editrice torinese. Rievoca oggi: “Come non ricordare che alcuni dei miei ‘protettori’ e maestri diretti o indiretti dell’Einaudi (Bobbio, Venturi, Bollati, Calvino) votarono contro il libro, e che la posizione più dura fu di Delio Cantimori, che collegava il mio nome a quello di Aldo Capitini; e come non ricordare che Massimo Mila disse la cosa più giusta quando accusò gli altri di non volere la pubblicazione dell’inchiesta […] perché vi si attaccava la Fiat?”. […] Per la cronaca, il libro di Fofi sarebbe uscito da Feltrinelli nel 1964» (Alberto Riva). «Poi […] una parentesi francese, addirittura parigina, padre, madre e fratelli emigrati nella grande banlieue operaia, lui in un sottotetto del Quartiere latino, con i cineclub notturni, il bianco e nero della Nouvelle Vague, la scoperta di Jean-Luc Godard (“che sarà pure stato presuntuoso e antipatico, ma ha cambiato il cinema”), le lezioni alla Sorbona di Roland Barthes e di Michel Foucault» (Corrias). A Parigi «Fofi prova a studiare sociologia ma si annoia, segue i seminari di Lacan ma senza trasporto, entra nella redazione di Positif assecondando la passione di sempre, sin da ragazzino, per il cinema. Parigi ha il respiro della storia, è un centro pulsante della vita culturale europea. Ma il gioco delle scuole di pensiero contrapposte si rivela, in termini di conoscenza effettiva del reale, a somma zero. Pratica autoreferenziale. Via allora, ancora una volta» (Cossu). «Arriva anche a Milano, e quando il Pci afferma “La cultura siamo noi” lui replica: “Un cavolo”. E sono Quaderni Piacentini, Ombre Rosse, il Living Theatre, Carmelo Bene, Schifano, recensioni demolitrici di mostri sacri (su cui ora sorride)» (Catacchio). «Scrive soprattutto di cinema, collegandolo nelle sue recensioni alle trasformazioni in atto nella società. Il risultato è Il cinema italiano: servi e padroni (Feltrinelli, 1971). Pagine che risultano un po’ invecchiate sul versante dell’analisi dei singoli film (lo stesso Fofi su Fellini, ad esempio, ha cambiato idea), ma che valgono ancora nella denuncia della supposta superiorità morale del nostro cinema impegnato, fonte di equivoci e brutte opere. Il decennio del lungo Sessantotto, Fofi lo vive da fratello maggiore e, pur impegnato in Lotta continua, continua a dividersi tra politica e cultura» (Alberto Saibene). «Negli anni intorno al Sessantotto diventai spietato e ringhioso, rinnegando anche l’ispirazione non violenta del mio maestro Capitini. Oggi mi pento abbastanza, ma non dei giudizi di fondo – se vado a rileggermi le stroncature dei film italiani, credo che avessi ragione –, ma della mia aggressività: ci mettevo qualcosa di sporco, di cui un po’ mi vergogno». «“A Milano il clima era pessimo. […] Decisi di ricominciare da Napoli”. […] A Montesanto fondaste la mensa proletaria per i bambini. “Sì, ti prendevano in giro perché andavi a pulire il sedere ai bambini anziché sparare contro la polizia. Per me fu un’esperienza bellissima. Vincemmo un processo contro Valentino, che faceva lavorare le ragazzine di Portici: la colla era micidiale e rimanevano paralizzate per mesi”» (Fiori). «Anche l’avventura napoletana però si spegne, sepolta dal terremoto, che segna la fine di una scommessa dal respiro corto. Di nuovo su un treno, allora. Destinazione Roma. Città che per Fofi […] è in realtà soltanto il porto dal quale muovere costantemente verso altri cento approdi in tutta Italia, nella cura di una rete di iniziative di base che provano a inserire nella deprimente realtà degli ultimi decenni elementi di resistenza. Il nomadismo fofiano e le motivazioni che lo rendono necessario sono evidenti peraltro anche in una delle attività in cui Fofi si è speso di più, la creazione e la direzione di riviste di cultura e di impegno politico e sociale: dopo Quaderni Rossi e Quaderni Piacentini, Linea d’Ombra, Lo Straniero e l’ultima, Gli Asini» (Cossu). «Memorabili battaglie, memorabili litigi. “Ho avuto l’onore – dice – di litigare quasi con tutti e di fare pace con molti. Da Fellini a Moravia. Da Calvino a Fortini”. Oggi non saprebbe più con chi litigare: “Con Serena Dandini? Con l’orribile buonismo di Roberto Benigni?”. […] Il suo Capire con il cinema ha influenzato lo sguardo di migliaia di ragazzi. Dalla maschera di Totò ha estratto l’epopea della cultura popolare e della faccia di Alberto Sordi un pezzo della storia italiana. Si è misurato con le nuove generazioni di scrittori e di registi. Anche se ama sempre di più i vecchi come Rigoni Stern e Olmi. Ha molto stroncato e molto amato. Talvolta contemporaneamente, come con Nanni Moretti o Alessandro Baricco. Ma ha anche molto insegnato. Specialmente a leggere, lui che ha sempre letto tutto: da Schopenhauer ai fumetti di Art Spiegelman, dalla critica d’arte di Roberto Longhi ai mondi paralleli di Philip K. Dick» (Corrias). «Goffredo Fofi ha attraversato oltre sessant’anni di storia culturale e politica italiana, […] instancabile nel pubblicare articoli, curare collane editoriali, firmare prefazioni, cioè “fare” attraverso lo “scrivere”. […] Ed eccolo ancora qui: impegnato, sia nel senso che è attivissimo su mille fronti, sia nel senso di engagé. La cultura serve soltanto se migliora la realtà sociale» (Luigi Mascheroni) • «Impossibile provare a ricostruire una bibliografia davanti a una produzione sterminata. […] Due libri usciti da poco invitano a fare un bilancio sul suo ruolo nella cultura e nella società italiana: Caro agli dèi (e/o), una serie di ritratti di amici e sodali morti in genere giovani, e Sono nato scemo e morirò cretino. Scritti 1956-2021 (minimum fax), una ricca antologia curata dallo studioso di cinema, amico e allievo Emiliano Morreale» (Saibene) • Protagonista del documentario biografico Suole di vento di Felice Pesoli, presentato nel 2020 al Torino Film Festival. «“Suole di vento” è il soprannome che Paul Verlaine diede ad Arthur Rimbaud. […] Fofi è infatti, come Rimbaud, un nomade. E lo è, come Rimbaud, per il terrore che la vita, e con essa il pensiero, si irrigidiscano in figure di morte» (Cossu) • Celibe. «“Io credo di avere imparato enormemente dalle donne – tutte figure straordinarie, da Ada Gobetti ad Angela Zucconi, da Gisella De Juvalta a Gigliola Venturi. Ma nel rapporto con loro ero condizionato da una cultura profondamente maschilista. Distinguevo tra le mamme o le maestre o le leader e le donne sessualmente impegnative: delle prime non avevo paura, delle altre sì”. […] Lei s’è donato a una comunità, ma non a una persona. Ha fatto da testimone di nozze a moltissimi, ma non ha voluto un legame stabile. “Mah, mi circonda questa fama paternalistica che un po’ mi rompe. Quanto a me, ho sempre evitato storie sentimentali che potessero isolarmi. Ma oggi questi discorsi non contano più: la pace dei sensi è una gran bella cosa”» (Fiori) • «Senza amici, la vita non è vita» • «Io, alla lotta di classe, ci credo!». «Quando ha smesso di volere la rivoluzione? “Abbastanza presto: standoci dentro ho visto che finiva tutto malamente. E attecchivano i prodromi del narcisismo”» (Paola Zanuttini) • «Tutte le mattine, da ben più di mezzo secolo, Goffredo Fofi si alza a ore antelucane e scrive uno o due articoli. Fino a che era possibile pestava le dita sulle Olivetti elettroniche, poi si è dovuto rassegnare al più silenzioso pc» (Saibene) • «Sguardo severo e […] sorriso circondato da barba bianca» (Corrias). «Più che un intellettuale (“detesto quella parola”), una “redazione” in vagone letto, irrequieto e fremente, ieri a Trieste oggi a Roma domani a Matera, “perché io so lavorare solo così”, senza fissa dimora, bastone e zaino in spalla» (Fiori) • «Forse l’ultimo critico militante su piazza» (Riva). «Uno degli ultimi grandi maestri» (Mirella Armiero). «Allievo di pochi, maestro di molti. […] Culturalmente onnivoro, filosoficamente anarchico e politicamente intollerante, da sinistra, alla sinistra ortodossa» (Mascheroni). «Una delle voci più conosciute, prestigiose e militanti della critica cinematografica italiana, ha inaugurato un nuovo modo di leggere il cinema attraverso analisi rigorose, ma nello stesso tempo appassionate e attente ai fenomeni sociali e culturali» (Gianni Canova). «È un caso rarissimo di intellettuale militante di provenienza non borghese e che da questa posizione è stato forse il primo a rivalutare la cultura popolare: non solo l’amato Totò, ma Maciste, la fantascienza, l’avanspettacolo o il fumetto. […] Fofi è un non riconciliato. A volte il disprezzo per il presente risulta un po’ meccanico, ma è sempre attento a distinguere tra produzione culturale (sempre esigua, da cogliere ai margini della vita collettiva) e consumi culturali, che è quello che oggi si intende solitamente per cultura: i festival, i bestseller, oppure l’aggiornamento tecnologico della scuola, in cui si confondono i mezzi con i fini» (Saibene). «Un laico ovviamente particolare, nel quale un sentimento religioso manicheo trasforma il giudizio di gusto in diagnosi epocale, in scontro all’ultimo sangue tra bene e male, impegno e disimpegno, serietà e cialtroneria. Con la voglia esibita di star da solo o, al massimo, in compagnia di sparuti resistenti con cui magari aprire e chiudere una rivista. Ecco, Fofi maestro di provvisorietà, di salutare messa in discussione, personale e collettiva, delle idee ricevute» (Marco Lombardi). «Rompicoglioni per vocazione e scelta, mai per lucro. Lui, i soldi, li detesta. È vero davvero» (Catacchio). «Un santone dell’ultrasinistra storica» (Giovanni Raboni). «Lo stimo molto come critico letterario, meno come critico cinematografico» (Giuseppe Tornatore). «Fofi è un fanatico, non condivido una virgola di quello che scrive» (Gabriele Muccino) • «La frase che gli scalda di più il cuore è ancora quella di Albert Camus: “Mi rivolto, dunque siamo”. Dice che in tanti anni ha imparato a fare due cose soltanto, “che probabilmente coincidono”, un po’ di pedagogia e le riviste. Non vuole essere considerato un intellettuale e neppure li ama, cita Molière: “Un intellettuale cretino è molto peggio di un analfabeta cretino”. Detesta i politici di sinistra, i partiti di destra, gli assessori alla cultura, i giornalisti, la tv, la piccola borghesia, le università, il lusso, la carne, le automobili, gli specchi, il narcisismo. Adora i treni. […] Si sente libero: “Non ho vanità. Non ho lauree. Non ho posti da difendere”. E in permanente ritardo “a costruire reti, insegnare un po’ di poesia e a ribellarsi alla poesia”. Tra il milione di giudizi scritti, il più bello è l’elogio di Heinrich Böll: “Mi piace perché è lo scrittore del Novecento che nei suoi libri usa più spesso la parola ‘pane’”» (Corrias) • «Io non credo più alla cultura, ormai. Mi sembra, per usare un linguaggio antico, un modo per ingannare il popolo. La cultura oggi serve a far girare il denaro e addormentare la gente. Io penso che una cultura slegata dall’azione, da un concreto operare per trasformare la società, sia soltanto una forma di narcisismo» • «Due sono stati i grandi registi amati da Goffredo Fofi: Luis Buñuel e Fritz Lang. Entrambi incontrati con sua grande soddisfazione» (Catacchio). «“Gli artisti consapevoli del loro ruolo sono pochi. Ero amico di Fellini e Pasolini: non si amavano, ma si rispettavano e temevano, come Bernini e Borromini”. Neanche lei era tanto tenero con loro. “Però li amavo, e se ne accorgevano. Poi Fellini mi chiese perché da giovane ce l’avessi con lui. Gli risposi: ‘Perché io volevo la rivoluzione e tu no’. E lui: ‘La rivoluzione io? Ma sei scemo?’”» (Zanuttini) «La Morante una volta si infuriò con me perché avevo detto che un militante proletario era meglio di un poeta anche se grandissimo. Ma oggi penso che lei avesse ragione» • «Può anche capitare, per campare, di vendere il culo. L’importante è non vendere l’anima» • «Ho avuto una vita fortunata» • «Non credo più nella possibilità di vincere, ma credo fortemente nel dovere di resistere. “Fa’ quel che devi, accada quel che può”, diceva il vecchio Salvemini».