28 aprile 2023
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Biografia di Andre Agassi (Andre Kirk Agassi)
Andre Agassi (Andre Kirk Agassi), nato a Las Vegas (Nevada, Stati Uniti) il 29 aprile 1970 (53 anni). Ex tennista. «Agassi è uno dei tre tennisti dell’èra open ad avere vinto almeno una volta tutte e quattro le prove del Grande Slam e l’unico uomo ad essersi aggiudicato, oltre ai quattro prestigiosi tornei, la medaglia d’oro del singolare olimpico, il torneo Atp World Championship e la Coppa Davis. Lui che ha sempre odiato il tennis» (Emanuela Audisio). «Soltanto i pugili possono capire la solitudine dei tennisti, anche se i pugili hanno i loro secondi e i manager. Perfino il suo avversario fornisce al pugile una sorta di compagnia, qualcuno a cui può avvinghiarsi e contro cui grugnire. Nel tennis sei faccia a faccia con il nemico, scambi colpi con lui, ma non lo tocchi mai, né parli a lui o a qualcun altro» • Ultimo dei quattro figli dell’iraniano di ascendenze armene e assire Emanoul Aghassian (nome poi anglicizzato in Emmanuel «Mike» Agassi) e della statunitense Elizabeth Dudley. Il padre, «in Iran, negli anni ’40 è diventato un pugile facendo i conti con la povertà della sua famiglia. […] Prova rabbia. Sempre e contro chiunque. E con i pugni se la cava molto bene. Partecipa alle Olimpiadi, a Londra nel 1948 e a Helsinki nel 1952, ma non lascia il segno. […] Si trasferisce in America, ottiene la cittadinanza e cambia il suo nome in Mike Agassi. Sposa una donna bellissima conosciuta a Chicago, Elizabeth, che è il suo esatto opposto: pacifica, sempre calma, una che raramente perde il controllo. Avranno quattro figli» (Alessandro Frau). Era «arrivato negli Usa senza nemmeno la valigia, passato per le fabbriche e i ristoranti di Chicago, sbarcato infine a Las Vegas a far da buttafuori. Un uomo che, con i primi diecimila dollari sudati sangue, andò a costruirsi dietro la casetta prefabbricata un campo da tennis, e vi costrinse Rita, Philip, Tami e il piccolissimo Andre» (Gianni Clerici). Addirittura, quando erano ancora neonati, ai suoi figli «apparecchiava le culle come campi da tennis, con una pallina sospesa e piccole racchette. “Mi ero ripromesso, avessi avuto un bimbo, che sarebbe diventato famoso quanto gli australiani Rosewall e Laver”. A Las Vegas aveva anche iniziato a riaccordare racchette, e il tennis era diventato la sua vita» (Clerici). «Mike ama quello sport così tanto da organizzare incontri in cui il figlio stringe le mani a campioni come Ilie Nastase. Quando Connors è in città, Mike gli accorda le racchette e manda il timido figlio a portargliele. Andre, il più piccolo della famiglia, è la sua ultima speranza» (Frau). «Quando Andre Agassi aveva sette anni, suo padre […] cominciò a prepararlo per il tennis; coi tre figli precedenti aveva già tentato invano» (Masolino D’Amico). «Non ho fatto in tempo a sognare: il tennis era già il mio destino. Papà lo amava, l’aveva giocato, da bambino, in Iran e lo vedeva come la strada più veloce per il sogno americano. Io non ho avuto scelta» (a Vincenzo Martucci). «Il mio odio per il tennis si concentra sul drago, una macchina lanciapalle modificata dal mio vulcanico papà. Nero come la pece, montato su grosse ruote di gomma e con la parola “Prince” dipinta in bianche lettere maiuscole lungo la base, il drago assomiglia a una qualunque macchina lanciapalle di un qualsivoglia circolo sportivo americano. In realtà, però, è una creatura vivente uscita da uno dei miei fumetti. […] Quando il drago punta dritto su di me e spara una palla a 180 chilometri all’ora, emette un ruggito da belva assetata di sangue che mi fa sobbalzare ogni volta. Mio padre lo ha reso spaventoso di proposito. […] Papà dice che se colpisco 2.500 palle al giorno ne colpirò 17.500 alla settimana e quasi un milione in un anno. Crede nella matematica. I numeri, dice, non mentono. Un bambino che colpisce un milione di palle all’anno sarà imbattibile. Colpisci prima, grida mio padre. Accidenti, Andre, colpisci prima. Stai addosso alla palla, stai addosso alla palla. Adesso è lui che mi sta addosso. Mi grida direttamente nelle orecchie. Non basta colpire quello che il drago mi spara contro; mio padre vuole che colpisca più forte e più in fretta del drago. Vuole che batta il drago. Il pensiero mi sgomenta. […] Sono l’ultima speranza del clan Agassi. A volte apprezzo le sue attenzioni, ma altre volte vorrei essere invisibile, perché papà può fare paura». «Fin da piccolissimo è costretto in campo, trascurando addirittura la scuola d’obbligo, ammirato da spettatori increduli quali Björn Borg e Ilie Nastase. “A Las Vegas”, mi dirà Ilie, “c’è un bimbetto che colpisce meglio di me”» (Clerici). «Andre crebbe senza conoscere altro tipo di esistenza. La scuola era un optional, accantonato definitivamente quando il genitore, incoraggiato dai successi del rampollo in tornei dove batteva ragazzini più grandi di lui, lo spedì dodicenne in Florida, alla reclamizzata Accademia di Nick Bollettieri. Questa in realtà era un lager per adolescenti male alloggiati e peggio nutriti, costretti a esercitarsi incessantemente in una competizione feroce. Andre si era aspettato di trovarci un miglioramento rispetto alla schiavitù inflittagli a casa, e quando scoprì di essersi sbagliato reagì adottando comportamenti provocatori – si mise un proibitissimo orecchino, si fece tagliare i capelli come un mohicano, infranse regole disciplinari. Da ultimo tentò addirittura la fuga, ma a quel punto lo stesso Bollettieri, un ex marine con la mania dell’abbronzatura che aveva inventato quella singolare istituzione, gli offrì di esonerarlo da ogni retta e di gestire personalmente la sua preparazione. Andre lasciò fare, limitandosi a insistere con qualche stravaganza tipo presentarsi alle gare con i jeans tagliati al ginocchio invece dei consueti calzoncini, il che finì per renderlo popolare col pubblico giovanile. Bollettieri aveva capito questo, ma soprattutto si era reso conto dello straordinario talento del soggetto» (D’Amico). «Suo padre, Mike, […] non cesserà mai di lamentarsi per l’educazione – tennistica, sia chiaro – impartita al piccolo fenomeno da Nick Bollettieri, […] il quale non poteva mancar di tramutare un serve and volleyer in attaccante dal fondo, secondo la cultura che sarebbe divenuta imperante. […] “Quel che avevo impostato io, fin dalla culla con sopra una pallina oscillante”, mi disse papà Mike, “sarebbe stato un fenomeno del serve and volley, quale fu suo zio Pancho Gonzales, il marito di mia figlia Rita, campionessa mancata per amore. Avrebbe vinto certo di più dei suoi otto Slam”» (Clerici). In ogni caso, Agassi «ha cambiato il tennis, anzi lo ha travestito. Prima capellone, poi rasato. Giocando sempre d’anticipo e colpendo sempre più forte. Come tutti i ribelli che non vogliono portare rispetto. New look. Qualcosa di mai visto: il primo a vestirsi di rosa, al Roland Garros nel ’90. Una rockstar più che un atleta: orecchino, capelli lunghi (poi un parrucchino), taglio da moicano, torace depilato, unghia del mignolo lunga cinque centimetri e pitturata di rosso, occhi spesso truccati con la matita, niente mutande, per superstizione. Agassi per Lendl: “Un taglio di capelli e un diritto”. Per altri un punk con la racchetta. […] Però in campo straordinario: nel bene e nel male, aggressivo e suicida, vent’anni di carriera, più di mille match, dall’86 al 2006, ascese, cadute, rinascite, soldi e successi» (Audisio). «È nel 1988 che Agassi troverà la prima stagione ispirata, salendo a razzo al n. 3, dopo aver vinto qualcosa come sei finali dei sette tornei disputati al di fuori degli Slam. Ci vorranno, tuttavia, tre finali Slam perdute con ripetute titubanze per vederlo coronato proprio a Wimbledon, sul campo che meno si addice a un attaccante dal fondo. La fresca fama ne fa un personaggio» (Clerici). «All’Australian Open 1995 (lo Slam più amato, vinto quattro volte), si presenta con testa rasata e batte l’eterno rivale Pete Sampras in finale (“Credo che il nostro peggior incubo sia svegliarsi il mattino seguente e ritrovarsi nei panni dell’altro”). Lo ribatte in tre set nella primavera soleggiata di Key Biscane il 26 marzo, ed è la scintilla per la vetta. Il 10 aprile 1995 diventa il 12esimo giocatore della storia Atp a prendersi lo scettro, che conserverà per una trentina di settimane» (Stefano Landi). Nel 1996 «la vittoria alle Olimpiadi, ben 48 anni dopo l’apparizione di Emanoul Aghassian a quelle di Londra, è stato uno degli apici emotivi della sua carriera. “Ricordo il successo, l’essere in finale contro lo spagnolo Sergi Bruguera. Ricordo il caldo, […] 39 gradi con un’umidità pazzesca, subito dopo un acquazzone. Ricordo come ringraziavo la preparazione fisica per sopportare tutto ciò. Poi ricordo l’essere su quel podio. […] Le lacrime scesero dai miei occhi con mio padre tra il pubblico, mio padre che aveva partecipato ai Giochi come pugile”» (Frau). «La pagina più incredibile della sua carriera, Agassi la scrive al Roland Garros 1999, dopo una crisi profonda dalla quale sarebbe potuto non uscire. Nei due anni precedenti finisce fuori dai primi cento giocatori Atp. Deve curare un infortunio al polso e soprattutto la crisi del matrimonio con Brooke Shields. È qui che si incastrano tra un dolore e l’altro le esperienze coi cristalli di metanfetamina. […] Andre Agassi è tutto questo. Crescita, decadimento e ritorno. Al suo terzo tentativo vince il Roland Garros rimontando due set di svantaggio in finale ad Andrij Medvedjev e completa il Career Grand Slam» (Antonio Ortu). «È incredibile come un momento possa spazzare via tante delusioni. Ci ero arrivato vicino molte volte. Vincere è stato importante per non avere rimpianti» (a Stefano Cantalupi). «Pochi mesi dopo tornerà il numero uno del mondo e vincerà anche a Flushing Meadows. La rinascita sportiva coincide in toto con la rinascita nella vita sentimentale. Steffi Graf ricompone Andre Agassi: i due entrano subito in sintonia – anche per via del background sportivo condiviso. Si sposano nel 2001 e nello stesso anno arriva anche il primo figlio, Jaden Gil. Altri tre tornei dello Slam (otto in totale) contribuiranno a impreziosire il palmarès del ragazzo di Las Vegas, che ha finalmente trovato l’equilibrio giusto nella sua vita» (Ortu). «Col suo amico Gil, il gigante con la faccia butterata e il cuore tenero, ha scoperto l’allenamento, quello duro, e ha dissotterrato l’ascia di guerra della dedizione e della fede; con lo stratega del “gioco sporco” Brad Gilbert ha imparato finalmente la tattica abiurando definitivamente il vecchio maestro Nick Bollettieri. Così ha ritrovato se stesso» (Martucci). «Andre Agassi riesce ad arrivare in finale agli Us Open nel 2005, a 35 anni. […] Agassi si ritira l’anno dopo quella finale, nel 2006, sempre agli Us Open, sconfitto da Benjamin Becker» (Claudio Giuliani). «È stato il mio corpo a dire “stop”. Ci deve essere un equilibrio tra la tua vita e gli sforzi che richiede essere numero 1. Ognuno ha il suo punto di rottura, mentale o fisico: a un certo punto non ce la fai più» (a Stefano Semeraro). «L’addio ad Agassi non è soltanto un festoso funerale in vita, ma un definitivo saluto a un’èra tennistica, quella connotata dalla rivalità con Pete Sampras. […] Insieme, negli anni precedenti l’inizio della contemporaneità Federer-Nadal, i due hanno vinto ventidue Slam. I confronti diretti hanno visto prevalere Sampras, per venti a quattordici, e 6-3 nel corso dei Grandi Slam. Ma, se Pete è stato superiore sul rapido, Andre lo ha superato entrando nel ristrettissimo club […] di chi ha vinto ognuno dei quattro tornei Slam, seppur non nella stessa annata, come i due Grand Slammer Budge e Laver» (Clerici). «“Andreino”, come lo chiamava Gianni Clerici, oggi ha cambiato la sua vita. È diventato allenatore e mental coach. […] La sua fondazione ha aperto più di 60 scuole diffondendo l’importanza di una buona istruzione» (Frau). «Dare un’opportunità ai giovani è per me una priorità. La considero una ricompensa, qualcosa che sono riuscito a ottenere grazie al tennis». «Questi ragazzi […] avranno l’istruzione che mi è mancata. Mi sono sempre chiesto cosa sarei diventato senza tennis. […] Poter scrivere il proprio futuro da zero è un diritto, e un privilegio» • Grande successo per la sua autobiografia, Open (2009), scritta insieme al giornalista J. R. Moehringer, nelle quale parlò per la prima volta del suo odio per il tennis, del suo difficile rapporto col padre e dei suoi trascorsi con la droga. «Per me essere il numero uno non significava niente, capisce? Era come essere un qualsiasi altro numero, perché l’avevo conquistato odiando me stesso. Pensi a quante persone conosce che svolgono un lavoro che detestano: io ero così. E credo sia questa la ragione del successo del libro: la gente si identifica» (a Paola Jacobbi). «Scriverlo è stata una terapia che mi ha cambiato profondamente e mi ha connesso agli altri, soprattutto all’argomento che era il più ostico: me stesso» • Sposato in seconde nozze con l’ex tennista Stefanie Maria «Steffi» Graf (1969), due figli: Jaden Gil (2001) e Jaz Elle (2003). «Steffi e io siamo simili e complementari: come me ha dedizione assoluta, capacità di concentrazione, passione e velocità, e finalmente mi calma, mi dà stabilità e forza». «Io e mia moglie Steffi abbiamo pensato che ne avevamo avuto abbastanza, di tennis, infatti a casa nostra non c’è un campo del nostro sport, e i nostri ragazzi non sono diventati tennisti. […] Come genitori, cerchiamo di nutrire i loro interessi. Hanno scelto loro altre cose». «A distanza di tempo, ritrova qualcosa del padre nel suo rapporto con i ragazzi? “Assolutamente no”, dice tendendo i muscoli del viso per la prima volta. “Loro possono scegliere, io non ho mai potuto”. E aggiunge: “Ma sa cosa? Sono stato io l’unico educatore di me stesso, da quando ho compiuto 13 anni”» (Carlotta Magnanini) • «Agassi è ancora il Kid di Las Vegas? “So che molti pensano alla mia città come a quella del gioco e del peccato, ma Vegas non è solo un posto per turisti. È una città nata nel deserto, e non per caso: è un simbolo di innovazione, di sogni, di lavoro duro, di spirito. Ecco: Las Vegas ha uno spirito. Che è ancora in me”» (Marco Lombardo) • «Ogni atleta di fama ha un palco importante dal quale sostenere le proprie idee, e in America puoi dire quello che vuoi. Io non sento il bisogno di arringare nessuno: ho sempre preferito tenere le mie idee politiche all’interno dell’urna. Io penso che sia meglio fare delle cose piuttosto che parlarne» • Si definisce «per natura, sempre prevedibilmente infelice e tormentato» • «A incontrarlo dal vivo dà l’impressione di una forza sovrumana e di un’infinita fragilità: il suo corpo sembra fatto di carne e vetro, e ha gli occhi più vivi e tristi del mondo» (Giacomo Papi). «La testa perfettamente rotonda da charliebrown, le braccia glabre, lo sguardo dolcissimo», «le spalle curve e le gambe magrissime. […] Cammina gobbo, avanzando a passettini, le punte dei piedi verso l’interno per colpa della spondilolistesi (una vertebra ribelle come il suo padrone)» (Gaia Piccardi) • «Un tipo che mai è riuscito ad annoiare il Vecchio Scriba, spettatore professionista schizzinoso se ce n’è uno. Sempre geniale, Andre, in quei suoi colpi di controbalzo, addirittura con un’invenzione mai eguagliata, il cross corto di rovescio rallentato, un gesto dolcissimo, la palla appena sfiorata che va a nascondersi vicino al seggiolone dell’arbitro: imprendibile» (Clerici). «Veniva da Las Vegas, ecco perché la sua palla schizzava via come quella della roulette. Riflessi eccezionali, rovescio bimane, una risposta che ghigliottinava qualsiasi speranza. Uno Speedy Gonzales che non ti lasciava il tempo, rotazioni del polso pazzesche, traiettorie anomale, angoli assurdi» (Audisio). «Tra i primi “attaccanti”, senza nemmeno dover venire a rete. […] Usava la volée come fosse un buffetto solo per finire l’avversario. Il colpo vincente da fondocampo: il famoso dritto anomalo, entrato nella bibbia del tennis» (Landi) • «C’è un campione del passato con cui avrebbe voluto giocare? “Borg. Mi piaceva molto, sarei curioso di vedere come si muoveva sul campo, quanto era veloce”» (Semeraro) • Da un’intervista di Emanuela Audisio a Mike Agassi (1930-2021), realizzata per la Repubblica nel 2015: «“Sono stato un tiranno? Sì. Sono stato duro e severo? Sì. Ma lo ribadisco: meglio un padre, un genitore, a fianco del figlio sportivo, che un allenatore. […] Dietro il successo dei campioni c’è sempre un genitore. Ok, sarà per la loro ambizione, magari frustrata, come la mia, che da pugile per l’Iran ho partecipato a due Olimpiadi senza vincerle, ma intravedere un destino per i figli, invece di lasciarli in balia del niente, può essere male? […] Se sono un mostro, sono riuscito molto bene”. […] Potesse rifare il padre? “Sarei ancora un mostro. Non mi pento. […] Quando Andre ha lasciato il tennis ho pianto. Finiva anche una parte di me. […] Solo non farei più giocare a tennis i miei figli. È uno sport troppo duro, richiede molto, al fisico e al carattere. Sceglierei il golf. Si dura di più. E ho già in mente un’altra macchina sparapalline per il green, visto che i tornei si vincono lì”» • «Chi pensa di costruirsi il campione inganna se stesso e rovina i propri figli. È una balla: la costrizione è morte, la scelta è vita» (a Federico Ferrero) • «“Di quei giorni non mi mancano né l’adrenalina né i capelli. Rasarmi è una delle cose migliori che ho fatto in vita mia. Oggi mi batto per altri progetti: la fondazione, la scuola, i figli, il matrimonio. Ogni giorno è una sfida per essere un uomo migliore, senza i drammi del tennis. Molto meglio, no?”, sospira. I trofei sono nella palestra di Gil Reyes, storico preparatore, insostituibile figura paterna» (Piccardi). «Il mio successo più bello resta quando ho convinto Steffi a dirmi di sì, e il trofeo più bello è la collana di corda che mi ha fatto mio figlio quando aveva quattro anni. C’è scritto: “Babbo scatenato”».