13 giugno 2023
Im morte di Berlusconi. La morte
Simona Ravizza per il Corriere
Chi gli sta vicino fino all’ultimo sa che Silvio Berlusconi teme la morte, ma non l’aspetta. Il leader di Forza Italia e fondatore di Mediaset non pensa mai che può davvero essere finita: «Non era tra i suoi progetti». Gli infermieri che lo assistono 24 ore su 24 negli ultimi 21 giorni trascorsi a Villa San Martino ad Arcore, e poi dal 9 giugno ancora al San Raffaele, usano rispetto nel definirlo «ossessionato». Il pensiero sempre lì, alla riorganizzazione di FI. E la preoccupazione costante per il conflitto in Ucraina e una sua eventuale degenerazione in scontro nucleare. Anche nelle sue ultime ore, Berlusconi è quello che il medico di fiducia Alberto Zangrillo, in occasione di uno dei suoi innumerevoli ricoveri nel giugno 2016, definisce «un leone che non si può tenere in gabbia». Con il suo bisogno di essere un uomo del popolo. Di qui il lavoro, fino alla fine.
Da paziente l’ex premier è da sempre razionale: più volte – dall’intervento a cuore aperto del giugno 2016 dopo il malore causato da un’insufficienza aortica, fino alla battaglia contro il Covid nel settembre 2020 – ha la consapevolezza che la situazione può sfuggire di mano, allo stesso tempo s’affida ai medici con la volontà di farcela. Ed è così anche venerdì 9 giugno alle 15 quando ritorna al San Raffaele ad appena 21 giorni di distanza dall’ultimo ricovero, il più lungo, il più difficile, quello tra il 5 aprile e il 19 maggio. Di nuovo i suoi esami sono fuori controllo: globuli bianchi alle stelle, piastrine impazzite. Il corpo che non regge più. Ma lui non vuole mollare: continua a prendere appunti Silvio Berlusconi, li fa battere, poi li corregge. È il suo modo, forse, di esorcizzare la morte: di certo, il suo desiderio è di essere fino alla fine un uomo impegnato per l’Italia. Zangrillo avrebbe voluto mandarlo in pensione, a godersi ciò che ha costruito, già dopo l’intervento al cuore, che cadeva sette anni fa in questi stessi giorni, il 14 giugno. Non ce l’ha fatta allora a convincerlo e stavolta viene da pensare che il medico non ci abbia neppure provato.
Nel lungo fine settimana che si conclude con la morte dell’ex premier, alle 9.30 di ieri, la speranza è quella di un pit-stop ospedaliero: controlli medici tipici per chi soffre di leucemia già programmati, ma anticipati alla luce dei risultati degli esami del sangue. Poi la tac ai polmoni che, dopo la polmonite per cui l’ex premier aveva già rischiato di morire, adesso sono puliti; un esame anche al cervello per precauzione massima. L’insufficienza renale superata. Nonostante ciò il pit-stop si trasforma in un ricovero di cui, appare subito chiaro, non è possibile prevedere la durata.
La vita appesa a un filo. Ma, anche nelle ultime ore, lo sguardo gli si illumina ogni volta che guarda i suoi figli, con i quali condivide la passione per il calcio. Ancora sabato, il leader di FI vuole vedere la finale di Champions League tra l’Inter e il Manchester City. Non c’è più quella solitudine che tanto gli pesava durante il ricovero per il Covid di quasi due settimane, nel settembre 2020.
La sua condanna è la leucemia, diagnosticata per la prima volta agli inizi di dicembre 2021 e che, tranne una pausa per Natale, lo tiene in ospedale anche nel gennaio 2022, in concomitanza con le elezioni del presidente della Repubblica. Un ricovero in quel momento giustificato come solo un’infezione alle vie urinarie. Allora la malattia appare in forma cronica, quasi una patologia senile. Poi, gli episodi acuti, l’ultimo dei quali gli è fatale. Come già successo a due suoi fraterni amici: il presidente di banca Mediolanum Ennio Doris e l’avvocato Niccolò Ghedini.
I temi caldi
È rimasto concentrato
sulla riorganizzazione
del partito e sulle spine del conflitto in Ucraina
Il paradosso è che la sua morte in qualche modo se l’aspettano tutti, eppure sorprende tutti. Solo venerdì Zangrillo insieme con l’onco-ematologo Fabio Ciceri firma un bollettino per dire che la situazione non desta allarmi né criticità. Il tracollo è improvviso, nonostante la sua prevedibilità. La situazione clinica di Silvio Berlusconi precipita nella notte tra domenica e lunedì. L’auto di Zangrillo che varca alle 4 i cancelli del San Raffaele è il segnale più temuto. Già poco prima delle 6 si capisce che questa volta – al contrario di tutte le altre – l’ex premier può non farcela. Tanto che i figli fanno appena in tempo ad arrivare per salutarlo.
Difficile non pensare adesso a tutte le volte in cui il leader di Forza Italia vince la sfida con la morte. «È stata una prova molto dolorosa» (giugno 2016). «Grazie al cielo e alla professionalità dei medici ho superato quella che considero la prova più pericolosa della mia vita» (settembre 2020). «È stato un periodo angoscioso e difficile, ma dopo il buio ho vinto ancora. Non mi sono mai sentito solo e ho continuato a nutrire speranza e fiducia. L’incubo è finito» (maggio 2023). In una narrazione che, come ripetuto più volte, assume ormai una connotazione con richiami al miracoloso. «Silvio Berlusconi mi ha chiesto di farlo campare fino a 150 anni per mettere a posto l’Italia», rivela del resto un giorno in un’intervista don Luigi Verzé, fondatore dell’ospedale San Raffaele, quando il sacerdote condivide con Berlusconi il sogno di un ospedale dedicato alla Medicina predittiva. E, quando il 13 dicembre 2009 da premier viene colpito al volto con una statuetta souvenir in Piazza Duomo a Milano, si accascia, viene fatto sedere all’interno della sua vettura dalle guardie del corpo, ma poi torna un attimo fuori dall’auto per farsi vedere, per far capire che è vivo, prima di risalire sulla macchina ed essere trasportato in ospedale.
Non è mai stato facile per il fondatore di Mediaset darsi una misura nell’affrontare la malattia, anche a costo di apparire in pubblico con tutti i segni della fatica, come nei video trasmessi alla convention di FI il 6 maggio e quello con l’invito a votare per le elezioni amministrative del 14 e 15 maggio. E anche nei momenti più difficili non mancano le battute all’infermiera, il cenno di sorriso a chi gli fa la tac, l’impegno per tornare a camminare senza il deambulatore, gli esercizi di riabilitazione respiratoria. «Forza Presidente, ce l’abbiamo fatta tante volte...», si sentiva dire ancora ieri mattina.
Massimo Giannini per La StampaAlla fine, il Destino ha bussato anche alla sua porta. Non a Villa San Martino, che per quasi trent’anni è stata la quinta sontuosa dove lui stesso aveva trasferito e trasformato per sempre l’esecrato “teatrino della politica”. Ma al San Raffaele, il luogo di una sofferenza fisica che ha negato e fuggito sempre, in un’esistenza epica durata 86 anni che non contemplava la vulnerabilità e la fallibilità degli umani. Alla fine Berlusconi è morto lì, lontano dai suoi cani e dai suoi quadri, in quella lussuosa dependance ospedaliera che ha copiosamente finanziato e che l’ha curato e accudito ogni volta, per la tendinite o l’uveite, per il cancro o il Covid.
Fino all’ultima caduta, quella fatale. Silvio, l’Immortale, stavolta non ce l’ha fatta. Non arriverà «fino a 120 anni», come si diceva sicuro di fare grazie ai miracoli del guru Zangrillo.
E commuove rivederlo adesso, in quell’ultima drammatica immagine pubblica del 6 marzo, collegato con la convention azzurra dalla sua magione sanitaria, per salutare e rinnovare l’appello alla vigilia delle amministrative. Gonfio, provato, esitante, con la voce lenta e impastata: «È il vostro affetto e il vostro abbraccio che mi ha consentito di superare una brutta polmonite… Mi raccomando, andiamo avanti così, io sarò con voi, con la stessa passione e lo stesso impegno del 1994…». E invece non c’è riuscito. La malattia se l’è portato via. Con lui se ne va un gigante che, nel bene e nel male, ha fatto la Storia italiana dell’ultimo mezzo secolo. L’ha segnata e plasmata, rinnovata e deformata come nessun altro. Nel suo caso è pressoché impossibile scindere l’essere umano dal leader politico. Ma è uno sforzo doveroso, adesso.
Sul piano giornalistico, ho criticato e contestato il Cavaliere per più di quattro lustri. C’ero nel ’94, quando la “Repubblica” diretta da Eugenio Scalfari si schierò duramente contro la discesa in campo. C’ero nei vent’anni successivi, quando lo stesso giornale diretto da Ezio Mauro combatté, in nome dei principi della liberaldemocrazia, le leggi ad personam e il conflitto di interessi, il bavaglio ai media e l’attacco alla magistratura, fino alle famose “Dieci domande” di Giuseppe D’Avanzo. Fu uno scontro aspro, irriducibile. Per questo, dal 2015 in poi, mai avrei immaginato di poter ricevere due inviti dal Grande Avversario, a Palazzo Grazioli. Mai avrei pensato di poter trascorrere alcune ore insieme a lui, a scherzare e a ironizzare sul passato, pur mantenendo le rispettive opinioni. Mai avrei creduto di ascoltarlo, mentre mi mostrava due album pieni di fotografie che lo ritraevano insieme ai 100 capitribù libici: «Vede perché non riusciamo a rimettere a posto la Libia? Perché nessuno ha la pazienza di andare a parlare con ciascuno di questi signori!». Mai avrei sognato di ringraziarlo, dopo un’altra chiacchierata, mentre mi salutava con una pacca sulla spalla e con cinque scatole griffate Marinella: «Basta con queste cravattine da comunista che porta, si prenda un po’ di cravatte serie…». Erano larghissime, una dozzina di centimetri. Le ho fatte stringere, le metto ancora. Più simpatico e più empatico di lui, nessuno mai. Più seducente e più voglioso di piacere, piacendosi, nessuno mai.
Ma qui finisce l’umanità, e comincia la politica. E il giudizio cambia, come ho già scritto. Intanto, è inutile scervellarsi su cosa sarà di Forza Italia, su “chi dopo di lui”. Tajani o Ronzulli? Non vi sforzate di immaginare il dopo Berlusconi: come D’Annunzio, ma più triviale e teatrale del Vate, il Cavaliere ha vissuto una “vita inimitabile”. Dunque non replicabile. Si rassegnino figli e famigli, senatori e coordinatori, deputate e fidanzate, badanti e cantanti: al di là dei patrimoni miliardari e dei conti fiduciari, delle ville ottocentesche e delle residenze picaresche, non c’è un’altra eredità da spartire. Il suo finale di partita coincide inevitabilmente con la fine del suo partito.
Berlusconi è esistito anche senza Forza Italia: prima della politica c’erano già sia il costruttore seriale che ha sfornato Milano Due sia il tycoon televisivo che ha stravolto i nostri usi culturali e i nostri consumi commerciali. Ma Forza Italia non sarebbe mai esistita senza Berlusconi. Questo destino inscindibile è l’essenza stessa del “partito personale” che lui ha fondato e plasmato a sua immagine e somiglianza (e nel quale si sono beatamente rispecchiati corrivi cantori e cattivi imitatori, in Italia e nel mondo). Ed è l’effetto naturale e non collaterale dei tre lasciti che il Cavaliere consegna alla Storia italiana.
Il primo lascito è il leaderismo. Cioè la sacralità del comando e la natura octroyée del suo esercizio, dove ogni atto non è negoziato ma concesso dal sovrano al suddito. L’Unto del Signore, auto-investito di un mandato messianico e sempre titanico, è “sceso in campo” con una missione epocale: salvare l’Italia dai comunisti (benché rimanga in eterno il sospetto che l’abbia fatto per salvare se stesso dai processi). Per questo ha inventato dal nulla il “partito di plastica”, trasformando la rete della raccolta Publitalia nella tela del consenso azzurro, e in pochi anni lo ha trasformato nel “partito di Silvio”. Col suo carisma e col suo strapotere, tutto ha deciso e tutto amministrato. Con la sua spregiudicata destrezza e la sua smisurata ricchezza, ha applicato alla politica la regola che Enrico Cuccia adattava alla finanza: «ogni uomo ha un prezzo» (lui di suo ci ha aggiunto anche «ogni donna», come denunciò in una lettera leggendaria la ex consorte Veronica Lario). Nel Palazzo, come al Mercato, tutto si può comprare e vendere: leggi e sentenze, elettori ed eletti, concessioni e condoni.
Per quasi trent’anni Forza Italia ha avuto solo la sua faccia, accompagnata in traluce dal ghigno urticante di Dell’Utri e dal sorriso emolliente di Gianni Letta. Lui ha creato e distrutto candidature parlamentari e carriere ministeriali, tra igieniste dentali alla Minetti e opinionisti devoti alla Ferrara. Lui ha intronato finti delfini e infiocinato poveri tonni, da Alfano a Toti, da Formigoni a Bertolaso. E per quasi trent’anni la destra italiana ha conosciuto solo la sua volontà di potenza. Lui ha scelto e sfasciato alleati, da Fini a Casini, da Follini a Salvini. Lui ha legittimato il leghismo secessionista e sdoganato il post-fascismo governista. Lui ha voluto svolte e contro-svolte, inventando Case delle Libertà e predellini di piazza. Lui, da Via del Plebiscito, ha accarezzato e sfiorato il vero plebiscito, dissipandolo poi negli anni tra malgoverno e condanne penali, “cene eleganti” e Bunga Bunga, compleanni a Casoria e nipoti di Mubarak, vulcani a Villa Certosa e dacie sul Mar Nero. E ancora lui, Caimano ormai in cattività, ha dato l’ultimo colpo di coda alle elezioni del 25 settembre, garantendo a Forza Italia un insperato 8 per cento da portare in dote alla trionfante Giorgia Meloni.
Il secondo lascito è il populismo. Tra le macerie di Tangentopoli, tra le rovine del consociativismo della Prima Repubblica, Berlusconi ha completato l’opera, a modo suo. Ha fatto politica in nome dell’anti-politica. La falsa mistica dell’Uomo Nuovo ha fatto piazza pulita della Vecchia Nomenklatura (pur essendone emanazione diretta). E ha fatto breccia nel cuore della gente stanca dei sepolcri imbiancati e corrotti. Forte del suo carisma e delle sue televisioni, Silvio ha parlato direttamente al popolo, e ha tratto la sua piena legittimazione attraverso l’investitura popolare, riscossa a colpi di promesse mirabolanti («un milione di posti di lavoro» «meno tasse per tutti»). È questo, il bagno di folla, il voto di massa per lui, il suo nome sulla scheda, il lavacro che mondava i reati e i peccati. È in nome di questa consacrazione dal basso che poteva dire alle toghe rosse «voi siete il cancro dell’Italia, le vostre sentenze non contano niente perché il popolo è con me». Il populismo berlusconiano è stato un modello planetario. Ha generato figli e figliastri, in Italia e fuori. Da Trump a Grillo: in qualche modo, è tutta farina del suo sacco.
Il terzo lascito, in questo caso positivo, è il bipolarismo. La contrapposizione tra gli schieramenti, la radicalizzazione tra i due poli: anche questo ha avuto origine da lui e con lui. “Noi” e “loro”, i “santi della libertà” contro i “nostalgici dello stalinismo”. Nel modo più ideologico, spesso corrivo e bugiardo, il Cavaliere Nero ha evocato il Nemico Rosso, e il Paese è tornato alla lotta – spesso nel fango, purtroppo – tra la Destra e la Sinistra. Con buona pace per i centri e i centrini, risucchiati e polverizzati dentro la contesa bipolare che tutto divide ma tutto semplifica. Qualcuno sostiene che il vero male del Paese sia stato l’Anti-berlusconismo. Non lo credo. Al di là degli opposti estremismi, non so cosa sarebbe successo se le istituzioni, supportate dai media e da un bel pezzo di società civile, non avessero retto alle spallate del Cav. Non so dove saremmo arrivati, se nel 2005 gli italiani non avessero bocciato al referendum la sua riforma costituzionale, che impastava pieni-poteri al presidente del Consiglio e ultra-poteri alle regioni.
In ogni caso, con un vissuto politico del genere, l’Uomo di Arcore non poteva avere niente da lasciare a nessuno. Apres moi le deluge è il principio eroico che per lui vale più che per tanti potenti nutriti solo dal proprio Ego ipertrofico (e proprio «Egoarca», infatti, lo ribattezzò a suo tempo Franco Cordero). Per quanto bravi, solerti o servili siano stati congiunti, collaboratori e cortigiani, gli è sempre mancato quel benedetto quid. Con tutto il rispetto, la figlia Marina e la fida Fascina gestiscono una transizione apparente, che non porta a nessuna rifondazione, a nessuna rinascita, a nessun nuovo inizio. Certo, ci sono aziende da preservare, un discreto gruzzolo di consensi da gestire, una buona manciata di scranni parlamentari da spartire. Ma al dunque dice bene Pierferdinando Casini, che da astuto democristiano per quelle forche caudine ci è passato ed è sopravvissuto: la vera e unica erede di Berlusconi si chiama Meloni.
La destra italiana, la destra “reale”, se l’è presa lei. È la Sorella d’Italia che sta svuotando Forza Italia. Anche perché, con l’addio al Cavaliere, tramonta una volta per tutte anche il miraggio della grande “Rivoluzione Liberale”. In nome di questa promessa ha vinto nel ’94, rivinto nel 2001 e stravinto nel 2008. E mai promessa politica fu più tradita con pensieri, parole, opere e omissioni. Nel Ventennio del “berlusconismo da combattimento”, non un solo atto di governo è stato ispirato da quell’ideale, che per altro in Italia non ha mai trovato né demiurghi né adepti. È il colossale equivoco intorno al Cavaliere di questi ultimi anni: nel suo autunno da Patriarca, è apparso a tratti così grave e compunto da sembrare Churchill o De Gaulle. Ma solo perché al suo fianco c’erano la Giorgia mujer y madre di Vox e il Matteo ebbro e furioso del Papeete. Silvio non è mai stato “un autentico liberale”, semmai un convinto libertino. E non è mai stato nemmeno “un vero moderato”, ammesso che questa sia davvero una categoria politica. Tanto è vero che dalla diaspora forzista già in corso difficilmente nascerà un Grande Centro. Con buona pace di Calenda e di Renzi, il Royal Baby che nonostante il patto del Nazareno ha fallito l’Opa sul partito-azienda del suo generoso mentore.
Berlusconi è stato tutto e il contrario di tutto. Presidente Imprenditore e Presidente Operaio, élite e anti-establishment, gas russo e editto bulgaro, premierato forte e devolution, Pratica di Mare e Onna. Un impasto di scintillante modernità e di irridente opportunismo. Un irresistibile e incorreggibile Arcitaliano, col sole in tasca e il coltello tra i denti. Così ha conquistato milioni di italiani, rispecchiandone le virtù (poche) e i vizi (tanti). Per questo Forza Italia è stato davvero l’unico “partito della Nazione” della Seconda Repubblica. Per questo finiscono insieme, ora che il vecchio Caimano ha smesso di combattere. E per questo, proprio come il fascismo al tempo di Piero Gobetti, anche il Berlusconismo è stato davvero un’altra “autobiografia della Nazione”. —
Ezio Mauro per RepubblicaAveva cercato l’immortalità in ogni gesto della vita e soprattutto nel culto di se stesso, come se il mito del sovrano potesse generarla e l’esercizio del comando fosse in grado di garantirla. E invece anche Silvio Berlusconi ha dovuto arrendersi ieri mattina, concludendo la sua vita spettacolare in ospedale, fuori dall’unico vero teatro che aveva scelto per la rappresentazione della sua esistenza, quella villa di Arcore che era diventata da vent’anni il fondale della politica italiana, il castello della sua diversità, lo scenario eccentrico di un’anomalia trasformata in leadership. Così oggi resta l’incompiuta di un accumulo senza precedenti di un potere plurimo – economico, finanziario, mediatico, e infine soprattutto politico – che non viene portato al suo destino, ma rimane sospeso, perchè era talmente intrinseco alla sua figura da non essere trasmissibile. Come se il primato del Cavaliere coincidesse con la sua condanna: ha costruito tutto a sua immaginee somiglianza, ad eccezione del successore, disconoscendo i pretendenti ogni volta che si affacciavano alla scena, e imprigionando il futuro dentro il doppiopetto presidenziale, tagliato e cucito soltanto sulla sua figura. Il fondatore non concepiva una ri-fondazione, la sua creazione politica (che sublima e garantisce le avventure precedenti) finisce con lui, perchè era stata concepita fin dall’inizio in esclusiva per un unico interprete, che le ha fornito l’anima ideologica e il corpo fisico, trasfigurandolo in simbolo.
Questo spiega la singolarità irriproducibile del berlusconismo. Fin dalla costruzione dell’immagine di sè come quella di un self made man, un uomo del fare che nasce nel campo autonomo del business: mentre in realtà era un figlio prediletto del sistema già nell’esperienza immobiliare, ancorpiù in quella televisiva benedetta, legalizzata e garantita da Craxi, per finire con la discesa in campo politica, quando decise di giocare in proprio, ma si presentò come il principe ereditario del perimetro e dei voti del Caf, l’alleanza moderata della Prima Repubblica morente intorno ai nomi di Craxi, Andreotti e Forlani. In tutte e tre queste sue vite, tuttavia, Berlusconi ha portato qualcosa di originale e personalissimo: un istinto da outsider che conviveva con le servitù politiche e con le coperture oscure (lo “stalliere” Mangano legato alla mafia e arruolato da Dell’Utri ad Arcore, la tessera P2 numero 625 fin dal 1978), garantendogli una presa nel favore popolare, dov’era percepito insieme come uomo d’ordine e sfidante dell’establishment tradizionale.
In questo si può dire che abbia anticipato l’ondata mondiale del populismo e l’incarnazione della moderna destra egolatrica e disposta a tutto di Donald Trump: nell’insofferenza per l’élite, nella mancanza di soggezione per la cultura ufficiale, nell’infrazione permanente della regola, nello sfondamento del politicamente corretto. Tutti elementi fondamentali del trumpismo, compreso il finale da Caimano. Tutto però già visto ad Arcore, sperimentato in anticipo nel laboratorio senza pace del berlusconismo, che applicava lo schema della ri-creazione televisiva alla politica, realizzando ogni volta l’inconsueto. E confermando l’anomalia permanente del Cavaliere, scandalo per i suoi oppositori, garanzia di non omologazione per i suoi seguaci.
Come definire quell’istinto? Nel mondo del business, è una natura da rider, con l’uncino del predatore sorridente ma senza pietà, e col mistero mai svelato delle origini di quella fortuna. Nel mondo dellapolitica, è un modello reaganiano, una vocazione naturale di destra, paternalistica ma feroce, padronale anche se con la maschera del sorriso. Con l’obiettivo opposto a quello della Democrazia Cristiana, che drenava gli interessi di destra del Paese rivolgendoli al centro, mentre il Cavaliere intercettava le abitudini centriste e moderate della medietà italiana e le convertiva a destra, radicalizzandole. Spregiudicato rispetto alla tradizione, incurante della storia, quando gli è servito incassare i voti post- fascisti di Fini lo ha fatto, scongelandoli dal freezer esterno all’arco costituzionale: senza mai chiedere in cambio una revisione ideologica e una rottura con la stagione missina e l’eredità di Almirante. Da uomo nuovo, saltava i passaggi e ignorava i rituali politici e istituzionali. Semplicemente, prendeva quel che gli serviva, con la disinvoltura senza scrupoli di acrobazie che provocavano contemporaneamente una lesione e un’innovazione nel sistema: e lui era pronto ad approfittare di entrambe. Quando ha avuto bisogno di unire il nazionalismo di Alleanza Nazionale allo pseudo-separatismo nordista della Lega, ci è riuscito. Quando ha puntato sulla riedizione dell’anticomunismo classico, fuori stagione, il Paese ha dovuto prendere atto che quella predicazione raccoglieva ancora fedeli, anche se era già caduto il Muro. Quando ha provato a risorgere dalle sconfitte politiche e dall’esclusione dal parlamento, nemmeno i suoi seguaci pensavano che ci sarebbe riuscito, ma come lui ricordava ai miscredenti, «alla prova dei fatti hanno trovato il sepolcro vuoto».
L’uomo che da suddito privilegiato della politica moderata ha voluto farsi re della destra radicale, nascondeva due punti deboli.Aveva deciso di conquistare il governo spinto dai debiti delle sue aziende, e quel conflitto d’interessi lo ha sovrastato per tutta la sua lunga e travagliata esperienza nel Palazzo, rendendolo schiavo di se stesso, e riducendo di conseguenza a forza gregaria e succube Forza Italia, senza mai quella scintilla di autonomia che avrebbe forse generato un’ipotesi di legittima sopravvivenza al fondatore. E soprattutto, mentre Berlusconi era un formidabile campaigner (salvo quando ha dovuto battersi con Prodi) si rivelava un pessimo uomo di governo. Tutti i colpi di teatro, gli annunci televisivi a sorpresa poche ore prima del voto, la propaganda supina delle sue televisioni non sono riusciti a nascondere la verità di una rivoluzione liberale finita nel vuoto, con una classe dirigente certamente nuova ma sicuramente mediocre, più adatta ad una corte di palazzo che alla governance di una democrazia.
Il risultato è stato il primo vero esperimento populista al governo nelle moderne società occidentali, con un patto implicito tra il leader arci-italiano e il suo popolo: lo Stato vi lascia liberi di regolarvi come volete nei vostri interessi, in cambio di una vibrazione di consenso permanente per il leader e di un voto periodico e costante che assicuri la continuità del comando, sostituito al governo. Il tutto con la retorica dell’”unzione del Signore” che saldava il principe e il suo popolo in un’alleanza refrattaria ad ogni controllo: di legittimità da parte della Consulta, di legalità da parte della magistratura, politico da parte del parlamento, sociale da parte della libera informazione.
Davanti alle difficoltà il potere si sfogava nella dismisura, nell’ostentazione dell’eccesso, come se al Cavaliere non bastasse il potere legittimo che si era conquistato, ma volesse impadronirsi costantemente anche di una quota supplementare di potere anomalo, perchè illegittimo. Anche la distruzione del confine tra il privato e il pubblico, che portava Berlusconi a maneggiare per la sua comunicazione più “Chi” della Gazzetta ufficiale, ha finito per imprigionarlo nell’incoscienza del limite, fino alla denuncia della moglie Veronica Lario a “Repubblica” sul mercato di cariche pubbliche in cambio di favori di giovani donne: “ciarpame politico”. Quindi il precipizio dei processi, la lotta furibonda con la magistratura, e il potere esecutivo che usava il legislativo per imbrigliare il giudiziario, con tanti saluti a Montesquieu.
Tutto questo si sfarina e si disperde con lo smarrimento del potere, rivelando l’ultima tragica verità: il berlusconismo è una pratica, ma non è una cultura, capace di sopravvivere alla contingenza. Un’avventura che tuttavia ha segnato il ventennio e ha terremotato la politica sdoganando l’alternanza, creando non soltanto un campo di destra, come comunemente si dice, ma anche un campo opposto, quel rassemblement che univa tutti gli antagonisti ad una pratica politica legittima, ma disinvolta e fuori dalla regola europea e dal canone occidentale. Un’anomalia tanto grande che nelle leggi ad personam il Cavaliere sembrava dire al Paese: non puoi venirne a capo perché è irrisolvibile, dunque introiettala. Ne uscirai sfigurato ma pacificato, e tutto troverà infine una sua nuova, deforme coerenza.
Quel pericolo è diventato programma di governo, ma è stato infine evitato, anche se in questa pratica suicida Forza Italia si è giocata il futuro. Ma il presente, con l’esorcismo che lo scambiava con l’eternità, era il vero tempo in cui voleva vivere costantemente il Cavaliere, ritornando ogni volta al punto da cui tutto era incominciato: se stesso. Tanto che l’unica ipotesi autentica di successione è stata quella impossibile della figlia Marina, per trasmettere anche in politica l’eredità del sortilegio. Un’ipotesi dinastica che avrebbe consegnato integrale il conflitto d’interessi con la fortuna e il dna familiare, perpetuando l’anomalia nella contemplazione perpetua del peccato originale.
Qualcosa di faustiano e di pagano, nella ricerca idolatrica di quell’immortalità impossibile che ieri si è arresa davanti all’ultima lotta di Silvio Berlusconi: ritornato uomo dopo le sue reincarnazioni nel potere, l’invenzione della neodestra e l’ambizione metapolitica di costruire nella realtà quotidiana il palinsesto reale della vita degli italiani, in quegli anni stupefacenti e travagliati a cavallo tra i due secoli.
Marco Imarisio per il corriere
L’unica cosa che non è riuscito a fare durante i suoi 86 anni di vita esagerata, è stata l’ultima. «Questa è la mia casa» ripeteva ai dirigenti Fininvest ai quali mostrava le meraviglie della villa di Arcore. «È qui che voglio andarmene quando arriverà il momento, è qui che voglio essere seppellito con i miei amici e la mia famiglia». Silvio Berlusconi invece è morto alle 9.30 di ieri mattina nella sua stanza al primo piano dell’Ospedale San Raffaele. Tutti sapevano che era appeso a un filo, perché la diagnosi era infausta per una persona di quell’età, e tutti sapevano che presto sarebbe arrivato il tempo in cui fare i conti con una figura così grande, così importante per questo Paese, un compito che infine sarà riservato più ai libri di storia che alla cronaca del presente.
La notizia della scomparsa dell’uomo che fu imprenditore di successo, inventore della televisione privata, presidente più vincente del calcio italiano e non solo di quello, il fondatore di Forza Italia nonché il presidente del Consiglio che più a lungo ha guidato il Paese durante la Seconda repubblica, è in ogni caso arrivata inattesa. Anche perché lui ci aveva abituati bene, con continue risurrezioni, non solo in senso clinico. L’Italia che si è fermata di colpo, non era preparata a dire addio all’uomo che da oltre quarant’anni ha colonizzato il nostro immaginario collettivo, diventandone estasi e ossessione a seconda del giudizio di ognuno. Mai indifferente, mai. La verità è questa. Così tutti ricorderemo dove eravamo e cosa stavamo facendo quando abbiamo saputo, e sono cose che si possono dire di pochi istanti della vita repubblicana.
Il crolloMa morire, morire davvero, è un attimo e basta. Per tutti. Quando succede, non si è mai pronti. La situazione precipita sul finire della notte scorsa. Le sue condizioni si aggravano di colpo. Fino all’ultimo Berlusconi si è sottoposto alla chemioterapia, ha trascorso la penultima notte della sua vita guardando la finale di Champions League. Sperava di farcela anche questa volta, anche se i collaboratori più stretti rivelano ora come fosse sempre più consapevole del fatto che il suo tempo stava per finire. Il giorno prima dell’ultimo ricovero, aveva fatto un giro in auto per i viali di Milano 2, dove tutto è cominciato, e forse in qualche modo, era una specie di congedo. Ci sperava anche la sua famiglia, naturalmente. Marina e Pier Silvio sono alle prese con una riunione di lavoro quando ricevono la telefonata che li invita a precipitarsi al San Raffaele. Il comunicato ufficiale ci mette un’ora a uscire, perché non era pronto. Davanti alla sua stanza, Marta Fascina si dispera, non ci crede che sia potuto davvero succedere.
Alle 9.30 arriva suo fratello Paolo, che entra a bordo della sua auto da un passaggio riservato. Pochi minuti dopo, la primogenita Marina, su una macchina dai vetri oscurati, poi Eleonora, poi Barbara, seguite pochi minuti dopo da Pier Silvio. Un’ora dopo, mentre si rincorrono le voci, la notizia della scomparsa diventa ufficiale. Silvio Berlusconi è morto. E diventa subito chiaro che ci sarà un prima e un dopo. È una giornata come tante, i siti delle principali testate nazionali aprono sulla controffensiva ucraina che avanza, la direzione del Pd, l’economia. Scompare tutto, subito. Se i social sono davvero specchio della società, come qualcuno crede, l’effetto fa impressione. Ogni rumore di fondo tace.
Tra la genteSulla linea rossa della metropolitana, solo per fare un esempio tra i tanti, si sale a Lotto che è la solita Italia e si scende dopo cinque minuti che è un’Italia senza più «il Silvio», come lo chiamano le persone che si fermano sulla piazzola a compulsare i telefonini, e come a lui non dispiaceva essere chiamato, con quell’articolo che fa tanto Milano, la sua città, che amava tanto. «Comunque la si pensi su di lui, è stato un gigante» afferma un signore in giacca e cravatta che spiega di avere 45 anni, e di non avere mai votato in vita sua a un’elezione dove non ci fosse Berlusconi o la sua creatura politica. «Dite quello che volete voi giornalisti, ma ha avuto una vita incredibile, ha cambiato questo Paese e ha combattuto come un leone», commenta una ragazza che ha sulle spalle lo zaino dell’Inter che racconta di essere appena rientrata da Istanbul e di non avere mai votato per lui. Ogni commento è intriso di una emotività collettiva che può essere ignorata solo dagli odiatori di professione. Davanti ai cancelli della villa di Arcore si raduna una folla muta, come ai vecchi tempi, quando c’era Silvio. Quando arriva il feretro, parte un applauso composto. Poi, di nuovo silenzio. La camera ardente sarà privata, forse la giusta conclusione del cammino di un uomo che ha vissuto la sua intera vita in pubblico. Sulla torre Mediaset di Cologno Monzese appaiono due messaggi. «Ciao papà» e «Grazie Silvio».
Le reazioniIn ordine cronologico, ma possiamo sbagliare, tale è la mole di commenti che riempie i media fin da subito, la prima reazione del mondo politico nostrano è quella di Matteo Renzi, un avversario. «Il suo impatto sulla vita politica ma anche economica, sportiva, televisiva è stato senza precedenti» scrive su Twitter il capo di Italia Viva. Giorgia Meloni annulla ogni impegno fino a dopo i funerali, che si terranno domani nel Duomo di Milano, dichiara una giornata di lutto nazionale e registra subito un video alquanto spontaneo. «Con lui l’Italia ha imparato che non doveva mai farsi imporre dei limiti, ha imparato che non doveva mai darsi per vinta. Con lui noi abbiamo combattuto, vinto, perso, molte battaglie e anche per lui porteremo a casa gli obiettivi che insieme ci eravamo dati. A Dio, Silvio». Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella affida il suo pensiero a una nota che si apre con la sua profonda tristezza. «È stato un grande leader politico che ha segnato la storia della nostra Repubblica, incidendo su paradigmi, usi e linguaggi».
L’onda emotivaLa morte di un personaggio così larger than life, come scrivono i media internazionali, che poi significa straordinario, fuori dal comune, è una questione che non riguarda solo noi. Nel suo telegramma inviato alla famiglia, Papa Francesco, lo ricorda come «un protagonista della vita politica italiana, che ha ricoperto pubbliche responsabilità con tempra energica». Arrivano messaggi dai leader di tutto il mondo, fa discutere quello di Putin, che solleva l’ira del governo ucraino, arrivano dichiarazioni di protagonisti dello sport, dello spettacolo, della cultura, di vecchi amici e di vecchi nemici, persino quello della procura di Milano. Basterebbe quest’onda emotiva per capire come quella di ieri è stata una giornata particolare per l’intero Paese. Nel bene o nel male, comunque la si pensi, nessuno mai come Silvio Berlusconi.
Alessandra Corica e Zita Dazzi per Rep
MILANO – Una beatificazione a partiti e reti unificate, non solo quelle Mediaset.
E il lutto nazionale, con un solenne funerale di Stato che domani sarà celebrato nel Duomo di Milano, privilegio riservato alle figure pubbliche di massimo rilievo istituzionale. La morte di Silvio Berlusconi, malato di leucemia mielomonocitica cronica, ieri mattina alle 9.30 all’ospedale San Raffaele di Milano, spazza via – salvo rare eccezioni – qualsiasi accenno critico nel racconto pubblico; al rispetto per l’uomo e per i suoi familiari si sovrappone una memoria selettiva che evita di ricordare lati oscuri dell’imprenditore che si fece politico – dall’iscrizione alla P2 alla condanna per frode fiscale sui diritti Mediaset, fino alle cene “eleganti” di Arcore – ne esalta invece solo le virtù.
Accade sulle retiMediaset, appunto, e qui nessuno stupore. Ma accade, ad esempio, anche sul Tg1 delle 13.30: apertura con l’ex premier che recita il celebre “L’Italia è il Paese che amo”, titolone “Addio Silvio” e poi via per l’intero telegiornale con servizi affettuosissimi, tra cui fanno capolino due minuti che ricordano le non poche disavventure giudiziarie di Berlusconi. La Bbc,tanto per fare un esempio, annuncia la scomparsa del leader e aggiunge subito che «superò diversi scandali».
Anche la politica vede sbiadire le distinzioni di fronte a una memoria. Così selettiva. Se la premier Giorgia Meloni lo ricorda come «il più esperto, confrontarsi con lui era un conforto» e il leader della Lega Matteo Salvini punta sul rapporto personale: «L’Italia perde un grande uomo e io perdo un caro amico», anche tutti coloro che in teoria negli anni lo hanno avversato, ne ricordano solo le luci. Con buona pace di un pezzo di Paese che ne aveva e ne ha presenti le ombre. Ecco allora Giuseppe Conte, leader di quel Movimento Cinque stelle che aveva raccolto i “vaffa” di piazza proprio nei confronti del Cavaliere, salvo poi farselo alleato di governo, che oggi ne loda «il coraggio, la passione, la tenacia... un imprenditore e un politico che in ogni campo in cui si è cimentato ha contribuito a scrivere pagine significative della nostra storia». Matteo Renzi e Carlo Calenda già guardano ai voti di Forza Italia. «Oggi prevale il sentimento di rispetto e ammirazione – dice il leader di Italia Viva —. Anche chi non lo ama oggi deve riconoscergli che era un fuoriclasse assoluto». Gli fa eco sui social il fondatore di Azione: «Ha lottato fino alla fine contro la malattia con un coraggio incredibile. Riposi in pace». La segretaria dem Elly Schlein gli tributa «il grande rispetto che si deve a un protagonista della storia e della vita politica del Paese». Sui social tracima però l’indignazione di molti cittadini. «Lutto nazionale e funerali di Stato per un massone condannato in via definitiva e interdetto dai pubblici uffici, in effetti, è la fotografia perfetta sia dell’esecutivo in carica che dei 30 anni appena trascorsi», commenta un utente su Twitter. E fra i tanti commenti c’è chi cita le esequie solenni come «uno schiaffo a Falcone e Borsellino».
«Berlusconi è stato un grande leader politico che ha segnato la storia della nostra Repubblica, incidendo su paradigmi, usi e linguaggi», scrive in una nota, appena appreso della scomparsa, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E papa Francesco parla di «un protagonista della vita politica italiana che ha ricoperto pubbliche responsabilità con tempra energica».
Ora il funerale. Ieri la salma di Berlusconi viene subito portata ad Arcore, nella “sua” Villa San Martino. Il sindaco di Milano Beppe Sala offre la camera ardente in Comune, ma l’offerta è declinata. Circola l’ipotesi suggestiva di aprire la sede diMediaset, a Cologno Monzese, per l’ultimo omaggio. Ma niente. Per «motivi di ordine pubblico» non si fa. La camera ardente sarà per pochi intimi a Villa San Martino. Il bagno di folla è rimandato a domani, ore 15, con i funerali di Stato celebrati in Duomo – anche qui ingressi blindati – e la piazza pronta invece ad accoglierele moltitudini che ci si aspetta, con tanto di maxischermi. A celebrare il rito delle esequie monsignor Mario Delpini, l’arcivescovo di Milano, al suo primo funerale di Stato: un evento che sicuramente lo metterà alla prova, anche perché non ha mai conosciuto – come ha fatto sapere ieri – l’uomo politico. L’omelia, spiegano i suoi collaboratori, sarà «molto spirituale». Dentro il Duomo solo le telecamere diMediaset, che diffonderà il segnale a tutte le altre emittenti, compresa laRai,che trasmetterà l’evento in diretta. Ieri hanno chiamato la Curia, tra gli altri,Bbc e
Cnn per chiedere di poter entrare. Niente da fare, anche per loro il segnalediMediaset.