Corriere della Sera, 13 giugno 2023
Im morte di Berlusconi. Politica
STEFANO FOLLI PER REP
Silvio Berlusconi e la politica s’incontrano per la prima volta in un giorno d’autunno a Casalecchio di Reno, un piccolo comune dell’Appennino. A Roma si sta preparando il ballottaggio per eleggere il sindaco e i protagonisti sono due: Francesco Rutelli e, a sorpresa, il giovane segretario del Movimento sociale, Gianfranco Fini. «Se fossi romano, voterei Fini», afferma Berlusconi con una breve frase destinata a cambiare nel profondo lo scenario italiano.
Crollava in quel momento il muro che a destra escludeva l’allora partito neofascista, non solo dal governo, ma anche dal circuito culturale e mediatico che definiva gli “impresentabili” della politica. Si chiamava “arco costituzionale” e aveva conosciuto solo un’eccezione significativa: il governo Tambroni del 1960, non a caso un’esperienza drammatica ed effimera nella storia repubblicana.
Con quella semplice frase Berlusconi manda in briciole molto più che un argine. Dopo anni di astuta navigazione tra la Dc in declino e il Psi di Craxi, egli pone la prima pietra del nuovo centro-destra che nel 1994 farà perno su Forza Italia, il partito aziendal-padronale in procinto d’essere fondato sfruttando la rete della Fininvest, e si allargherà a un incrocio di alleanze: il Msi, come si è detto, nel centro-sud, la Lega di Umberto Bossi al nord, più i democristiani moderati di Buttiglione e Casini.
È un sapiente gioco a incastro reso possibile dal peso economico del suo architetto, dal possesso di un imponente “network” televisivo, nonché, è evidente, da una personalità spregiudicata e carismatica. Berlusconi non ha messo in atto una fusione fredda; al contrario, ha colto uno stato d’animo reale che ribolliva nel Paese, via via che la marea di Tangentopoli travolgeva quel che restava della Prima Repubblica. L’invenzione di Berlusconi offre una zattera di salvataggio all’Italia che per decenni si era affidata alla Dc e alle forze socialiste e laiche riunite in tempi recenti sotto l’ombrello del pentapartito.
Dietro le insegne del nuovo centro- destra si ritrova in quel fatidico ’94 una quota maggioritaria del Paese, quella che s’identifica con la società più produttiva, quindi soprattutto il nord di Lombardia e Veneto, capace di sconfiggere senza troppe difficoltà l’opzione di sinistra guidata da Occhetto. Gioca il timore del salto nel buio, il richiamo al 18 aprile 1948 evocato da Berlusconi con abilità, insieme allo sconcerto per il dilagare dell’offensiva giudiziaria che diffonde l’idea di un obiettivo politico nascosto tra le pieghe delle inchieste e degli arresti. Ma tutto questo forse non sarebbe bastato.
Nell’operazione di Berlusconi c’è dell’altro. Senza dubbio l’adesione all’alleanza occidentale e il rapporto con gli Stati Uniti. E soprattutto l’essere riuscito ad allargare il patto politico interno verso due forze antitetiche tra loro sul piano politico e persino territoriale, come la Lega e il Msi.
Il successo, benché di corto respiro, di quell’intesa asimmetrica segna un passaggio di sistema. Non nasce allora la Seconda Repubblica – che in effetti rimarrà sempre ind istinta e incompiuta – però si esaurisce la Prima. Si apre la strada a un bipolarismo imperfetto (condizionato da leggi elettorali inadeguate) di cui l’imprenditore delle televisioni sarà a buon titolo il padre, pur fra l’iniziale incredulità e lo scetticismo degli avversari e anche di molti amici. La sostanza del “berlusconismo”, attitudine e costume politico che segnerà fra alterne fortune più di vent’anni della vicenda nazionale, è racchiusa in quell’intuizione originaria. Con un elemento in più che avrebbe potuto cambiare la storia del centro-destra e invece ne segnalò tutte le contraddizioni, fino a provocarne il sostanziale fallimento rispetto alle ambizioni iniziali. Il fondatore di Forza Italia volle sottolineare la volontà di innescare una “rivoluzione liberale”. Il richiamo, sia pure solo retorico, a Piero Gobetti sembrava abbastanza improprio sulla bocca di un monopolista, o meglio, duopolista della televisione. La concezione “liberale” per lui si rivelerà sempre funzionale a precisi interessi commerciali e aziendali, più che a un bene generale. Prova ne sia che il richiamo generico alla “rivoluzione liberale” si ripeterà come un mantra negli anni successivi: sempre uguale nella formula, compresa l’enfasi, sempre come se fossimo eternamente al primo giorno del “berlusconismo”.
Tuttavia anche in questo caso la novità contribuì a creare un’aspettativa, facendo lievitare Forza Italia come grande prodotto di “marketing”, in grado di proiettare una tradizione politica nella società del presente, per sua natura carente di memoria storica. Berlusconi convinse gli italiani che il suo sogno era realizzare «un partito liberale di massa», il che è quasi un controsenso, ma all’epoca sembrò un’ottima idea. Solo che rimase più o meno allo stadio della velleità. Gli intellettuali che ebbero un ruolo nella Forza Italia del 1994 erano numerosi e convinti di imprimere al centro-destra, o almeno al partito berlusconiano, una netta curvatura in senso anti-statalista. E dunque immaginavano un coerente piano di liberalizzazioni e la fine di tutti i “lacci e laccioli” che a loro avviso imprigionavano l’economia e l’impresa. Fine quindi del corporativismo che sotto il mantello della concertazione concedeva alle forze sindacali, in numerose circostanze, un decisivo potere di “veto”.
Poteva piacere o meno questa ricetta un po’ “thatcheriana” e alle sinistre di sicuro non piaceva. Però aveva il dono della chiarezza. Da un lato Berlusconi offriva un porto sicuro ai reduci del pentapartito, dall’altro li sfidava con una promessa di assoluta discontinuità nel confronto con i decenni precedenti. Né la Dc né il Psi e nemmeno i partiti laici avevano mai sperimentato la via liberale così come l’immaginava Berlusconi, con una punta trasparente di liberismo (ma non scomodiamo Einaudicontrapposto a Croce). Il gruppo di intellettuali con cui il ricostruttore del centro-destra volle arricchire le sue liste serviva a rendere credibile il programma liberale (anche per distinguersi dalla destra di Fini, notoriamente statalista, e dai leghisti di Bossi, molto ambigui sul punto).
Ecco allora i nomi di Giuliano Urbani, co-fondatore di Forza Italia, Lucio Colletti, Piero Melograni, Vittorio Mathieu, Antonio Martino, Giulio Tremonti, Giorgio Rebuffa, Saverio Vertone e alcuni altri. Quasi tutti furono disillusi. Il progetto, benché reiterato negli anni, non si realizzò mai. Fu sostituito da una serie di colpi di scena (rifondazioni, cambi di nome, “predellini”) secondo uno schema tattico nel quale Berlusconi si rivelò maestro. Con ciò coltivava la sua immagine e parlava all’Italia profonda, la quale lo ricambiò per anni e anni.
Ma lo sbocco liberale del centro- destra rinvigorito dal “berlusconismo” è rimasta un’utopia a cui nemmeno il protagonista di quella lunga pagina ha mai creduto veramente. Più che altro un suggestivo gioco di parole. E il centro-destra ha proseguito il suo cammino, fra crisi e spaccature ricorrenti, ma spesso con risultati elettorali buoni e talvolta ottimi.
È cambiato come è cambiata l’Italia, il centro-destra per certi aspetti si è radicalizzato. Alla fine Berlusconi ha seminato, ma non è mai andato oltre quell’intuizione iniziale. Schiacciato e condizionato dai suoi conflitti di interessi, ha interpretato un certo mondo, ma lo ha anche profondamente deluso.
E chi ha raccolto i frutti nel settembre 2022 è stata Giorgia Meloni, certo non una liberale, figlia anch’essa di una storia complicata e poco in sintonia con il codice repubblicano del dopoguerra. Abbastanza abile, tuttavia, da farsi capire da quell’Italia profonda che Berlusconi ha illuso, sedotto e poi, in definitiva, ha abbandonatoa se stessa.
Francesco Verderami pe ril Corriere
Silvio Berlusconi era un pazzo. D’altronde così venne giudicato quando prese una televisione in un sottoscala e disse che avrebbe fatto concorrenza alla Rai, quando acquistò una squadra di calcio sull’orlo del fallimento e promise che avrebbe vinto scudetti e coppe dei Campioni, quando fondò un partito e scommise che sarebbe entrato a Palazzo Chigi. Fu più difficile mettere insieme undici giocatori in campo che mettere d’accordo undici milioni di elettori nelle urne. Infatti gli italiani presero a votarlo nel ‘94 quando videro che in otto anni era riuscito a portare il Milan sul tetto del mondo e Canale 5 in vetta agli ascolti. Perché Berlusconi considerava il calcio e il business cose troppo serie per essere equiparate alla politica, riteneva che per avere successo in quei campi non bastassero un appello al «Paese che amo» o un annuncio dal predellino di un’auto.
Va dunque rovesciata la tesi che abbia usato il calcio e la tv come arma del consenso, semmai il consenso è stato la conseguenza dei suoi successi nello sport e nell’impresa. Successi che in politica non riuscì ad eguagliare, sebbene abbia acquisito un ruolo nella storia che nessun altro può vantare. Perché negli anni della Seconda Repubblica il Cavaliere è stato il protagonista del bipolarismo al punto da averlo rappresentato per intero: fu il motivo di quanti si schierarono con lui e la ragione di quanti si schierarono contro di lui. Una caratteristica che lo distingue da ogni altra personalità dell’era repubblicana, al punto che si definisce ventennio berlusconiano il periodo durante il quale lui governò meno dei suoi rivali. Berlusconi fu talmente divisivo da essere stato unificante, riempiendo di sé le biografie dei suoi avversari: da Carlo De Benedetti a Romano Prodi, da Oscar Luigi Scalfaro ad Antonio Di Pietro.
Teatrale nei gesti, nelle battute e persino nelle vicissitudini, ha segnato un’epoca con le sue bandane, i suoi malori, i suoi amori, i suoi scontri efferati contro quei «coglioni» che votavano a sinistra, contro le «toghe rosse» che non lo lasciavano governare. Esponeva sé stesso, ostentando in pubblico la ferita inferta da chi gli aveva scagliato contro una statuetta del Duomo di Milano, cercando la legittimazione dell’establishment che – in Italia e in Europa – lo vedeva come un intruso, raccogliendo voti durante le campagne elettorali e dissipandoli poi nella gestione di governo. Ebbe una funzione persino nella sfera culturale, perché diede voce a quella parte del Paese e della sua intelligenza costretta al silenzio dalla «dittatura della parola», che nel dopoguerra aveva imposto la propria legge decidendo chi fossero i buoni e chi i cattivi, chi fosse un «democratico» e chi un «fascista». È forse l’aspetto più clamoroso della «rivoluzione berlusconiana», che ruppe un sistema talmente incistato da non essere stato ancora sradicato. Eppure Berlusconi non ne ha mai parlato, come ne fosse disinteressato, accreditando così la tesi che la «rupture» culturale – prodotta anche attraverso il linguaggio delle sue televisioni – sia stato per lui solo uno strumento per vincere la sfida con la sinistra. Resta però il fatto che, liberando quel pezzo d’Italia, Berlusconi ha finito per liberare l’Italia intera, siccome il conflitto ha costretto infine le due Italie a parlarsi. E alla lunga a riconoscersi.
Tanto basterebbe per capire cos’è stato il «ventennio» berlusconiano, specchio di un’Italia contraddittoria, solidale e cinica, generosa e truffaldina, innocente e colpevole. Ma al di là del verdetto morale e delle sentenze processuali, c’è un aspetto politico della sua vicenda di piazza e di palazzo che attende il giudizio della storia. E che ruota attorno a un interrogativo: come mai sopra questa pietra angolare non si è edificato nulla? Perché il campo di cui è stato fondatore appare destinato a tramontare con lui? Di Berlusconi vanno separate la sua esperienza di governo e quella di leader di partito. Da presidente del Consiglio non è riuscito a realizzare la «rivoluzione liberale»: la riforma del fisco e la riforma della giustizia hanno rappresentato i pilastri del suo disegno, l’eterna promessa di un nuovo miracolo italiano mai realizzato.
Gli elettori
Ha sempre avuto dalla sua il rapporto con gli elettori, che si è ridotto dalla nascita del Pdl
A sua discolpa Berlusconi ha sempre sostenuto che la congiuntura economica, gli avversi giochi di potere interni e internazionali, e persino l’ostilità degli alleati gli abbiano impedito di realizzare il suo disegno. Ma non c’è dubbio che lo scontro con la «magistratura politicizzata» e la sequenza di leggi ad personam, all’ombra del conflitto d’interessi, tolsero energie alla sua azione di governo. Il leader di partito invece ha avuto carta bianca e non ha conosciuto rivali, anche quando gli si sono parati davanti: da Gianfranco Fini a Giulio Tremonti, passando per Pier Ferdinando Casini, in molti hanno provato a sostituirlo. Ma il Cavaliere ha sempre avuto dalla sua il rapporto con gli elettori. Rapporto che iniziò a calare in concomitanza con la fine del suo ultimo progetto: il Popolo della libertà, intuizione con la quale mirava a competere con il neonato Pd ma soprattutto si proponeva di abbattere l’ultimo steccato. A destra. La caduta del muro tra Forza Italia e An sembrava spianare la strada alla strutturazione di un vero e proprio partito interclassista, realizzando la promessa che Berlusconi aveva fatto ai suoi elettori: «Lascerò in eredità agli italiani il più grande partito moderato della storia».
Dopo la sentenza di condanna per il caso Mediaset e la sua successiva estromissione dal Senato, Berlusconi decise invece di chiudere il Popolo della libertà. Fu un atto proprietario. A decretare il tramonto politico del Cavaliere non furono la sua estromissione dal Senato e i servizi sociali a Cesano Boscone, bensì la volontà di porre fine a una stagione che era insieme una visione. E tutto si consumò a causa di un equivoco che si poggiava su un dilemma: chi avrebbe dovuto essere il suo erede politico? In realtà il compito di Berlusconi non era trovare un erede. Era lasciare un’eredità. Berlusconi non aveva eredi: lo hanno dimostrato i fatti. Ma gli elettori berlusconiani si attendevano un’eredità e così non fu. Perciò iniziò il declino, perché l’uomo che aveva inventato l’opinione di centrodestra l’aveva lasciata orfana. Matteo Salvini ha tentato, senza successo, di sostituirlo. Ora ci prova Giorgia Meloni, si vedrà con quali risultati.
In ogni caso per il Cavaliere la politica non è mai stata una priorità quanto un’arma difensiva. Berlusconi non pianse quella sera di metà novembre del 2011, quando – tra due ali di folla che lo dileggiavano – salì al Quirinale per dimettersi da presidente del Consiglio. Si commosse invece quella mattina di metà agosto del 2004 nella sua villa in Sardegna, dopo aver visto uno speciale di Milan Channel sui suoi primi diciotto anni da presidente del club. È vero che fece valutare il peso specifico di uno scudetto sulle percentuali del partito, ma il meccanismo di immedesimazione con le vittorie del Milan è nettamente superiore a qualsiasi altro successo dei suoi asset. Nell’immaginario del Cavaliere, infatti, la discesa in campo non avviene il 26 gennaio del ‘94 ma il 18 luglio dell’86, quando atterra con l’elicottero all’Arena di Milano per la presentazione della sua squadra.
E lui, che si è sbarazzato senza tanti complimenti di delfini e di nomi di partiti, faticò a staccarsi dal suo club. Il Milan è stato per il Cavaliere un esercizio di stile e di comando, oltre che un formidabile strumento diplomatico. Al punto che durante l’intervallo di una gara internazionale chiamò Adriano Galliani per ordinare ai suoi talenti di non infierire sugli avversari turchi: «Evitiamo di urtare la suscettibilità di Erdogan». Nel calcio ha vinto come nessun altro. In politica ha vinto come nessun altro. Ma il suo rammarico è che la politica ha nociuto alla sua immagine calcistica, perché nessuno ha voluto accostarlo – come avrebbe meritato – a Santiago Bernabeu, che pure tenne stretti rapporti con Francisco Franco mentre dominava in Europa con il suo Real Madrid. Eppure Berlusconi superò Bernabeu, è stato il presidente di club più titolato della storia mondiale del pallone. L’uomo dei record si è sempre attorniato di una squadra. L’ultima che gli è rimasta, quella del Biscione, vanta ancora la stessa formazione: Fedele Confalonieri, Gianni Letta... Sono i testimoni di un tempo che di fatto ha già passato le consegne ai figli del Cavaliere.
Marzio Breda per il Corriere«Forse non ci siamo intesi. Qui, sul mio tavolo, quel nome non passa. Per senso etico». Così Silvio Berlusconi si sentì rispondere da Oscar Luigi Scalfaro quando gli propose la nomina a ministro della Giustizia di Cesare Previti, avvocato della Fininvest. E «quel nome» fu depennato. Era il 1994 e in un attimo il Cavaliere capì che non esistevano prerogative senza limiti. Neppure per chi aveva espugnato Palazzo Chigi. Infatti, dopo un po’ lo ammise: «Ho fatto i conti con questo presidente. So quali poteri può avere la persona che siede al Quirinale. E ho sofferto».
Parlava della sua «sofferenza», il Cavaliere. Ma bisogna ricordare che il patimento è stato condiviso dai capi dello Stato con cui si è confrontato, con dure prove di forza. Scalfaro è stato il primo, e il più detestato dal Cavaliere e dagli italiani che lo votavano. Caratteri e visioni inconciliabili, le loro. E la diffidenza del Colle per il magnate delle tv è evidente fin da quando gli dà l’incarico di formare un nuovo governo. Prima ancora di scorrere la lista dei ministri Scalfaro gli indirizza un memorandum nel quale lo vincola a «garantire unità nazionale, solidarietà sociale, fedeltà alle alleanze internazionali». Un’iniziativa senza precedenti per mettere sotto tutela – allargando la fisarmonica dei suoi poteri – un esecutivo guardato con perplessità da metà del Paese e da diverse cancellerie straniere.
È il preludio a una catena di avvertimenti, cui si sommano i timori dell’Europarlamento, che esorta il governo a «non abbandonare i valori dell’antifascismo», aprendo la stanza dei bottoni ai post-fascisti. Ma altri stop incombono dal Quirinale. Quando Palazzo Chigi prepara una riforma fiscale generosa verso i grandi ricchi, Scalfaro tuona: «Le ingiustizie minacciano la pace sociale, così si rompe il patto di solidarietà fra cittadini». Nuovi diktat si aggiungono per le annunciate riforme su magistratura e pensioni, mentre la Rai viene occupata. Sono solo alcuni esempi, finché il 5 ottobre ’94 Berlusconi riceve il fatidico avviso di garanzia durante un vertice Onu a Napoli, che minerà la tenuta dell’esecutivo.
Un golpe, dice il Cavaliere, anche se fu il segretario leghista Bossi, non Scalfaro, a diroccare la maggioranza. La nuova coalizione è il rovescio di quella uscita dal voto, per cui si parlerà sempre di «ribaltone». Ed è dalla caduta di Berlusconi che comincia l’assedio del Colle, demonizzato a intermittenze sempre più ravvicinate mentre scatta la guerra alle «toghe rosse».
Toccherà soprattutto a Carlo Azeglio Ciampi fronteggiarla, cercando di arginare l’ansia di rivincita del leader di Forza Italia, dopo un lungo purgatorio all’opposizione. Per indole, il nuovo capo dello Stato vorrebbe tentare, nel bipolarismo che si sta consolidando, una conciliazione attraverso la moral suasion e una «neutralità attiva». Ma è un esercizio arduo se non impossibile, dato che il centrodestra pretende un suo collateralismo. Il che, a parti invertite, accade pure col centrosinistra.
Le difficoltà sorgono quando Berlusconi contesta l’idea ciampiana di «revisionare il revisionismo», senza più «combatterci a colpi di passato», e ricorda che la Resistenza è tra le basi fondative della Costituzione. Sta di fatto che il Cavaliere non vorrà mai onorare la lotta antifascista accanto a lui. Il peggio però viene quando il governo vara le leggi ad personam. Si toccano le regole del gioco, rischiando di svuotare la democrazia, e qui scatta il dissidio. Il 10 dicembre 2003 Berlusconi sale a colloquio dal presidente. «Se non promulghi la legge Gasparri (che edulcorava il conflitto d’interessi sulle tv, ndr), lo considererò un atto di guerra. E qui dentro non mi vedrete più». Così sarà per mesi, mentre le opposizioni fanno girotondi incitando il presidente a «non firmare», a «resistere» e il Cavaliere lo accusa di «lasciarsi incantare dalle sirene della sinistra».
Resiste, il Quirinale, anche davanti a certe scelte in politica estera del premier, tornato a Chigi, che non condivide. Accade lo stesso con Giorgio Napolitano, che s’impegna a lavorare «per la concordia nazionale», ma non ci riesce. Basta pensare allo scontro sul caso Englaro, su cui il Cavaliere arretra, pronto tuttavia a dar battaglia agli «azzeccagarbugli del Colle» per altri provvedimenti su cui Berlusconi si esprime «con brutalità», riferisce il capo dello Stato. Per esempio, quando dice di essere «l’unica carica istituzionale eletta dal popolo», mirando così a delegittimare l’autorità di quello che dovrebbe essere il suo interlocutore naturale. Tensioni continue, come per l’intervento militare in Libia, finché il premier cede le armi e si dimette, messo in mora pure dalla Ue, stavolta, con il passaggio di consegne a Mario Monti.
Sergio Mattarella è, fra tutti i presidenti, quello che ha meno a che fare con Berlusconi. Inabilitato da una sentenza a far politica, fino a quando, prima della rielezione mattarelliana, il Cavaliere, riabilitato, sognerà di tornare in gioco. Stavolta per disputarsi il Colle. Ma è ormai troppo tardi.
Fabio Martini intervista Romano Prodi, sta
È metà mattinata, Romano Prodi sta scarpinando sul tratto della via Francigena che da Città di Castello sale verso la faggeta e in un tratto di bosco dove riaffiora un po’ di campo, squilla il cellulare: «Romano, è morto Berlusconi». Sono passate da poco le 11 e in questa istantanea c’è per davvero qualcosa di simbolico: la scomparsa di Silvio Berlusconi coglie il suo “eterno rivale”, Romano Prodi, mentre è impegnato in una gita a base di trekking. È come se per i duellanti del bipolarismo italiano, in questo 12 giugno 2023, si sia fissata per sempre una diversità antropologica, ancor prima che politica. Uno amava la Costa Smeralda, l’altro la via Francigena, uno l’elicottero e l’altro il trekking.
Prima di rimettersi in cammino e risultare irrintracciabile per ore e ore, l’ottantatreenne Professore si sofferma sul suo rapporto con Berlusconi: «Io e lui, quando tra di noi è iniziato lo scontro politico, siamo rimasti molto diversi, perché abbiamo continuato a rappresentare mondi politici e sociali direi contrapposti. Ma il nostro duello non è mai scivolato sul piano personale. La nostra è stata una rivalità che è restata nel rispetto reciproco». Prodi è stato l’unico leader di centrosinistra che per due volte abbia battuto Berlusconi in elezioni politiche, ma i due, pur non amandosi, avevano una sorta di intima complicità che si trasformò in battuta l’ultima volta che si parlarono. Era il 2007 e durante un incontro alla presenza di Papa Ratzinger Berlusconi si rivolse a Prodi e gli disse: «Ma che matti dobbiamo gestire tu ed io?». E il Professore annuì. Alla fine Prodi e Berlusconi si sono vissuti così: come gli unici, veri leader di coalizioni litigiose.
Un rapporto mai raccontato quello tra Prodi e Berlusconi prima che i due entrassero in politica. Negli anni Ottanta i due si erano anche simpatici. Certo, non si sono mai amati ma neppure detestati. Quando Prodi era nel giro di Ciriaco De Mita, anche Berlusconi frequentava la Dc e fu allora, a metà degli anni Ottanta, che il Cavaliere-costruttore si presentò al professor Prodi. E prima di entrare in “campo”, Berlusconi chiese un appuntamento al Prodi presidente dell’Iri: gli parlò di televisioni.
Nelle loro precedenti vite i due non si sono osteggiati, ma poi tutto si è guastato. Berlusconi non ha quasi mai usato nei confronti di Prodi parole grevi, ma ha utilizzato molti mezzi per azzoppare il Professore: contatti molto hard con senatori di centrosinistra per trasformare la maggioranza parlamentare in minoranza; sui giornali di sua proprietà ha incoraggiato inchieste giudiziarie poi rivelatesi prive di fondamento. E ogni volta che Prodi, oramai fuori dalla contesa politica, faceva un’intervista e dava un segnale politico al mondo del centrosinistra, puntualmente qualche media del gruppo Mediaset riprendeva a bombardare sul Professore. E tuttavia Prodi, davanti alla scomparsa di Berlusconi, preferisce glissare su questi precedenti spiacevoli e invece valorizzare un tratto dell’ultimo Cavaliere: «Dopo le elezioni del 2018 è stato apprezzabile il suo europeismo perché il destino dell’Unione in quel frangente è stato messo aspramente messo sotto accusa». Un europeismo, quello di Berlusconi che nel racconto di Prodi, si rafforza con uno dei suoi aneddoti: «Ricordo che Helmut Kohl alla fine degli anni Novanta era contrarissimo a Berlusconi. Allora ero alla guida della Commissione europea e un giorno lessi una apertura del cancelliere verso Berlusconi: incoraggiava Forza Italia ad entrare nel Ppe. Lo chiamai: Helmut ma ancora ieri mi sparlavi di Berlusconi e ora che è successo? Lui mi rispose: Forza Italia mi serve per battere i Socialisti e una volta che Berlusconi starà nel Ppe farà quel che dico io».
È andata così ed è proseguita così anche dopo. È il luglio del 2003, da presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi pronuncia davanti all’Europarlamento un intervento durissimo contro il socialdemocratico tedesco Martin Schulz: «So che in Italia stanno girando un film sui lager nazisti, la proporrò per il ruolo di kapò!». Gianfranco Fini, allora alleato di Berlusconi, ascolta macerando un pacchetto di Marlboro, alla fine si avvicina al presidente della Commissione europea Romano Prodi e gli dice: «Sii indulgente». E Prodi, sia pure scuro in volto: «Sono comunque italiano». —