13 giugno 2023
In morte di Berlusconi. La biografia
Candida Morvillo per il Corriere
L’ epitaffio che gli era più caro gliel’aveva scritto la mamma, dopo averci pensato su un’intera notte: «Fu un uomo buono e giusto, dolce e forte». Silvio Berlusconi lo ricordava spesso, specie per giurare che, in quel momento, aveva preso un impegno solenne con la donna più importante della sua vita, dicendole: «Grazie, mamma: cercherò di essere proprio così». Fra tutte le presenze femminili, Rosa Bossi aveva un posto preminente anche nella narrativa della sua personale epopea. Nell’opuscolo elettorale «Una storia Italiana», Silvio raccontava di quando, incinta di lui in guerra, aveva affrontato un soldato tedesco per difendere una conoscente piazzandosi precisa davanti alla canna del fucile.
Donna Rosa era il suo miglior spot elettorale quando girava i mercati e raccontava di avere gli occhi gonfi per il gran piangere, perché «i cattivi» mettevano in croce suo figlio. Pranzavano insieme ad Arcore tutti i lunedì. A tavola, lui le teneva la mano. Se prendeva l’aereo, per avvisarla che era atterrato salvo, le telefonava anche alle due di notte. Lei mancherà nel 2008, prima che le debolezze private dell’amatissimo primogenito diventassero pubbliche, o forse, come dice chi lo conosceva, prima che le debolezze private prendessero il sopravvento, perché finché c’era stata Rosa, lui non avrebbe mai dato adito a un pettegolezzo che potesse turbarla.
Le fu risparmiato anche il divorzio da Veronica Lario, che Silvio vede sul palco del teatro Manzoni nel 1980. «Ho sentito un fulmine, ma non c’era il temporale», farà scrivere lui nell’opuscolo di cui sopra. Berlusconi era già sposato con Carla Dall’Oglio, madre di Marina e Pier Silvio, conosciuta a una fermata milanese del tram. Nozze-lampo le loro, il 6 marzo 1965. Divorzieranno nel 1985 senza che mai lei rilasci un’intervista, una dichiarazione. «È stata una gran signora. Si è comportata con ammirevole riservatezza», commentò Silvio col settimanale Oggi, ricordando che invece il divorzio da Veronica era stato assai più doloroso.
Prima delle «richieste di pubbliche scuse», o dell’indignazione per il «ciarpame senza pudore», però, Lario aveva incarnato un amore da fotoromanzo. Il debutto era stato su una copertina di Epoca del 1994, anno della «discesa in campo»: lei cammina sul prato di Macherio, piedi scalzi, abito fluttuante, fra i tre figli e varie caprette. Racconta: «Silvio mi fa sentire la presenza più importante del suo mondo più privato», ma rivela anche che, per i bambini, ha scelto una scuola che scoraggia la visione della tv, ovvero di ciò che ha fatto e fa la fortuna di famiglia. Sono i prodromi di un’indipendenza di pensiero che, in anni più turbolenti, faranno fantasticare di una «Tendenza Veronica». Si erano sposati nel 1990. Lei gli chiede il divorzio nel maggio 2009.
La primogenita
Del padre Marina
è stata vestale
e sparring partner
pronta a difenderlo
La nuova fidanzata, Francesca Pascale, viene ufficializzata nel 2012: ha 27 anni quando lui ne ha 76. L’ex soubrette di TeleCapri aveva fondato i circoli «Silvio ci manchi». Nel 2012 è ad Arcore e spiega che, in casa, «c’era bisogno di una donna: pagavano i fagiolini a 80 euro al chilo». Col tempo, sarà accusata di governare non più la dispensa, ma un «cerchio magico» che fa il vuoto intorno al fidanzato, lo influenza, lo gestisce. E poi, quando nel 2015 inizia a ristrutturare Villa Maria, a dieci chilometri da Arcore, primo passo di un allontanamento sentimentale e anche politico, si dirà che lì tiene un salotto anti salviniano.
L’addio viene comunicato quando lui viene fotografato con la calabrese Marta Fascina, classe 1990, deputata di Forza Italia dal 2018. È marzo del 2020, i due escono da un resort svizzero, lei porta al guinzaglio Dudù. Su una mano, c’è tatuata la sigla «SB». È Marta l’ultima donna che accompagna alla fine Silvio Berlusconi, discreta e silenziosa. Sin dall’inizio, per le volte in cui compaiono insieme in Costa Azzurra o a Capodanno, pare avere la benedizione di Marina, una che per suo padre farebbe di tutto, come ha sperato chi l’ha invocata a capo del partito dopo di lui. E ora, dopo il matrimonio simbolico celebrato a marzo 2022 a Villa Gernetto, e fatto per suggellare l’amore senza terremotare l’asse ereditario, molti dicono che ci siano Marina e la vedova Fascina dietro l’ultimo rimescolamento di carte che si è giocato dentro il partito, fra l’altro, depotenziando la senatrice Licia Ronzulli e togliendole l’ingresso libero alla villa di Arcore.
Di papà Berlusconi, Marina è stata la vestale e la sparring partner, non solo in quanto presidente di Fininvest: pronta a dare dello «sciacallo» a chi lo attaccava, a sottolineare «che l’amore di figlia certo non rende ciechi» o a dire (sulla sentenza Cir-Mondadori) che «siamo alla barbarie legalizzata». È la più esposta rispetto alle altre due figlie, pure amatissime e che non hanno mai mancato un ritrovo di famiglia, Barbara ormai al quinto bimbo, Eleonora con i suoi tre. Loro erano bambine, però, per dirne una, quando, nel 1998, lui rifiutò di vendere Mediaset a Rupert Murdoch per settemila miliardi di lire e disse: «Hanno prevalso le ragioni del cuore», ma intendeva dire che era prevalsa Marina. È lei che, più di tutti, ha riempito lo spazio lasciato vuoto da Donna Rosa.
Antonio Polito peril CorriereOra è il momento del cordoglio e dell’affetto, che da amici e nemici, estimatori e spregiatori (con qualche poco lodevole eccezione), sta arrivando alla famiglia naturale e a quella politica di Silvio Berlusconi. E però, come capita solo a chi entra da protagonista nella storia di una nazione, onorarne la scomparsa è anche riflettere sul suo tempo, sulla sua dimensione di «numero uno», nell’impresa, nello sport, nella politica, nella guida del Paese. E se si dovesse fare l’anatomia di un istante, nella straordinaria vita di Silvio Berlusconi, forse si dovrebbe scegliere la sera dell’8 novembre 2011. Perché un uomo di Stato è definito dal modo in cui lascia il potere, almeno quanto non lo sia dal modo in cui l’ha conquistato. La sua biografia, dunque, potrebbe cominciare non dal giorno in cui aprì il suo primo cantiere edile, a Brugherio, nel 1964, o fondò la Fininvest, nel 1975, aprendosi la via di un impero televisivo e finanziario che lo rese uno degli uomini più ricchi del mondo. Né dal giorno in cui scese in campo, avviandosi a vincere tre elezioni e mezzo e a guidare quattro governi per il tempo record di nove anni. Né dalla volta che scese con l’elicottero sul campo dell’Arena per inaugurare l’epopea del Milan, con lui vincitore di cinque Champions e otto scudetti in trentuno anni. Berlusconi si è preso nella sua vita tanto di quel potere, che il vero magic moment, l’istante da raccontare, è forse quello in cui l’ha perso.
La rinuncia al potere
Le cose stavano così: l’Italia andava a rotoli per via dell’attacco dei mercati al nostro debito pubblico. Spread oltre 500 punti. Merkel e Sarkozy che ridevano in pubblico di lui. L’Europa che aveva paura di affondare insieme all’Italia. Gianfranco Fini si era fatto un partito ed era passato all’opposizione. Otto deputati, tutti ex «fedelissimi», tradiscono il Cavaliere in un voto decisivo, facendogli perdere la maggioranza a Montecitorio. Ma lui vuole resistere. Non mollare. Non dimettersi da premier. «Così deve fare Berlusconi», gli suggeriscono tutti quelli intorno a lui, che hanno sempre vissuto di luce riflessa e vogliono tenerla accesa. Ma poi arrivano due telefonate. La prima è di Ennio Doris, amico e antico socio in Mediolanum: «Silvio, se non ti dimetti l’Italia crolla». La seconda è del figlio Luigi, che lavora nella City a Londra: «Papà, se l’Italia crolla crollano anche le nostre aziende». Così il «Cavaliere nero», il Caimano che nel film interpretato da Nanni Moretti alla fine sobilla la rivolta popolare pur di non cedere il potere, si dimette accettando la logica inesorabile della politica democratica. E in un solo pomeriggio l’argomento più usato contro di lui, il «conflitto di interessi» tra aziende private e funzione pubblica, si rovescia nel suo contrario.
Dopo aver inseguito il potere, secondo i suoi nemici solo per il suo interesse, deve rinunciare al potere anche nel suo interesse. La dimensione larger than life, fuori dall’ordinario, della vicenda umana e politica del Cavaliere è tutta nel momento in cui lasciò per sempre Palazzo Chigi (e che lui poi più volte derubricherà a mero «complotto», facendo così torto innanzitutto a se stesso e alla scelta responsabile che fece). A quella giornata a suo modo storica non fecero onore i cori di «buffone, buffone» sotto Palazzo Chigi e le ali di folla festanti davanti al Quirinale per le sue dimissioni. Come nella sera delle monetine a Craxi, si mostrò allora un’Italia capace di codardo oltraggio, dopo lunghi anni di servo encomio.
Volontà di potenza tra guai giudiziari
Perché Berlusconi è stato un fenomeno: volontà di potenza, certo, ma anche necessità storica. Insieme il frutto del male italiano e allo stesso tempo il suo tentativo di cura. Non il malfattore che conquista un popolo ingenuo con dosi da cavallo di imbonimento televisivo, come è stato descritto; ma neanche il salvatore della patria che libera il suo paese dai cosacchi di Occhetto, il primo dei tanti leader della sinistra da lui sconfitti. Piuttosto, nel bene e nel male, il fondatore di una nuova destra e di una nuova politica, con ambizioni liberiste e tratti populisti, che ha fatto scuola nel mondo e ha dominato la scena italiana per un ventennio, anche quando era all’opposizione.
E che poi è finita con lui, tant’è che per tornare a vincere ha dovuto cambiare pelle, sesso, età, e incarnarsi in Giorgia Meloni, antropologicamente il suo contrario. I professionisti dell’antiberlusconismo l’hanno accusato di ogni crimine. Ed è vero che più di venti processi sono stati intentati contro di lui, con imputazioni varie, talvolta particolarmente infamanti, come lo sfruttamento della prostituzione minorile nella persona di Ruby Rubacuori, una delle tante partecipanti alla sarabanda di ragazze che ospitava nelle sue ville; o come il sospetto di collusione con la mafia che ha portato uno dei suoi più grandi amici e compagni d’arme, Marcello Dell’Utri, alla condanna e al carcere; o addirittura l’accusa di aver ordito le stragi del 1993 per accelerare il proprio trionfo politico. Da quasi tutte le imputazioni è uscito assolto, prosciolto o comunque prescritto, anche grazie alle arti dilatorie del suo stuolo di avvocati, guidato dal fido e ormai scomparso Ghedini.
Le macchie e i loro risvolti
E dunque, se si deve credere alla legge, quella dei giudici e delle sentenze e non solo quella dei procuratori e delle intercettazioni, Berlusconi ha compiuto un solo reato: frode fiscale, per cui è stato condannato con sentenza definitiva. Gli è costata una rapida defenestrazione dal Senato, la cui maggioranza del tempo non perse l’occasione di ricorrere allo scrutinio palese pur di sancirne l’incompatibilità (il Cavaliere ha poi avuto piena riabilitazione giudiziaria, e si è potuto ricandidare ed essere eletto, prima al parlamento europeo e poi di nuovo al Senato, dove ha ripreso il suo posto). Naturalmente l’uomo non era per niente uno stinco di santo, anzi: aveva i suoi vizi privati e pubblici e sapeva come giocare sporco. C’è chi gliel’ha rimproverato fino all’ultimo, senza pietà, come il suo arcinemico Carlo De Benedetti, che perfino mentre l’avversario era in ospedale col Covid gli fece sì gli auguri, ma ribadendo che per lui era pur sempre «un imbroglione». Tante macchie ne hanno oscurato la vita pubblica. L’origine dei capitali con i quali Berlusconi ha iniziato la sua attività di imprenditore è ancora avvolta nel mistero.
L’uso della maggioranza parlamentare per varare leggi ad personam al fine di difendersi dai processi si sostituì alle promesse di riforma del sistema giudiziario mai mantenute. E l’impero televisivo, nato con uno stratagemma per aggirare il divieto, la diffusione delle cassette registrate a una rete di tv locali, fu legittimato con un decreto legge da Craxi, suo amico e testimone delle nozze con Veronica Lario, che lo salvò dal sequestro ordinato da tre pretori. Però, come sempre nella sua vita, ognuna di queste vicende ha il suo risvolto. Per esempio: chi può negare che la fine del monopolio pubblico della televisione fosse ormai matura, non più giustificata dalla greppia dei partiti sulla Rai, un fattore di modernizzazione che ha cambiato l’Italia? Berlusconi colse con spregiudicatezza la mela, e si fece aiutare da chi allora era più in alto di lui. Però così cambiò, oltre che la sua fortuna, anche la vita degli italiani, soprattutto dei più isolati, anziani, poveri e meno scolarizzati, che poterono riempire le loro serate dei quiz di Mike Bongiorno e delle telenovelas brasiliane, per giunta gratis, senza canone. Più volte la sinistra ha sbattuto la testa contro questo spigolo: ciò che lei trovava intollerabile e insopportabilmente populista in Berlusconi, la gente semplice lo trovava ammirevole. Il mito, così americano, dell’uomo che si era fatto da sé, sedusse il popolo, espropriandone la sinistra. Soprattutto Berlusconi scoprì «le grand bleu» della politica italiana, il mare azzurro e profondo degli elettori moderati, o comunque ostili alla sinistra. Il Cavaliere, complice il passaggio al sistema elettorale maggioritario nel 1994, riuscì a prendersi il centro, sulle spoglie della Dc, e a riunirlo con la destra nordista di Bossi e sudista di Fini. Per la prima volta dal 1876, l’Italia conobbe l’alternanza. Uno schieramento vinse le elezioni e passò dall’opposizione al governo. Forse fu proprio la radicalità e la partigianeria di questa nuova politica (che un altro amico di Berlusconi, Cesare Previti, sintetizzò brutalmente con la frase «noi non facciamo prigionieri»), a fare scandalo in un paese abituato al «connubio» tra Cavour e Rattazzi e al «compromesso storico» tra Moro e Berlinguer.
Scalpore e pettegolezzi
Di certo Berlusconi ci mise del suo. Aveva il gusto, o l’improntitudine, di scandalizzare l’uditorio con dichiarazioni politicamente scorrettissime, che hanno fatto il giro del mondo e lo hanno trasformato in un personaggio pittoresco per la stampa estera: come quando diede dell’«abbronzato» a Obama, alludendo al colore della sua pelle. O come quando, nella foto ufficiale di un vertice europeo, fece il gesto delle corna dietro le spalle del suo omologo spagnolo, come un studente liceale in gita. Ma anche in Italia ne ha dette.
La magistratura «cancro del Paese» fu forse la frase più contestata. Un certo scalpore fece anche il discorso in cui affermò di non poter credere che «ci siano in giro così tanti coglioni» disposti a votare contro di lui. Si è sempre sentito un uomo cui il successo consentiva di mettersi al di sopra delle convenzioni, se non delle leggi. L’andirivieni delle «olgettine» nelle sue residenze private non aveva, è vero, rilevanza penale, come i processi hanno poi accertato; ma la rivelazione delle sue «cene eleganti» ha avuto una notevole rilevanza nel cristallizzare in molti un giudizio negativo sull’uomo di Stato, che in ben altre faccende dovrebbe essere affaccendato (oltre a costargli il matrimonio con Veronica Lario).
Eppure il bilancio finale del Berlusconi politico non è negativo a causa di tutte le cose che ha minacciato di fare o che i suoi avversari gli hanno imputato di aver fatto; ma piuttosto per quelle che aveva promesso e che non è riuscito a fare. Il più longevo premier della storia della Repubblica ha lasciato sulla carta la «rivoluzione liberale», fatta di meno tasse e più crescita, la promessa che lo aveva portato al governo. Non ha potuto cambiare come voleva la Costituzione, perché la sua riforma fu sonoramente battuta nel referendum. Non riuscì neanche – né davvero ci provò veramente mai – a riscrivere il sistema giudiziario italiano in un senso più garantista e meno dominato dalle Procure, preferendo il piccolo cabotaggio delle leggi ad personam. Non ha mai neanche lontanamente accettato l’idea di costruire una successione, tagliando anzi la testa uno a uno a tutti i potenziali «delfini», e così presumibilmente portando alla fine con sé la sua creatura, Forza Italia. La quale, negli ultimi anni del declino fisico ed elettorale del Cavaliere, si è infatti trasformata in una corte medievale, dove le fortune o le disgrazie dipendono dai favori della fidanzata (l’ultima, Marta Fascina, è diventata «moglie» amorevole, per mesi al suo capezzale), o dall’ambizione dell’ultima assistente, o dalle manovre dell’ultimo cortigiano. Berlusconi ha avuto tutto per cambiare l’Italia, consenso, successo, forza, soldi, potere; e non ce l’ha fatta.
Le tracce indelebili di un lungo passaggio
A 86 anni, ha persino sperato per un non breve momento di suggellare la sua straordinaria biografia trasformandola in leggenda, con l’elezione al Quirinale. Il semplice fatto che l’abbia sognato ci ha detto tutto sul tramonto della sua era. Ha molti alibi. E non solo nel testardo accanimento delle procure (Milano in testa) contro di lui. I due tragici eventi epocali che sconvolsero il mondo proprio all’inizio dei suoi governi, l’attacco alle Torri Gemelle nel 2001 e la crisi dei subprime nel 2008, sicuramente ne frenarono le ambizioni. Ma il suo passaggio nella storia politica dell’Italia ha lasciato anche tracce indelebili: per esempio il bipolarismo, stagione da lui dominata, e forse non a caso subito finita appena lui è uscito di scena, per ridare spazio negli ultimi anni agli antichi vizi italiani del trasformismo e delle maggioranze che cambiano come gli abiti col cambiare delle stagioni. Neanche l’ultimo «miracolo» gli è riuscito.
Una volta don Verzè, fondatore del San Raffaele di Milano di cui era amico e benefattore, rivelò che gli aveva chiesto «di campare fino a 150 anni per mettere a posto l’Italia». Contava sui progressi della scienza, o forse scherzava su un suo diritto all’immortalità. Si è spento in quello stesso ospedale a 86 anni, appena due in più della media nazionale. A conferma della sua natura di «arcitaliano», di autobiografia della nazione, di quell’Italia di cui in un celebre incipit disse «è il Paese che amo».