13 giugno 2023
In morte di Berlusconi. Le tv
Alberto Mattioli per StaBerlusconi e la tivù? Sostituite la congiunzione con il verbo: Berlusconi è la tivù. Almeno la seconda, dopo la Rai democristiana sì bella e perduta, provvista di congiuntivi, intenti educativi, composte tribune politiche e il colore chissà, forse non ce lo possiamo permettere (questo era La Malfa senior, però). E invece arriva Sua Emittenza e improvvisamente questo piccolo mondo antico scopre l’America: e giù spot, sport, quiz, intrattenimento, leggerezza, sederi in bella vista, un mondo pop e colorato, ottimista e disimpegnato, e vai di libero mercato. Finché l’arma di distrazione di massa non diventa il luogo dove Berlusconi lancia e sostiene la sua scalata politica e poi il luogo stesso della politica, con il talk show che tracima e si sostituisce al Parlamento.
Dalle Camere alle telecamere, questo è il percorso, magari coperte con una calza di seta per stirare le rughe sul viso del Cavaliere al discorso fatidico della discesa in campo (la prima, poi se n’è un po’ perso il conto, fu lui il vero «rieccolo», altro che Fanfani). Però ormai la svolta, secondo alcuni il guaio, è fatto. E non è tanto, o soltanto, l’uso massiccio della tivù per annunciare nuovi miracoli italiani o mirabolanti contratti con il popolo; ma la mutazione antropologica e culturale del Paese, la sua entrata nell’evo televisivo, la realtà a misura di piccolo schermo, la vittoria della telecrazia, peraltro non definitiva perché, a sua volta, oggi sconfitta dai social, le ruote girano anche per la tivù commerciale.
Occhio alle date, altrimenti non si capisce nulla. Il teledebutto di Silvio Berlusconi, non ancora cavaliere del Lavoro, risale al 1976. È ancora soprattutto un costruttore e da Giacomo Properzj compra Telemilano, un’emittente via cavo destinata ad allietare gli inquilini di Milano 2, la versione berlusconiana dell’Eden, tutta una villetta nel verde tipo un film con Doris Day e Rock Hudson che invitano a pranzo il parroco la domenica, ma qui con i cigni del celebre laghetto ben più innocui del serpente nell’erba (un comunista, ovvio: non fece forse dividere la mela, un morso a te e uno a me?). Due anni dopo, Telemilano diventa Canale 5 e viene fondata Fininvest. Nell’80, il primo colpaccio con l’acquisto dei diritti del Mundialito, strappato alla Rai.
Nell’82 arriva, da Edilio Rusconi, Italia1; nell’84, dalla Mondadori, Rete 4. Nello stesso anno l’amico Bettino Craxi fa approvare il decreto che mette al riparo le reti di Berlusconi dall’offensiva giudiziaria dei pretori di Torino, Pescara e Roma, giudici non ancora bollati come «comunisti», ma già molesti. Nel ’90, la legge Mammì consacra il duopolio televisivo. E nel frattempo le spire del Biscione avanzano in Europa: è dell’86 La Cinq in Francia, dell’87 Telefünf in Germania, del ’90 Telecinco in Spagna, e pazienza se solo quest’ultima ripete i fasti delle consorelle italiane.
Il successo televisivo di Berlusconi non si spiega senza considerare che siamo negli Anni Ottanta. È l’epoca della riscossa occidentale, della Trinità Thatcher-Reagan-Wojtyla che demolisce l’impero del male d’oltrecortina, della riscoperta del mercato, del successo, dell’individualità. Fare soldi torna a essere un merito, non una colpa; esibirli resta magari volgare ma non è più antisociale. Addio ai cupi Anni Settanta, alle utopie sessantottine, al «tutto è politico», ai conati rivoluzionari (e anche ai morti ammazzati per strada, per fortuna). La parola d’ordine è meno Stato e più mercato, meno noi e più io, meno impegno e più disimpegno. È sicuramente un’ondata liberista, liberale magari un po’ meno, libertaria per nulla, almeno in Italia.
Nel 1989 il Muro di Berlino crolla sulla testa dei comunisti non ancora post e sembra davvero che la Storia sia finita, resti soltanto il Mercato. La gente gioca in Borsa, vota (moderatamente) per i socialisti in versione craxiana, legge Capital e guarda le tivù di Berlusconi. «Sì, ma tutti quegli spot!», sbottano nei primi tempi le professoresse democratiche, poi folgorate, anche loro, sulla via di Dallas e delle telenovele, mentre i mariti riscoprono a Drive In i piaceri della carne con le signorine grandi forme. I signori grandi firme cedono alle lusinghe del Berlusca, e da Mediaset passano tutti, i mostri sacri del giornalismo e quelli della tivù, più qualche mostro tout court. Silvio li seduce con abili lusinghe (a Raffaella Carrà spedì un camion intero di fiori) oppure li conquista nel modo più semplice e più efficace: riempiendoli di soldi. Poi c’è chi si ferma finché morte non lo separi dal Biscione, tipo Mike Bongiorno, e chi invece torna all’ovile Rai, come Pippo Baudo o appunto Raffaella.
Ma la battaglia è vinta e, come sempre succede, la vittoria è certificata dal fatto che il vinto, la tivù di Stato, inizia a comportarsi come il vincitore. Mamma Rai si berlusconizza perché si berlusconizza tutta l’Italia, lo Zeitgeist è quello, inutile resistere. È un’orgia di Telegatti, lustrini, ruote della fortuna, Maurizio Costanzo show, i primi tiggì di Emilio Fede, quest’ultimo davvero tuttora il meglio prodotto dall’entertainment italiano negli ultimi trent’anni, la commedia dell’arte che diventa dadaista, e poi tette, jingle, televendite, Striscia la notizia, Casa Vianello, Il pranzo è servito: la rivoluzione in tinello, più modesta ma più invasiva di quella liberale che poi, sinceramente, non si è tanto vista.
La rivoluzione vera arriverà con la discesa in campo di Berlusconi in politica nel 1994, supportata calorosamente dai volti del Biscione, da Mike Bongiorno a Raimondo Vianello, da Gerry Scotti a Iva Zanicchi, passando per l’allora ragazzetta Ambra a Non è la Rai. Vinte le elezioni il presidente Mediaset diventa Fedele Confalonieri, mentre l’ad è il primogenito Piersilvio. Intanto il mondo cambia e la televisione, compresa quella berlusconiana, cambia con lui. Il Grande fratello, in fin dei conti, è l’antesignano del grande bordello che ci ha afflitti negli ultimi anni, un anticipo del populismo triumphans: anche in tivù, ormai, uno vale uno, le competenze non contano, basta esserci, alla gente piacciono i loro simili senz’arte ma purtroppo con la parte. È tutto un trionfo dell’uomo qualunque, nelle storie altamente lacrimogene di C’è posta per te che nell’unica scuola che garantisca un posto di lavoro in Italia, quella di Amici: e forse Maria De Filippi è davvero, oggi, la vera icona della tivù commerciale, che del resto differisce assai poco da quella pubblica. Anche i talk politici urlati e sceneggiati certificano lo stesso sbraco intellettuale, e politicamente non neutrale. Ma questa è cronaca.
Berlusconi potrà piacere o meno, essere valutato da ogni punto di vista, politico, processuale, morale, sportivo, economico, psicanalitico e chi più ne ha più ne giudichi. Ma resta il padre della Telepatria. Alla base di tutto quel che è successo dopo c’è la sua reinvenzione della tivù, la svolta catodica dell’Italia, l’idea che tutto si giochi lì, dentro quello schermo, e che la realtà sia fiction (e viceversa). Tutto questo è già Storia. Purtroppo, aggiungerà magari qualcuno.. —
Michele Serra per Rep
C’era molta moquette. Si entrò negli anni Ottanta camminando su ettari di moquette. In via Rovani, sede della Fininvest, era ovunque. L’Italia delle strade, dei cortei, delle fabbriche stava mutando pelle, il nuovo aziendalismo (che dieci anni dopo sarebbe diventato attore politico diretto, grazie al partito-azienda) prometteva agli italiani di camminare sul morbido, più soldi e meno pensieri, meno ansie pubbliche e più affari privati, meno impegno e più divertimento. Cominciava il cosiddetto riflusso: eufemismo quasi malinconico per indicare quella che invece si sarebbe rivelata una rivoluzione in piena regola.
Silvio Berlusconi era gentilissimo. Giovane, capelli lunghetti sulla nuca e calvizie solo incipiente, aveva un sorriso per tutti, anche per l’ultimo arrivato tra i cronisti, che ero io. Mai visto nessuno sorridere tanto. Presentava di persona, con entusiasmo quasi infantile, Dallas, le telenovelas e i palinsesti del suo impero nascente, prima Canale 5 (ex Telemilano), poi Italia 1 (nell’82) e Rete Quattro (nell’ 84). Le vecchie leggi sul monopolio pubblico delle telecomunicazioni furono violate con caparbietà, una dopo l’altra, dal nuovo monopolio privato delle telecomunicazioni, che nel frattempo aveva cancellato dal mercato ogni possibile concorrenza, o fagocitandola o distruggendola per il grande squilibriodella potenza di fuoco.
Era il preludio perfetto dell’epoca che bussava alle porte, quella delle liberalizzazioni, del liberismo, della Casa della Libertà, con la parola libertà, e derivati, usata molto impropriamente come sinonimo di deregulation, e se vogliamo dirla come al bar, di “comodi propri”. Il privato riuscì a mettere nell’angolo il pubblico per almeno tre decenni, e lo fece anche in virtùdi un fortissimo sostegno politico e mediatico, la cui sintesi è che il privato è moderno e dinamico, il pubblico è decrepito e soffocante.
Era come voler fermare il mare con un rastrello, nuove tecnologie e nuovi mercati schiantavano paletti piantati trent’anni prima, come il monopolio di Stato e il divieto di trasmettere su scala nazionale. Il vecchio paternalismo di Stato stava per essere deposto dal nuovo paternalismo pubblicitario/mercantile, consuma e non farti troppe domande, vedrai che ti troverai bene, ce n’è per tutti.
Di lui si sapeva che aveva fatto molti soldi con l’edilizia, e molto in fretta. Così in fretta che negli anni a venire la sua fortuna sarà oggetto di inchieste giudiziarie e giornalistiche, nessuna delle quali potrà mai toccare la sintesi (poetica, ma efficacissima) della celebre scena del Caimano: una valigia piena di quattrini che piove dal cielo sopra la scrivania di Berlusconi. Ma a via Rovani c’era la moquette, e il tonfo della valigia sarebbe stato ottimamente attutito. Il nome di Dell’Utri ancora non circolava, si era tutti lì per JR e Sue Ellen, si ridacchiava, tra giornalisti, della pacchianeria complessiva, a noi giovani milanesi da cinema d’essai e da Piccolo Teatro la televisione di Berlusconi pareva un’estensione di certe soirées teatrali al Manzoni o al San Babila, con i cumenda in sciarpa bianca che regalano i fiori alla soubrette.
Ci avessero detto, nel 1980, che quelle adunate sulla moquette (noi giornalisti ancora vestiti molto casual, anni Settanta, “loro” tutti in uniforme aziendale, abito blu e cravatta, un esercito in marcia) erano il preludio di una nuova egemonia culturale, di nuove gerarchie economiche, infine di una vera e propria presa del potere, non ci avremmo mai creduto. Non avevamo capito niente (io, almeno) ma non era facile, di fronte a un cordiale venditore di serieamericane che arrivavano da noi con un paio d’anni di ritardo, come se le videocassette avessero viaggiato con il bastimento, fiutare un così drastico cambio d’epoca.
Lui invece lo aveva fiutato. Il denaro come arma finale, la pubblicità come linguaggio onnicomprensivo (vincente anche in politica), il cittadino che diventa in forma definitiva (ideologica, ma senza dirlo, senza saperlo) consumatore e cliente. “Il pubblico ragiona come un bambino di otto anni”, diceva alle convention dei venditori Publitalia, ed è la sua frase definitiva. Sta a Berlusconi come “eppur si muove” a Galileo. Dentro c’è tutto, compreso il suo successivo trionfo politico. Anche il potere è un prodotto, basta saperlo vendere.
A proposito di denaro come arma finale, era frequente che Berlusconi chiedesse (o facesse chiedere) ai giornalisti che scrivevano di lui, e soprattutto a quelli che ne scrivevano male, “venga a lavorare con noi, si troverà bene”. Il metodo, apparentemente rozzo, si rivelò invece efficacissimo in molti ambiti, e con molti interlocutori. Dalle vecchie star della Rai arruolate triplicando il compenso (Mike Bongiorno diceva: decuplicandolo) al Milan stellare assemblato facendo saltare qualunque calmiere nell’acquisto e negli ingaggi dei giocatori. Rilanciare, rilanciare sempre, ce n’è per tutti. Come nel Paese dei Balocchi.
L’uomo di via Rovani fece molta strada ed ebbe molta fortuna. Diventò per qualche anno il capo degli italiani, attività che svolse piuttosto svogliatamente, quasi come un titolo onorifico, badando soprattutto a sistemare le leggi in modo che nongli impicciassero troppo. La politica non era il suo mestiere eppure è riuscito a vincere tre o quattro elezioni, circostanza che illustra soprattutto la debolezza dei suoi oppositori. Il problema è che io resto convinto, quarant’anni dopo, che il cinema d’essai fosse molto meglio di Dallas, e a ben vedere, a dispetto dei luoghi comuni sulla Potëmkin: che fosse molto più divertente di Dallas. Ma evidentemente sono riuscito a spiegarlo solo a me stesso.
Aldo Grasso per il Corriere«Dava suggerimenti agli autori, ai registi, agli attori; creava i format, i titoli dei programma, gli slogan, le promozioni», ha raccontato Fedele Confalonieri. «Avesse avuto un accenno di tette avrebbe fatto anche l’annunciatrice», ha scritto Enzo Biagi. «Troppi sono oggi i fattori ansiogeni, la mia sarà una tv ottimista», ha ricordato Camilla Cederna citando Berlusconi.
Gli esordi
L’antenata di Canale 5 si chiama Telemilano, emittente televisiva via cavo fondata da Giacomo Properzj e Alceo Moretti a Milano 2, città satellite costruita da Silvio Berlusconi. L’emittente era stata fondata nel settembre del 1974 a pochi mesi di distanza dalla sentenza su Telebiella che liberalizzava le trasmissioni televisive via cavo (Telemilanocavo).
Al cavo erano collegate circa 5.000 utenze che corrispondevano a 20.000 telespettatori. Nonostante l’esordio in sordina, nel giro di pochi anni Berlusconi rivoluzionerà l’assetto televisivo del Paese, dando vita, contemporaneamente ad altri editori come Rizzoli, Rusconi e Mondadori, al modello della tv commerciale.
La via dell’etere
Nel 1978 Berlusconi decide di acquistare il canale 58 di Tv One e di abbandonare il cavo, optando per l’etere e cambiando la denominazione di Telemilano in Telemilano Canale 58, (numero scelto dal canale Uhf utilizzato per trasmettere). Due anni dopo nasce Canale 5, una syndication televisiva che raggruppa in totale dieci emittenti locali, 5 al Nord (Telemilano 58, Teletorino, TeleEmiliaromagna, Videoveneto e A&G Television) e 5 al Sud, che formano il circuito Rete 10. A rivedere oggi le immagini dell’inaugurazione di Telemilano (1978) con Berlusconi che mette in discussione il know how dei tecnici Rai («lavorano in modo diverso da come lavoriamo noi») e si augura di avere presto la diretta, o a rivedere la lunga festa di «Natale a Telemilano» con Mike Bongiorno e il piccolo Michelino, insomma a rivedere le immagini di quel memorabile esordio si prova una grande tenerezza.
Tv di famiglia
Era una tv di famiglia (molto più della Rai), era una tv dai dichiarati gusti provinciali, era una tv di semplici fatta per i più semplici. Una grande intuizione, bisogna ammetterlo. Lo slogan recitava: «Corri a casa in tutta fretta, c’è un Biscione che ti aspetta».
Il primo avvenimento sportivo di grande attrattiva è il Mundialito (30 dicembre 1980-10 gennaio 1981), torneo calcistico disputato in Uruguay per festeggiare i 50 anni dalla prima edizione dei Campionati mondiali di calcio. La Fininvest si assicura i diritti televisivi europei e, dopo molte pressioni, li cede alla Rai in cambio dell’assenso a poter trasmettere le partite del torneo, salvo quelle della Nazionale e la finale.
Ci si chiede oggi come la Rai potesse aver paura dei primi passi di Canale 5 (Biagio Agnes avrebbe voluto spazzarla via con la presunzione della «più importante industria culturale»), se non per un timore inconscio. Lo stesso timore della sinistra che da subito demonizza la tv di Berlusconi, spalleggiata dai registi più importanti, offesi perché i loro film erano interrotti dalla pubblicità. Quel Mike che macina chilometri per presentare il suo GiroMike (poco più di una festa di paese ripresa dalle telecamere, grazie ai cantanti ospiti), quel Mike che presenta I sogni nel cassetto sta cambiando il modo di fare tv.
I contratti
Mike ricordava così il momento della proposta: «Quando Berlusconi mi disse che dovevo lavorare solo per lui io gli chiesi quale compenso mi avrebbe dato. Allora in Rai guadagnavo pochino: due milioni a puntata per un massimo di 26 puntate all’anno, non una di più perché sennò dicevano che erano obbligati ad assumermi. Insomma, chiesi a Berlusconi quanto mi offrisse e quello fece un paio di conti e poi disse: “Seicento milioni”. E io: “Per quanti anni?”. E lui: “Ma per un anno, benedetto uomo! Per un anno! Con quello che pagano gli sponsor, seicento milioni è una cifra normale!”. Non credevo alle mie orecchie».
Craxi e il decreto
Ma non tutto fila liscio. Il 16 ottobre 1984, alle 9 di mattina, agenti della Guardia di finanza e funzionari della Escopost si presentano a Torino, Roma e Pescara nelle sedi delle emittenti locali che ritrasmettevano, in interconnessione, i programmi delle reti Fininvest. Sequestrano le videocassette che contengono le registrazioni dei programmi e sigillano i «ponti radio» che consentivano alle tv di Berlusconi di riversarli in tutta Italia violando di fatto il monopolio Rai sulle trasmissioni nazionali che era stato ribadito dalla Corte costituzionale. Di colpo, milioni di «nuovi» telespettatori rimangono orfani di Dallas, di Dinasty, dei cartoni animati dei Puffi e di Maurizio Costanzo. A risolvere la questione ci penserà Bettino Craxi, capo del governo in carica, che emanerà il famoso «decreto Berlusconi» per liberalizzare le trasmissioni.
Serie in quantità
La rivoluzione copernicana dei palinsesti non avviene, dunque, solo con la riforma Rai del 1975 ma anche con l’avvento dei network nel corso dei primi anni Ottanta. Col ribaltamento delle finalità del broadcasting – non più «servizio pubblico» venato di intenti didascalici, ma impresa tesa al profitto, alla massimizzazione degli ascolti e alla raccolta di pubblicità – cambia radicalmente il ruolo della programmazione.
Americanizzazione
Quando si parla di «americanizzazione» della tv italiana negli anni Ottanta bisogna subito precisare che essa riguarda molto più la logica che informa i palinsesti di quanto non tocchi la natura stessa del prodotto. Arrivano serie in quantità, ma le vere novità riguardano la loro collocazione in un palinsesto che si caratterizza, fin da subito, anche come produzione autonoma, nel solco della più consolidata tradizione. I palinsesti dei network commerciali, superata la fase pionieristica, sono un ibrido di serie americane e di spirito nazional-popolare. Spingono verso l’estensione delle ore di programmazione e il rafforzamento del flusso televisivo, introducono massicciamente la logica orizzontale della «striscia» nel day-time, collocando il medesimo programma (tipicamente, un prodotto seriale) alla stessa ora durante tutta la settimana. Nel giro di pochi anni il panorama televisivo nazionale risulta radicalmente mutato.
La carta vincente
Pochi ricordano che Dallas è stata la carta vincente di Berlusconi per lanciare Canale 5. Le cose andarono così: la Rai aveva acquistato i primi episodi del serial, trasmettendoli su Raiuno nel 1981 fra molte perplessità e diffidenze (tredici puntate della serie, non in ordine ma «selezionate tra le migliori»: un grande successo americano, già in ritardo, viene trasmesso quasi controvoglia). Con incredibile tempismo, Berlusconi acquista personalmente i diritti di trasmissione al Mifed di Milano: «Il vero Dallas lo faremo conoscere noi al pubblico italiano, quello che si è visto in Rai è solo un piccolo assaggio poco significativo», è la promessa di Canale 5. Con Dallas, Berlusconi inaugura la contro-programmazione: la serie viene infatti mandata in onda il martedì, per colpire la giornata più debole della Rai e il giovedì, raddoppiando l’appuntamento settimanale, per fidelizzare l’ascolto. Davvero un colpo vincente. Alla Rai, per consolarsi cominciano a chiamare Berlusconi «Geiar».
Deregulation
La deregulation dell’etere genera prima un universo radiotelevisivo locale (e talvolta strapaesano) e poi, accanto a quest’ultimo, un «modernismo conservatore», (da Premiatissima con Johnny Dorelli a Il pranzo è servito con Corrado, da Da llas al vecchio catalogo della Titanus) che trova il suo più felice compimento nell’apertura di un nuovo, ampio mercato pubblicitario.
Il merito più grande di Berlusconi è stato quello di aver dato un serio impulso alle piccole e medie industrie che prima non potevano accedere alla Rai per reclamizzare i loro prodotti. Tra il 1980 e il 1981 gli introiti pubblicitari di Publitalia ’80 passano da 13 a 75 miliardi di lire, consacrando la raggiunta maturità della pubblicità nazionale tv alternativa ai canali Rai. In quel momento nel magazzino di Rete Italia ci sono ormai 6.000 ore di cinema (in gran parte film acquistati dai tre network americani Abc, Cbs e Nbc). Poi è storia nota.
Intrattenimento
L’impatto che Berlusconi ha avuto sul sistema televisivo italiano è servito non poco a imprimergli un nuovo corso. Innanzitutto, ha spezzato il monopolio della Rai sul mercato nazionale, rompendo quelle resistenze politiche che in altri Paesi europei erano già state abbattute. Questa rottura ha avuto esiti sia ideologici che commerciali, ampliando il campo dei contenuti e degli inserzionisti. Nel momento in cui la Rai sta finendo la sua carica pedagogizzante (in senso lato: all’origine, tutte le tv hanno rappresentato una fonte di istruzione), Berlusconi rimette con decisione la tv al centro del villaggio, non più con scopi formativi ma puntando sull’intrattenimento, con programmi che si imprimono nell’immaginario, e sull’estensione delle ore di programmazione.
Per imporsi, usa la strategia del doppio binario: all’idea di una tv alternativa e radicalmente nuova, che gli serviva come ideale «testa di ponte» per andare a competere direttamente con il servizio pubblico, affianca subito il bisogno di stabilizzare il sistema con un’offerta più tradizionale in grado però di occupare la più vasta gamma possibile di proposte per impedire l’ingresso di altri soggetti. Mette a punto una formidabile macchina di raccolta pubblicitaria con una politica aggressiva di vendite e di promozioni.
Infine, per neutralizzare la concorrenza privata, si serve di una spiccata dose di spregiudicatezza che molto ha fatto discutere e che ha contribuito a forgiare l’immagine del «cavaliere nero». Ma l’omaggio più significativo alla tv di Berlusconi è stato fatto da Angelo Guglielmi: «La nascita dei network privati è stato un fatto positivo. Ha significato l’apertura di un sistema che prima era chiuso, bloccato, dal punto di vista industriale e da quello culturale. Di fronte a questo fenomeno, la sinistra ha reagito in modo sbagliato. Ha continuato a vedere nella tv uno strumento degradato, pericoloso, da sottoporre a vigilanza continua. Da tenere chiuso nel suo recinto, con i gendarmi intorno».
Maria Volpe per il Corriere
Tante le trasmissioni rimaste nell’immaginario collettivo. Forse la più rivoluzionaria, simbolo degli anni Ottanta, è stata «Drive in», il format nato da un’idea di Antonio Ricci. Ha rotto gli schemi del varietà con il suo linguaggio provocatorio, l’abolizione del presentatore classico, la satira pungente. Figure chiave: Gianfranco D’Angelo, Ezio Greggio, Enrico Beruschi. Senza dimenticare le procaci ragazze Carmen Russo, Lory Del Santo, Tinì Cansino che hanno fatto girare la testa ai telespettatori.
Sempre di Antonio Ricci è un altro programma storico, in onda ancora oggi: «Striscia la notizia». Nasce dunque nel 1988 il «notiziario» più divertente della tv, tra scoop e svelamenti di imbrogli. Il via con la coppia Greggio -D’Angelo, seguita da decine di conduttori, (Greggio-Iacchetti i più famosi) affiancati dalle veline, un tempo vere star come Elisabetta Canalis e Maddalena Corvaglia.
Dalle coppie a un trio – Marco Santin, Carlo Taranto e Giorgio Gherarducci —, ovvero la Gialappa’s, che ha dato vita a « Mai dire Gol» rivoluzionando il modo di parlare di calcio in tv, colorando tutto di ironia. Hanno lanciato tanti comici che hanno dato vita a personaggi irresistibili come Caccamo di Teo Teocoli e Alex Drastico di Antonio Albanese.
Vere colonne della tv commerciale sono stati Raimondo Vianello e Sandra Mondaini. «Casa Vianello» , l a longeva sitcom, (1988-2007), ha tenuto compagnia a milioni di telespettatori. Sandra e Raimondo, coppia nella vita e nell’arte, hanno messo in scena la loro vita reale, fatta di battibecchi e aneddoti, nella quale tante coppie normali si sono riviste.
Più trasgressive le coppie della soap opera americana «Dallas», su Canale 5 dal 1981 («scippata» alla Rai): è il primo grande colpaccio di Berlusconi. Il pubblico ama le vicende del cattivo J.R. Ewing e gli ascolti sono altissimi. Se su «Dallas» sono tutti d’accordo, molto meno lo sono su «Non è la Rai», show di «lolite» molto controverso . Fu la prima diretta di un programma di intrattenimento in Mediaset, ideato da Gianni Boncompagni e Irene Ghergo. Un vero fenomeno di costume degli anni Novanta che lanciò Ambra Angiolini.
Una trasmissione amatissima è stata quella per ragazzi «Bim Bum Bam» che ha fatto conoscere al grande pubblico Paolo Bonolis, come pure «DeeJay Television» ha fatto conoscere Gerry Scotti, che diventerà poi il re del quiz. Impossibile non ricordare i grandissimi – Mike il primo a credere nella tv commerciale; Costanzo giornalista di primo piano; Corrado professionista d’altri tempi – che con i loro programmi hanno dato grande respiro ai palinsesti della neonata tv commerciale.