Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  giugno 13 Martedì calendario

In morte di Berlusconi. Le donne

Flavia Perina per StaCon il senno di poi toccherà dirlo: il donnismo di Silvio Berlusconi non resterà nella vicenda italiana solo come una infinita serie di gag, spesso urticanti, ma figurerà a buon diritto come la prima crepa nel mono-generismo maschile della nostra politica. Se in Italia, all’improvviso, le donne sono diventate intervistabili e indispensabili allo show del palazzo, se le destre e le sinistre “di prima” hanno dovuto giocoforza prendere i loro angeli del ciclostile e dei circoli, le loro austere professoresse di greco, le loro colte presentatrici di dibattiti, le loro attrici e giornaliste, e scaraventarle nelle liste elettorali o comunque in prima linea, è stato anche per via di quella crepa. Attraverso il pertugio scivolarono, all’inizio, illustri sconosciute che forse avrebbero preferito una carriera in tv, personale rastrellato – esattamente come successe ai dirigenti e candidati maschi – negli uffici dell’Azienda Madre e talvolta nelle sue sale d’attesa, ma poi il pertugio si fece falla, e poi voragine, e andando avanti la diga crollò trascinando ogni roccaforte, comprese quelle della sinistra. Sono stata anche io in piazza con quelle di «Se Non Ora Quando» e ricordo bene lo stupore delle organizzatrici davanti ai numeri enormi di una giornata di mobilitazione fai-da-te: Silvio Berlusconi aveva risvegliato tutto d’un colpo il femminismo, consegnando una seconda vita a un movimento che sonnecchiava nelle retrovie dell’Udi e delle discussioni senza fine sulla Carta delle Donne, lo Statuto delle Donne, il Manifesto delle Donne.
Il donnismo di Silvio Berlusconi ha regalato all’Italia spettacoli formidabili e imposto alla politica atti di sottomissione che sarà difficile dimenticare. Il surreale voto parlamentare a sostegno della tesi «pensavo che Ruby fosse la nipote di Mubarak». La manifestazione milanese in difesa del Bunga Bunga con le mutande appese e le t-shirt “siamo tutti puttane”. La barzelletta su Rosy Bindi con mezza bestemmia finale. L’omaggio della federazione milanese con la violoncellista in bikini che esce da un enorme uovo di Pasqua. L’avessimo visto in un film, persino in un film di Steno o in un cinepanettone, avremmo detto: dài, è troppo, è esagerato. Da noi è successo davvero. Eravamo allora forse il Paese più moralista d’Europa, l’Italia che pochi anni prima infilava i mutandoni alle Kessler e condannava al rogo Ultimo Tango. Venivamo da una Repubblica di leader asessuati, che aveva appena visto con assoluto scandalo il primo bacio politico della sua storia tra Achille Occhetto e la moglie sulla spiaggia di Capalbio. E allora, cosa? Perché il Berlusconi barzellettiere macho, utilizzatore finale, battutista sessista, funzionò così tanto, fece scuola?
Sta di fatto che per vent’anni, a causa di quelle performance, la questione delle donne – come trattarle, come parlarne, come promuoverle, nominarle, candidarle, sceglierle – è diventata centrale in un Paese che non se ne era mai occupato. E pure lì Berlusconi bisognava non solo contestarlo ma anche inseguirlo perché le donne le metteva sugli scudi: nei talk show, in Parlamento, nei ministeri. E alcune di quelle donne si prendevano vecchie battaglie della sinistra e le portavano a compimento, le quote rosa di Stefania Prestigiacomo, la legge contro lo stalking di Mara Carfagna, e veniva il fiatone a stargli dietro, perché dopo aver crocifisso il maschilismo berlusconiano bisognava pure dar prova di esser immuni da quel tipo di peccato. Non era facile. I giornali e i social si erano messi a contare le donne nelle sfilate delle consultazioni al Quirinale, sui palchi delle campagne elettorali, nei panel dei convegni. Le scivolate si pagavano care. Il povero Stefano Bonaccini fu trafitto dalle accuse quando, in un dibattito tutti-uomini a Sulmona, gli organizzatori mandarono sul palco cinque belle ragazze per fare ombra ai relatori tenendo aperti grandi ombrelli neri sulle loro teste. Apriti cielo, il giorno dopo fu la Lega di Lucia Borgonzoni a impugnare la bandiera del femminismo contro la «vergognosa immagine». Il mondo alla rovescia.
«Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà» dice la più nostalgica delle canzoni di Francesco Guccini. Ecco, l’Italia è approdata alla sua nuova stagione femminista – quella della premier donna e della capa dell’opposizione donna – in gran parte per contrarietà all’anziano leader che chiede «quante volte viene» all’impiegata della Green Power, dice «posso palparti?» all’assessora del Trentino, sussurra a Nicholas Sarkozy «ti ho dato io la tua donna», suscita proteste diplomatiche col racconto delle sue doti da playboy usate per chiudere accordi con la premier finlandese, promette pullman di escort ai calciatori, fa piangere una cronista russa mimando una sventagliata di mitra, ironizza sulle donne del Pd chiamandole «settore menopausa». Tenergli botta ha imposto un aggiornamento generale del linguaggio e della sensibilità che, forse, senza Berlusconi non ci sarebbe stato perché non è che il resto della politica italiana fosse immune dal maschilismo o dallo spirito da caserma: solo, lo nascondeva meglio, evitando di esibirlo nei comizi o nelle interviste.
Vista col senno di poi, con la distanza di questo 2023 che ha trasformato il donnismo del Cavaliere addirittura in un musical inglese – il genere atemporale per eccellenza – il format «Berlusconi fa arrabbiare donne» è all’origine anche di un secondo format di successo, «donne fanno arrabbiare Berlusconi». Rosy Bindi, Ilda Boccassini, Angela Merkel, Giulia Bongiorno, e naturalmente la ex moglie Veronica Lario, ne sono state le principali interpreti: una vera dannazione per il Fondatore, le streghe che gli hanno tenuto testa rifiutando ogni accomodamento. Sono gli scontri con queste signore quelli che Berlusconi ha pagato con le maggiori ammaccature e sofferenze. Bindi trasformò il «più bella che intelligente» del Cavaliere prima in una replica fulminante («Non sono una donna a sua disposizione») e poi in una campagna di successo che generò nel gennaio 2010 colossali manifestazioni di piazza. Bongiorno, da presidente della Commissione Giustizia, seppellì con abilità e tenacia la legge blocca-processi e le norme bavaglio sulle intercettazioni faticosamente acchittate da Niccolò Ghedini a misura del suo capo. Boccassini, Ilda la Rossa, sbeffeggiata nelle gare di burlesque dalle ragazze del Presidente, si ritrovò sul banco della pubblica accusa proprio nell’inchiesta sulla minorenne di Arcore, il cosiddetto Rubygate, con la sua scia processuale che fino all’ultimo ha minacciato di decadenza il Cavaliere (a causa di una legge firmata da un’altra donna, Paola Severino).
E ancora Angela Merkel, la «unfuckable fat ass» che Berlusconi lasciò impalata ad aspettarlo sul ponte sul Reno mentre lui telefonava passeggiando sui prati e si vendicò pietrificandolo con la sfiducia europea nella crisi dello spread. E ovviamente Veronica Lario, la moglie ribelle che scatenò lo scandalo delle Olgettine con una pubblica invettiva contro le «veline senza pudore» e le «vergini che si offrono al drago». Altro che opposizione, altro che sinistra, altro che grillini o Popolo Viola. Il grande spettacolo dei “No” a Berlusconi lo hanno inscenato in larga parte singole signore, fino all’ultimo tratto di storia, la recentissima storia di Giorgia Meloni che risponde «non sono ricattabile» al lungo elenco di contumelie scritte – supponente, prepotente, arrogante – esibito dal Cavaliere sul banco del Senato. Ma pure questa è storia già antica, musica di un’altra era, l’ultimo guizzo polemico del patriarca che va ricordato per dovere di cronaca ma che adesso, ora Berlusconi non c’è più, mette quasi tristezza.
Sì, mette tristezza l’idea del vecchio Silvio che nei suoi ultimi giorni, finalmente uguale a ogni anziano italiano, a ogni capofamiglia significativo, si ritrova circondato dalle sue ultime donne, l’amatissima figlia Marina, l’algida compagna Marta Fascina, non più per scherzare, trasmettere ordini all’azienda o al partito, concordare menù per pranzi da esibire sui rotocalchi di famiglia, ma per proteggersi dalla curiosità del mondo che vuole sapere tutto di ogni suo respiro e che già calcola come regolarsi quando gli occhi del capo si chiuderanno sulla vita. Fino all’ultimo le donne, alcune donne, sono state custodi dei segreti del capostipite: una malattia gravissima e indicibile rimasta nascosta per chissà quanto tempo, le disposizioni per il dopo, la chemioterapia, la lotta per restare in piedi e figurare “sempre lo stesso” anche mentre la sabbia della clessidra andava esaurendosi insieme alla speranza ostinata di farcela pure questa volta. La storia di Berlusconi, come è stato scritto da molti, è una grande vicenda privata che ha attraversato la vita del Paese mantenendo sempre un imprinting personale. E nei suoi ultimi giorni è diventata talmente personale da uscire dalla sua eccezionalità per farsi simile alla storia di ognuno di noi. Un ospedale. Un ricovero d’urgenza e l’ottimismo di maniera che sempre si ostenta in queste circostanze. Le porte chiuse a tutti. La primogenita che si fa carico delle incombenze pratiche. Una compagna che dorme su un letto di cortesia sorvegliando la notte che può essere l’ultima notte.
Il Presidente latin lover se ne va, e di sicuro non ne avremo mai più un altro così. Anche perché, dall’epoca della sua gloria, il mondo è andato molto avanti, e mentre noi eravamo inchiodati alle sue battute si sono fatti avanti altri modelli di presidenti e capi maschiocentrici e ben peggiori scandali di femmine hanno attraversato la politica mondiale. Più crudeli e tossici di quelli che abbiamo visto noi, più cattivi, che ci hanno aiutato a ridimensionare le gaffe del Cavaliere, le sue barzellette, le sue domande urticanti alle ragazze, a manifestazioni di gallismo quasi innocue. Donald Trump, soprattutto, quello che si vantava del suo stile di seduzione dicendo: le prendo per la passera. Venti accuse di molestie sessuali all’attivo. Una carriera politica costruita sull’imperativo “you’re fired”. Pure lui mallevadore di enormi piazze di donne arrabbiate, piazze di dimensioni hollywoodiane, e per contrasto del successo di formidabili oppositrici come Alexandria Ocasio-Cortez. Oppure Jair Bolsonaro, che in tv rivendica la sacrosanta necessità di pagare meno le donne («Non assumerei una donna con lo stesso stipendio di un uomo») e ironizza sulla nascita della quinta figlia femmina dopo quattro maschi («Ho avuto un momento di debolezza»). E ancora lo spagnolo Santiago Abascal, che trasforma l’anti-femminismo in caposaldo del programma di Vox insieme alla richiesta di abolire le leggi contro la violenza di genere, giudicate strumento delle «femministe suprematiste».
Pure loro hanno avuto e hanno le loro corti femminili, Melania, Ivanka e tutte le altre, e nelle questioni di donne si sono impigliati fino al collo, denunciati, ricattati, inseguiti da ex amanti fisse o occasionali e da inquisitori occhiuti sulle storie di soldi e di letto. Ma l’atmosfera intorno a quelle corti e a quegli scandali è un’oscura nebbia da Trono di Spade, tinta di sopraffazione e abuso: noi, guardando indietro e col senno di poi, ci siamo scandalizzati molto ma in fondo era Bagaglino, pochade, Trio Lescano: saran belli gli occhi neri, saran belli gli occhi blù, ma le gambe, ma le gambe, a noi piacciono di più. E se ci sono stati momenti biechi bisogna anche ammettere che le barzellette di Berlusconi erano pur sempre barzellette, e al contrario di altri non ha mai giustificato i maltrattamenti o la rapacità contro le donne. Le donne sono state, piuttosto, la sua grande debolezza e in qualche modo la sua croce, pagata a caro prezzo in forma di vitalizi e liquidazioni milionarie, appartamenti, ville, parcelle di avvocati, in una girandola di assegni che ha fatto la fortuna di un numero enorme di furbissime e scafatissime oltreché di migliaia di ore di giornalismo televisivo e scritto. E c’è da immaginare che anche l’atto successivo ai funerali di popolo e al lutto collettivo sarà una sfida tutta in rosa, con protagonista assoluta la parlamentare che ha tenuto per anni le chiavi del partito, Licia Ronzulli. L’ultima star di Arcore, l’ultima vittima dei dietrofront politici e personali del Cavaliere. Defenestrata in extremis. Obbediente e rassegnata finché il Cavaliere era vivo. Ma dopo?
Il dopo è oggi, e ancora non ci capacitiamo che l’Italia vintage del Presidente donnista e donnaiolo abbia prodotto questa Italia qui, dove le donne comandano il governo e pure l’opposizione, guidano il Csm, sono state a un passo da conquistare la presidenza della Repubblica, e non riusciamo a spiegarci come mai il ventennio del nemico numero uno delle piazze femministe, con le sue galanterie d’antan e i suoi scherzi pesanti, abbia prodotto un’Italia che sembra la Svezia o la Finlandia, dove nessuno osa più mettere l’articolo al femminile davanti ai nomi di Meloni, Schlein e tutte le altre. Ne sono ancora stupefatti pure gli uomini Alfa che per qualche minuto si sono immaginati eredi di Silvio, i Matteo Salvini e i Giuseppe Conte, improvvisamente diventati fuori moda nelle loro pose oratorie a petto in fuori e con le loro ostentazioni di leadership forti. Diavolo di un Silvio, si diranno come diciamo tutti. «Dopo di lui il diluvio», abbiamo pensato per tanto tempo, ma il diluvio è arrivato poco prima che lui se ne andasse, nel modo più inaspettato e assolutamente sorprendente: donne Alfa che si sono prese il potere nel Paese considerato, per anni, il più maschilista d’Europa. —

FRANCESCO MERLO PER REPMarina Berlusconi e Veronica Lario, una figlia per amica e una moglie per nemica. La morte è una grande purificatrice, ma Marina, l’erede, non si accontenterà dell’Italia del dolce necrologio. Vuole quello che non otterrà: il famoso cambio d’epoca, e cioè che «la verità storica cominci finalmente ad essere letta senza le lenti deformanti del pregiudizio e dell’odio». Tanto più che al padre, di cui è stata la più devota degli ammiratori, era già capitato, negli ultimi dieci anni, di sembrare moribondo e di misurare da vivo il rispetto e la commozione del giornalismo dei coccodrilli.
Anche Veronica non si accontenterà dei pensieri puliti del giorno del lutto. Sono suoi tre dei cinque figli, Barbara, Eleonora e Luigi, e 10 dei nipoti che in tutto, compresa la pronipote, sono 16. E nelle foto di famiglia si possono riconoscere due mondi e due stili che, anche se non si fronteggiano, anche se si mescolano, non si somigliano tra loro se non nel fatto che ciascuno somiglia a lui, al nonno morto. Alcuni diventeranno donne e uomini adesso, accanto a una bara, nel funerale-manicomio che sarà ovviamente berlusconiano e dove tutti esigeranno ottime poltrone accanto alla famiglia, ma sempre con l’approvazione o almeno con la comprensione di Marina, che sino a ieri era la First Daughter e ora è laFirst e basta, con sempre accanto il fratello amatissimo, Pier Silvio, che è per Marina quel che Paolina era per Napoleone. E Veronica? Dove sarà Veronica? Da genitori e nonni separati, Veronica e Silvio li hanno amati davvero: «Lui è fatto così, è impossibile fargli cambiare idea, ma è un buon padre, adora i suoi ragazzi». E si erano tanto amati anche tra loro, quando lui mandava 100 rose rosse alla sola donna che riuscì – «una tra mille ce la fa» canta Morandi – ad elevarsi al rango di First Lady : «È la compagna migliore che un uomo potrebbe desiderare: ha una grande forza di carattere, è affabile e discreta».
Marina e Veronica, dunque. La figlia padrona e la ex moglie sono le sole che, nel mondo più maschilista d’Italia, avevano già rotto il soffitto di cristallo quando la metafora non voleva ancora dire nulla. Di tutte quelle altre che, solo messe insieme, divennero la sua cintura esplosiva, Berlusconi, dal momento in cui gli hanno chiuso gli occhi, si è portato via i nomi, i visi, le forme, lasciando dietro di sé la lunga scia di un “profumo di donna” che, come un odore di lavanda, ne riempirà per sempre la memoria. Anche Marta Fascina, l’ultima badante sessuale, l’ultima lupa che chissà cosa gli ha fatto firmare, padrona del partito, padrona della vita, padrona di tutto, come nella canzone di De André, «per sentirsi dire micio, bello e bamboccione». Si stagliano, invece, nella memoria del Paese il cipiglio, il fascino e l’intelligenza combattive dell’erede che guida la carovana e della ex moglie che da tempo non ne fa più parte e vive nella dignità del riserbo e del silenzio.
Marina, che da adulta sempre più somiglia al padre giovanetto, quello che ancora non improntava l’epoca nella politica, nella vita, nell’impresa e nelle leggende d’amore, è la primogenita alla quale sino alla fine facevano rapporto i medici dell’eccellenza italiana. Zangrillo, che sinora era stato il rimedio a tutto, il rifugio, la casa e la cura, sia la Penelope di Berlusconi e sia la sua petrosa Itaca, parlava al mondo con i comunicati, – «è affetto da infezione polmonare e leucemia mielomonocitica» fu il primo e solo a lei riferiva i dettagli più crudeli del corpo che per trent’anni era stato il corpo della politica: la fatica, gli spasimi e le crisi che sotto il mantello di porpora della retorica certificata da Marina arrivavano infine ai giornalisti che su ogni segnalazione lavoravano di fantasia.
Ebbene, potete giurarci che la figlia guardiana continuerà a difenderlo come qualsiasi padre sogna di essere difeso da una figlia. Con la tenacia e la passione che tutti le riconosciamo, Marina ha già negato che, guardandolo troppo da vicino, vede male il padre per il quale stravede. «Il desiderio che mi anima è esattamente l’opposto: quello – lo sostengo senza alcuna velleità e presunzione – di dare il miopiccolo, piccolissimo contributo perché verità e storia non camminino più su strade divergenti... E certi giudizi politici mi pare inizino a riscoprire un poco di obiettività. Mi pare che, a fronte di un desolante presente, anche molti avversari inizino a rendersi conto dei meriti di chi da più di vent’anni si impegna per cercare di migliorare le cose in questo Paese. Dopo tanti veleni, sarebbe un bel passo avanti».
E però se da vivo se lo portava sulle spalle come Enea portò Anchise, adesso che è morto, la figlia rischia di diventare più occhiuta e tenace di prima: non la custode, ma la prigione della sua memoria. È capitato spesso alle figlie femmine dei grandi italiani con qualità smodate di fare al padre questo torto d’amore. Marina potrebbe sfuggire alla trappola che, come un destino e come una banalità, l’attende? Ha, nientemeno, la Fininvest e la Mondadori e, indirizzando gli studi su papà Silvio, potrebbe avvicinarci alla verità oppure correggendo, premiando e rettificando potrebbe allontanarci dalla verità di quell’uomo che da oggi appartiene alla storia d’Italia e non più a lei e alla famiglia Berlusconi.
In fondo, se ci pensate, è la capofamiglia di una famiglia che non è esagerata, non è vero. Cinque figli e 16 nipoti non sono grandi numeri nelle dinastie del capitalismo, specie se li si confronta con i numeri della cassa di casa che sono circa quattromila milioni. Non è una famiglia arcobaleno, ed è italianissima, persino arcitaliana: la famiglia come bandiera, la famiglia come impresa, non società per azioni ma società per parenti. Ebbene, non c’è una sola grande famiglia del capitalismo italiano che, dopo i lutti, non abbia affidato i sentimenti e i risentimenti agli avvocati e alla carte giudiziarie. E si può dunque dire che la fine è nota: da un lato ci sarà una guerra tra storici d’Italia e dall’altro un guerra tra avvocati d’Italia.
Marina e Veronica dunque, con la figlia che vuol cambiare la storia che la ex moglie cambiò nel gennaio del 2007, quando scrisse aRepubblica una lettera di denunzia che era anche una lettera d’amore, persino letteratura d’amore, del raffinato genere di Milena a Kafka o di Lili Brik a Majakovskij, sicuramente amore ferito e probabilmente amore già finito, ma non del tipo “l’ira delle donne”, la collera, le Erinni, Medea, Filumena Marturano, il dramma della gelosia da ricomporre con un bacio. La signora Berlusconi, chiedendo rispetto per sé, lo chiedeva anche per lui. E fu l’ultimo e anche il più serio tentativo di salvarlo da se stesso: «Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile. Credevo avessero capito, mi sono sbagliata».
Veronica difendeva in sé stessa anche Berlusconi perché era ancora berlusconiana, anche se di un berlusconismo ingentilito. Pure Marina ingentilisce il padre. Ma è la presenza dominante mentre l’altra è l’assenza che incombe più di una presenza e non solo perché è accucciata nelle sembianze e dunque nell’educazione, nei pensieri, nelle fantasie, negli animi e, infine, negli interessi dei tanti che affollano quelle foto di famiglia. È anche la donna alla quale più che alla sinistra, allo spread, a Merkel, a Sarkozy e a tutti i diavoli rossi del mondo, Berlusconi attribuì la fine dei suoi governi, la fine di un’epoca, e proprio a partire da quella lettera aRepubblica.
Qualche notte prima, durante la cerimonia per la consegna dei Telegatti, Berlusconi aveva detto a Mara Carfagna di essere pronto a sposarla subito, se non fosse già stato sposato. «A mio marito e all’uomo pubblico – scrisse Veronica – chiedo pubbliche scuse non avendone ricevute privatamente e chiedo se debba considerarmi la metà di niente». E ancora: «Devo dare alle mie figlie l’esempio di una donna che sa tutelare la propria dignità. E voglio aiutare mio figlio a mettere il rispetto per le donne tra i suoi valori fondamentali». Cominciò così l’epopea di Noemi, di Ruby e delle Olgettine fino alle belle badanti e alla finta moglie Marta Fascina, appunto, sposata “perfinta” che nel mondo di Berlusconi voleva dire “per davvero”. Le Olgettine divennero una sigla, un toponimo, le impiegate di concetto del famigerato bunga bunga che nell’intero mondo ancora ci rappresenta come una bandiera forse più di Sophia Loren e di Monica Bellucci, e proprio perché – diciamo la verità – nella nostra memoria le Olgettine sono tutte uguali: chi ne ha vista una le ha viste e subito dimenticate tutte. Indistinguibili, dunque, perché tutte costrette dentro un burqa italiano, tutte briffate – ricordate? – dalla favorita Nicole Minetti. E Fellini lo girerebbe così il funerale: la processione sino al mausoleo di Arcore di tutte le sue donne finte e dunque vere, tutte vestite di bianco e con la stessa faccia, diecimila donne che sono tutte la stessa donna, benedette da loro due, la figlia e la moglie, quelle vere e dunque finte.
A Veronica Lario vennero assegnati un milione e quattrocentomila euro al mese, ma la Cassazione dopo alcuni anni le tolse il vitalizio e le impose di restituire sessanta milioni a Berlusconi. È vero che sono dispute tra ricchi, anzi tra ricchissimi e forse quella montagna di danaro sporca la favola etica della donna tradita che i giornali di gossip dell’ex marito trattarono con la volgarità dei paparazzi che la inseguivano per mostrare quanto era ingrassata e quanto tramontava in quella donna bella e orgogliosa e quanto quegli occhi intensamente espressivi erano diventati segretamente dolenti: informazione, gossip o macchina del fango? Ma la legge, che andava rispettata, aveva una sua equità: «All’ex moglie che sta bene economicamente, l’ex marito, anche se ricco, non deve nulla». E però il peso dei simboli divenne più forte della legge. Berlusconi risarcito da Veronica fu davvero un esito che l’Italia non si aspettava. Nel Paese del familismo, più di tutte le assoluzioni e prescrizioni, quella sentenza della Cassazione, che puniva la moglie tradita e ribelle, suggellò per sempre il mito dell’impunità. Come disse Veronica: «Silvio in tribunale la spunta sempre». E l’amore? A Veronica l’ultima parola: «C’è chi crede che possa durare tutta la vita; chi crede che con il tempo diventi qualcos’altro; e chi pensa che sia un contenitore dentro al quale sono state costruite delle realtà e degli affetti importanti, superiori a quell’incantamento iniziale che il tempo e l’abitudine appannano: una famiglia, dei figli, un rapporto privilegiato tra due persone».
Tommaso Labate per il Corriere«Ce la farai, ce la faremo», sono le frasi che negli ultimi cinque giorni Marta Fascina ha pronunciato di più rivolgendosi a Silvio Berlusconi. E nessuno, forse, saprà mai se il Cavaliere ci avesse creduto, per l’ennesima volta, tanto al miracolo che all’incitamento; o se l’umore nero per una condizione fisica che faticava a recuperare non avesse in realtà avuto la meglio, oltre che dentro il suo corpo, anche tra i suoi pensieri.
La disperazione «per aver perso l’amore della mia vita», consegnata in pochissime parole alle voci amiche fuori dall’universo berlusconiano che hanno avuto la possibilità di sentirla durante le ore drammatiche della giornata di ieri, dicono poco o nulla della ragazza di trentatré anni a cui il destino ha consegnato, comunque vada, un posto nella storia. Carla la prima moglie, Veronica l’unica first lady, Francesca la donna che gli era al fianco all’epoca della condanna definitiva e dell’estromissione dal Senato e adesso Marta, the last lady, la moglie senza matrimonio, la compagna dell’ultimo pezzo di strada, la mano nella mano dell’ultimo miglio, la voce di quell’ultima speranza che si è spenta, insieme a tutto il resto, ieri mattina.
Gli scenari
Quale sarà il suo posto dentro Forza Italia? Lei assicura: «Non sono in guerra con nessuno»
Quanto grande sarà il posto nella storia lo diranno i prossimi giorni, le prossime settimane, i prossimi mesi. Gli ultimi, di mesi, hanno raccontato l’ascesa di Fascina, lo strettissimo legame instaurato con la famiglia Berlusconi, la fiducia di Marina e poi anche quella di Pier Silvio, ripagata con la scelta di chiudersi al San Raffaele senza mai abbandonare il Cavaliere, neanche per mezza giornata, a costo di ricevere dentro l’ospedale tutto quello che avrebbe potuto fare fuori, compresi parrucchiere ed estetista. Sua è stata la gestione del tempo berlusconiano che rimaneva fuori dalle cure, suo il controllo dell’agenda, del libro delle visite, della lista delle chiamate in entrata e in uscita, dei messaggi ricevuti, di quelli a cui rispondere, delle persone da richiamare subito, dopo oppure mai; suo il primo occhio sul plastico ideale dell’ultima rivoluzione che l’ex presidente del Consiglio aveva in mente, la riorganizzazione di Forza Italia, la svolta «partitista» del partito che era nato «di plastica» e che il Capo avrebbe voluto ricalibrare in un partito vero, quasi novecentesco, tutto militanza e coordinamento, come a voler dare un buffetto alla storia del mondo che va da tutt’altra parte.
«La mia passione è la politica E io sono nata col mito di Berlusconi», ha ripetuto a chi cercava di decrittare i codici
di una donna misteriosa. Ha gestito il tempo di Silvio in ospedale, l’agenda, le visite,
le chiamate e i messaggi
«La mia passione è la politica. E io sono nata col mito di Berlusconi», ha ripetuto talmente tante volte a chi cercava di decrittare i codici di una donna misteriosa, dosando in privato quelle parole che in pubblico non ha mai pronunciato (in Italia, forse, è il più famoso essere umano tra quelli di cui non si conosce la voce) e rivendicando «con grande orgoglio tutti i comizi di Berlusconi che ho seguito da sempre», in molti casi prendendo un pullman da Portici (provincia di Napoli) e macinando chilometri con una compagnia di giro che era più o meno sempre la stessa. Nella compagnia c’era anche Tullio Ferrante, amico di studi e di partito, oggi nella delegazione forzista del governo Meloni; che con altre nuove leve, come il coordinatore della Lombardia Alessandro Sorte e il numero uno degli juniores azzurri Stefano Benigni, rappresenta quelli che in tanti hanno raccontato come «la corrente Fascina», l’ultima nidiata del berlusconismo, quelli che le telefonate con Arcore – fino alla settimana scorsa – le hanno fatte e ricevute, quelli del «datemi i nomi per le liste delle Europee», quelli del «preparatemi le cose in vista del vertice coi ministri», l’ultima incompiuta in un’agenda che si è chiusa per sempre, inizialmente programmato per sabato scorso e poi rinviato a una data che il calendario degli umani non contempla più. «Non sono in guerra con nessuno, non faccio guerre con nessuno», ha spiegato nell’ultima settimana Fascina, dando voce alla volontà di Berlusconi, quella di sottrarre Forza Italia ai venti di conflitto permanente che hanno attraversato il partito negli ultimi anni. A lei il Cavaliere aveva spiegato che sì, il cambio di organigramma, le modifiche, i coordinatori nazionali, ma «senza più liti, chi perde il posto dovrà prima averne un altro».
Quale sarà il posto di Fascina in questa storia, ecco, lo si capirà, forse presto, forse no. Rispondendo a delle domande che è prematuro fare e farsi: c’è una volontà precisa di Berlusconi sull’unico asset della galassia non tutelato dal diritto societario, e cioè Forza Italia? Berlusconi se ha detto e che cos’ha detto, se ha scritto e che cosa ha scritto, se ha detto e scritto a chi l’ha fatto, se l’eredità politica ha uno o più eredi oppure nessuno: l’ultimo mistero Fascina è forse un mistero anche per lei, the last lady, la fine di una storia e basta o una serie che prevede altre stagioni? Una ragazza di trentatré anni piange disperata la fine di un amore, stretta ad Arcore nell’abbraccio dei familiari di Berlusconi e anche dei suoi, col padre Orazio che ha varcato i cancelli di una Villa San Martino segnata dal lutto. Domani è un altro giorno. E nessuno sa che giorno sarà.

CONCHITA SANNINO INTERVISTA PASCALE PER REP
«E di cosa dovrei parlare? È triste, ho un peso sul cuore, le parole mancano, la morte è una cosa seria, diceva Totò». Francesca Pascale, per oltre dieci anni compagna di Berlusconi, oggi sposata con Paola Turci, è in casa, attaccata ai notiziari, la voce diversa dal solito, impastata di commozione. Per la prima volta, forse, disarmata. Sono ore in cui non vuole essere né l’ex signora Berlusconi, né solo la paladina anti-destra.
Signora Pascale, però con Berlusconi ha diviso anni cruciali.
Per lei, la prima vita pubblica. Per lui, la prima fase discendente.
«È vero. Ma oggi provo solo dolore, e quello non si spiega...». Si ferma. Le lacrime, le scuse. Sincere le une e le altre.
La vecchia ma inevitabile domanda: è stato anche un padre?
«Ora è un po’ come se avessi perso di nuovo mia madre: quello fu un vuoto devastante. E poi non voglio rischiare di ferire nessuno. Non la persona che amo e che è al mio fianco, perché ferirei me stessa. E nessuno dei familiari di Silvio Berlusconi che ho sempre rispettato profondamente.
Ma certo è stato anche una guida».
Era giovanissima quando l’ha incontrato, poi siete stati una coppia ufficiale, e lei battagliava con Silvio su Salvini e Gay pride. Si può dire che gli deve molto?
«E lo riconosco. Mi ha dato tanto: e certo, non solo per gli agi, il lusso che in quegli anni ho visto. Immagino già i commenti: le ha dato questo, quello. Io parlo del mondo che mi ha fatto conoscere, degli scenari in cui mi sono ritrovata. Quante cose ho vissuto, forse essere incosciente, così piccola, mi ha aiutato...».
Per esempio?
«Mah, quante cose si affollano. Il pranzo con Gheddafi. La riconoscibilità internazionale di Silvio. Poi lo choc di vederlo andare ai Servizi sociali, i carabinieri venivano a bussare, lui gentile, io stranita. O quella volta che incontrai Putin nel corridoio: a pranzo il russo non volle le donne, non mi piaceva questa cosa. Poi lo vidi incrociare i miei cagnolini, dissi a Silvio per gioco: non è che si mangia i miei barboncini?».
Avrà lucidamente pensato altre volte a questo momento.
«E sempre lo respingevo. Sia quando stavamo insieme, e lui subì unintervento importante. Sia dopo, adesso. Tra l’altro, chi lo ha conosciuto sa di quale formidabile capacità di reazione fosse capace. Per questo sono sotto choc».
Uno choc anche oggi, con la sua vita radicalmente cambiata?
«Sì, perché siamo esseri umani: e se c’è stato l’affetto, un sentimento profondo a legare due persone, non lo puoi resettare, non siamo robot.
Poi, onestamente, con Berlusconi potevi scontrarti, litigare, ma era difficile cancellarlo per sempre. Lo amavi o lo odiavi. Ed io investita di tutto, ovvio. Era la mia vecchia vita, oggi è morta con lui».
Lei non ha fatto niente per non attirarsi i flussi di opposti hater.
«Ah, lo so. Ci sono due cori, due grandi domande, che costellano la mia esistenza. La prima viene dalla vita precedente: ma come hai fatto a lasciarti lui e tutto quel mondo alle spalle? La seconda appartiene soprattutto agli amici di oggi: ma come hai fatto a metterti con lui, ad abbracciarti quel mondo? E io mi destreggio tra queste opposte visioni, non importa. Mi interessa lo sguardo di chi ho scelto, non le domande non dette: ma allora eri lesbica prima, lo sei diventata dopo. Mah, quanti giudizi. Per me conta solo l’amore, la verità dei sentimenti».
E il suo giudizio politico su di lui?
«Non tocca a me darlo ora. Ma tutte le volte che non ero d’accordo, pur non contando nulla, non avendo alcun ruolo, lo dicevo. Negli ultimi tempi, gli rompevo anche l’anima, davvero tanto, su certe follie leghiste, su certi errori. E credo davvero lui non ne potesse più. Umano. Ma ero onesta, in gioia e dissenso, lui lo sapeva».
Ora andrà ai funerali?
«Sono ancora scossa. Ma saranno funerali di Stato, saranno migliaia. E io sarò una dei tanti a salutarlo. Una donna che ha fatto un suo percorso, è andata per la sua strada, serena. Ma lui aveva un suo amore per la vita, credo che in fondo lo capisse».

annalisa Cuzzocrea itervista Alessandra Ghisleri, Sta
«Berlusconi aveva il costante bisogno di capire cosa accadesse nel mondo reale», lontano dalla vita ricca e privilegiata che conduceva. «Cercava una connessione e la trovava nei nostri racconti», dice Alessandra Ghisleri, la sondaggista che più ha collaborato con l’ex presidente del Consiglio. Fin dal 1999, quando aveva solo 27 anni.
Se lo ricorda quel giorno?
«Era un sabato e mi chiesero di andare ad Arcore. Ci arrivai così com’ero vestita. Era il 1999, bisognava preparare le Regionali e le Europee. Il presidente non mi aveva mai vista, mi squadrò, poi mi disse: “Si sieda accanto a me con il computer così seguo lei mentre fate la spiegazione”. Ero una ricercatrice junior, a dir poco intimidita».
Andò bene. E fu così per molto tempo. Cos’è che secondo lei ha determinato un successo durato tanti anni?
«Berlusconi ha dato vita al sogno americano, che è diventato un sogno italiano».
Il self-made man?
«Ha messo su aziende, ha dato lavoro, ha vinto scommesse importanti. Ha portato un numero uno come Mike Bongiorno all’intrattenimento, un altro come Enrico Mentana all’informazione. Per tante persone ha rappresentato la possibilità di crederci».
E ha costruito un racconto di sé che va dal pianobar sulle navi da crociera all’impero immobiliare e televisivo.
«Nelle elezioni del 2001, che consacrarono il suo successo politico, mandò nelle case degli italiani un libro con la sua storia. Voleva scegliere come essere raccontato».
La videocassetta inviata ai tg per la discesa in campo è la prima grande opera di disintermediazione in politica?
«Conosceva benissimo i meccanismi della comunicazione ed era anche un attentissimo osservatore. Prima c’era una politica paludata che la gente non capiva più. Lui ha cambiato il gergo, ha fatto una rivoluzione prima di tutto nel linguaggio, poi nel comportamento. I suoi uomini dovevano essere tutti vestiti in un certo modo. La cravatta larga era un timbro».
Studiava i sondaggi personalmente?
«Certo. E mi richiamava se la grafica non era bella, se c’era un carattere che non gli piaceva. Tutti di dimensione 18, per il vezzo di non portare gli occhiali. Un giorno mi rimandò indietro un report con scritto di suo pugno quale sua fotografia dovesse esserci, quando ne testavamo la popolarità».
Vanità?
«Perfezionismo. In tutto. Anche nella strategia politica. Ogni mossa, dal discorso di Onna al predellino, veniva decisa molto prima e testata con alcune persone, poi con altre. Ascoltava tutti e alla fine decideva».
Di lei si è sempre fidato?
«Gli dicevo le cose come stavano. Quando aveva sondaggi belli era così fiero che li portava ai capi di Stato. E poi ha sempre avuto trovate geniali. Ricordo quando nel 2009 mi chiamò: c’era appena stato il terremoto all’Aquila, lui pensò di spostare lì il G8. Gli dissi che poteva essere male interpretato, le persone stavano soffrendo, ma aveva ragione: ha fatto in modo che il mondo vedesse quella sofferenza e ne fosse partecipe».
Era un accentratore che non ha lasciato eredi politici.
«Ci ha provato. Prima il rapporto con Gianfranco Fini, poi con Angelino Alfano».
Il primo lo ha silurato con un gesto, il secondo dicendo che gli mancava il quid.
«Sapeva essere chirurgico. Sono stati rapporti molto complicati. A me ha dato delle chance pazzesche: mi ha portata al tavolo con i consiglieri di Obama, Bush, Blair, Clinton. Voleva sempre studiare tutto. Imparava, assimilava e se la rigiocava. E comunque, avocava a sé onori e oneri. Si è sempre sobbarcato anche le cose più difficili».
Spesso sembrava voler sedurre anche gli avversari.
«Dopo il discorso di Onna, quando mise il fazzoletto dei partigiani, lo chiamai, era in elicottero con Bonaiuti. Gli dissi che aveva il 75 per cento di indice di fiducia. Ci fu un momento di silenzio».
E poi?
«Chiese: “Quell’altro 25 per cento che non mi ama, perché? Quando fece il predellino mi spiegò, dalla macchina, le sue ragioni: doveva tenere unita una situazione che si stava sfarinando».
C’erano i problemi con la giustizia, il rapporto difficile con la stampa, il controllo dell’informazione, il conflitto di interessi.
«Nonostante tutto quel che accadeva la fiducia non veniva scalfita. A farlo, più di tutto, è stata la seconda lettera della moglie Veronica».
Più dei processi?
«Assolutamente. Mi chiamò nella notte dicendomi che dovevamo capire come gestire la situazione».
Perché il colpo veniva dall’interno?
«Perché veniva dalla famiglia. Berlusconi era un uomo con 17 nipoti, ha sempre messo al centro della narrazione il valore della famiglia».
La frase sulle «vergini che si offrono al drago» lo ha danneggiato più di ogni altra cosa?
«Sì, soprattutto per il voto delle donne, che era sempre stato un suo punto di forza».
Glielo disse?
«Certo. Lo sapeva perfettamente. Ma sentiva anche una grandissima responsabilità. A novembre 2012 decise di ricandidarsi perché il partito era in calo. Nonostante tutto, senza lui a fare da traino, sarebbe stato spacciato». —