13 giugno 2023
In morte di Berlusconi. Il calcio
Daniele Dallera per il Corriere
Geniale, non ci sono dubbi. La materia, il calcio, la conosce. A testimoniare la laurea con lode in ingegneria calcistica di Silvio Berlusconi, tesi «costruzione della squadra vincente: il Milan», facoltà impegnativa per il solo fatto che è popolarissima, milioni gli studenti iscritti e sparsi nel mondo, ci sono 31 anni di libera docenza da presidente di una delle squadre più forti del pianeta calcio. La lista dei trofei vinti, 29, fa impressione: 5 Champions, 5 Supercoppe europee, 8 scudetti, 1 Coppa Italia, 7 Supercoppe italiane, 2 Coppe Intercontinentali, 1 Mondiale per club. Una squadra che vola, in Italia e in Europa, non a caso nasce in elicottero. Più che un battesimo, un decollo verso il trionfo quel giorno, quando il suo Milan si presenta, tutti a occhi e naso in su, attratti dagli elicotteri che atterrano sul prato dell’Arena di Milano portando la squadra e chi la governa: è il 18 luglio 1986, l’inizio di una grande avventura, di un film hollywoodiano, premiato da una serie infinita di Oscar, della tecnica, della regia, della produzione, della sceneggiatura, di primi e secondi attori, alcuni di loro, giocatori eccezionali.
L’inventiva di andare a cercare Arrigo Sacchi, l’allenatore della rivoluzione del calcio in Italia, che mischia difesa e attacco in un mix perfetto, cornice e quadro di un autentico capolavoro. Difesa dell’arte antica, pittura moderna, tocchi di futurismo, un calcio quello di Sacchi che sorprende gli avversari, li mette in difficoltà, in soggezione, esaltando interpreti e soprattutto il gioco di squadra che richiede fede. Nel progetto, nell’unità che rende forti ma non liberi, nelle teorie di Sacchi che pretende assoluta obbedienza. Sacchi ha le sue discussioni, i suoi scontri, i momenti di debolezza, dissidi interni ed esterni, crisi interiori, ma piano piano, nemmeno tanto, il suo messaggio, rivolto sempre a fin di bene, quel Bene prezioso che è la Squadra, il gruppo, il collettivo, il lavoro del team, è prima capito e poi abbracciato.
Sacchi non tollera egoismi tecnici, nemmeno tattici, dannosi alla sua idea di Squadra, deleteri per il raggiungimento del risultato.
La storia di Claudio Daniel Borghi, attaccante talentuoso, che piace a Berlusconi, ma lontano dal sacrificio, dal lavoro, dallo spirito di servizio preteso dal rivoluzionario Arrigo Sacchi. Non giocherà mai nel Milan, solo sette presenze nel Como prima di fare le valigie, vivendo di nostalgie e assistendo alle vittorie di quel mitico Milan, pianificato sul talento di Marco Van Basten e la potenza di Ruud Gullit, sulla vena giovanile inesauribile di Franco Baresi e Paolo Maldini, grandi, grandissimi anche loro, l’immagine felice di un Milan italiano.
Squadra in campo, ma anche fuori: in società la perfezione. Ad Arcore le idee vincenti di Berlusconi & Galliani diventano realtà sul mercato e sul campo. «Siamo la coppia più bella del mondo», cantavano anni prima Adriano Celentano e Claudia Mori. Quella formata da Berlusconi & Galliani (con Braida un passo indietro), a livello dirigenziale e societario, la più efficiente del calcio italiano, modella un Milan immenso che vince tutto. Abbattendo ogni confine, l’Europa negli anni assume la dimensione di una dependance di Milanello. Quando Sacchi decide di lasciare il Milan, perché reggere quei ritmi sta diventando per lui insopportabile, sia a livello fisico che psicologico, Berlusconi & Galliani non sbagliano un colpo: Fabio Capello, campione in campo e fuoriclasse in panchina, diverso da Sacchi, ma leader in ogni suo gesto e in ogni sua vittoria (4 scudetti, 1 Champions, 1 Supercoppa europea, 3 Supercoppe italiane). Con Zaccheroni più discussioni che feeling, d’accordo, ma anche uno scudetto vinto rimontando la Lazio. E l’intuizione di andare a prendere Carlo Ancelotti, il più diplomatico degli allenatori di Casa Berlusconi. Ancelotti sopporta certe invadenze tecniche del Cavaliere con intelligenza, aiutato talvolta da Galliani che sa come intervenire, cogliendo il momento giusto, le parole da spendere con l’allenatore, abile nel sanare tensioni che inevitabilmente nascono anche in un carattere portato alla comprensione e all’armonia come quello del tecnico emiliano. Ancelotti con una magia psicologica e tecnica dà retta al «collega» Silvio Berlusconi, ma poi fa giustamente ciò che vuole lui, e le vittorie arrivano, eccome. È da una vita che Ancelotti si comporta così, pensando sempre prima di parlare e, semmai, di sbottare: adesso al Real Madrid stessa musica, con Florentino Perez, ingombrante presidente madridista.
Pure Max Allegri (1 scudetto e 1 Supercoppa) sopporta battute e riflessioni di Silvio che non ci pensa proprio di smettere di fare «il tecnico dell’Edilnord», la squadra aziendale nella sua prima vita da imprenditore.
Il grande Nils Liedholm, il primo allenatore milanista dell’era berlusconiana ironizza: «Silvio Berlusconi? Sì, molto bravo, capisce calcio: lui stato allenatore Edilnord...». Quel presidente-allenatore ne ha fatta di strada.
Dopo aver ceduto il Milan, a malincuore, convinto dai figli, che non ne possono più del giocattolo rossonero del padre, la seconda giovinezza di Silvio Berlusconi: al Monza, a convincerlo l’amico Adriano Galliani. Dimensione ovviamente minore, ma prendere il Monza in dissesto in serie C e portarlo in A, dove vive da protagonista, non è anche questo un capolavoro? Di arte moderna, sostenuto dal vecchio stile, accomodando alla porta i tecnici che non convincono, Brocchi e Stroppa, con il silenzioso consenso di Galliani, fedelissimo nell’appoggiare le decisioni del suo capo, e promuovendo a sorpresa Palladino: una svolta riuscita. Un finale sportivo e calcistico all’altezza quello brianzolo, dove Galliani è idea e azione. Ma nessuna confusione: il Milan di Berlusconi ha raggiunto vette per altri inarrivabili. Dove c’è genio, tutto è possibile.
Enrico Currò per Rep
NRICO CURRÒ
Se c’è un’impresa che ha garantito a Silvio Berlusconi l’immortalità agognata, è la firma sul ciclo più vincente della storia del c alcio: 29 titoli in 31 anni da proprietario del Milan, dal 24 marzo 1986 al 13 aprile 2017. La fama di Re Mida era tale per i successi imprenditoriali e politici, ma aveva raggiunto dimensione mondiale grazie allo sport più popolare.
Il pallone è stato il pianeta di Berlusconi. Presso i tifosi rimarrà l’anticipatore per definizione. A posteriori aveva aggiustato l’addio di sei anni fa al Milan, all’atto della cessione all’oscuro cinese Yonghong Li, come inevitabile mossa per assicurare alla squadra un futuro all’altezza di una storia fatta di straordinari e costosi campioni, che ormai neppure lui si poteva più permettere, di fronte alla concorrenza selvaggia degli sceicchi arabi, dei miliardari orientali d’Asia e d’Europa e dei fondi. Di quella discussa trattativa la narrazione più indulgente e intimista suggeriva una lettura alla García Márquez. Il patriarca entrato nell’autunno confessava agli intimi l’affievolirsi delle forze: l’abbandono della creatura prediletta equivaleva al suo stesso tramonto umano.
Di sicuro la parabola di Berlusconi è coincisa con quella del Milan. L’imprenditore- politico, visionario e spregiudicato, precursore e narcisista, despota e paterno, si identifica col padrone-demiurgo della squadra di calcio. E l’ascesa e il declino del club sotto la sua guida sono sovrapponibili al percorso dell’uomo, dallo zenit al crepuscolo. Il ciclo milanista è durato più di quello da leader del centrodestra e il calcio ha spesso rappresentato il terreno di sperimentazione del politico. Il curriculum è unico, con l’eccezione di Santiago Bernabeu, cui è intitolato lo stadio del Real, infatti talvolta Berlusconi si rammaricava che lo stadio di San Siro non portasse il suo nome.
Nel 1986 aveva raccolto il Milan sull’orlo del baratro per poi sollevarlo in cima al mondo, trascinando il calcio rustico di allora nell’era degli smisurati incassi televisivi e degli ingaggi iperbolici. Teorizzò che il moltiplicarsi delle dirette delle partite avrebbe attirato gli sponsor, che avrebbero finanziato i club, che avrebbero stipendiato i campioni, che avrebbero fatto impazzire la gente, dentro gli stadi ma preferibilmente alla tivù. L’attuale Champions League, finanziata dai diritti televisivi, è in fondo uno sviluppo dell’originaria idea della Superlega, che già nel 1988 gli frullava per la testa. La sua immarcescibile popolarità era dovuta alla lingua universale parlata dal Milan dei Palloni d’oro. Quelli condotti alla meta raggiunta in precedenza dal solo, accantonato Gianni Rivera: Gullit, Van Basten, Weah, Shevchenko, Kakà. E quelli acquistati: Papin, Baggio, Ronaldo, Rivaldo, Ronaldinho. La galleria degli altri grandi contempla Donadoni, Savicevic, Boban, Albertini, Pirlo, Inzaghi, Nesta, Gattuso, Seedorf, Rui Costa, e l’elenco è incompleto.
I primi due fuoriclasse, Franco Baresi e Paolo Maldini, Berlusconi se li era trovati già in casa, però fece in modo che non avessero mai la tentazione di andarsene. Tutto cominciò con Nils Liedholm in panchina, ma fu il passaggio repentino dal santone svedese al giovane iconoclasta semisconosciuto Arrigo Sacchi a rappresentare il manifesto di una filosofia rivoluzionaria: la rottura con la tradizione, vincere e dare spettacolo anche in trasferta. Alla scelte visionarie accompagnò un mercato impossibile per la concorrenza e fatto di stelle, a partire dal trio olandese Gullit-Van Basten-Rijkaard.
La seconda fase vincente è targata Fabio Capello. Allenatore e uomo d’azienda promosso secondo modalità diffuse nella holding Fininvest, gestì con metodi assai diversi dall’utopista Sacchi una squadra già vincente, aumentando i trionfi. Per gli agiografi era il segno che gli uomini potevano cambiare, ma tutto stava nella capacità di sceglierli. E che la superiorità del Milan andava attribuita al padrone, entrato nel frattempo in politica, con delega ad Adriano Galliani, suo vicario calcistico della prima ora, sul governo della squadra e sulla campagna acquisti, gestita con l’altro pioniere Ariedo Braida. Il dogma dell’infallibilità – ma non bisognava cadere in disgrazia, vedi Zaccheroni nonostante uno scudetto – trovò linfa col terzo artefice dello straordinario ciclo milanista: il profilo di Carlo Ancelotti, gestore saggio di uno spogliatoio infarcito di primedonne, si distingueva da quelli di Sacchi e Capello e ne costituiva la sintesi ideale. Intanto Milanello era sede di estemporanei comizi del Berlusconi politico: perfino l’obbligo del silenzio elettorale diventava una barriera scavalcabile.
Dalla defenestrazione di Ancelotti cominciò il declino, malgrado il sussulto del triennio di Allegri con uno scudetto e ben al di là del controverso duopolio di amministratori delegati, la figlia Barbara e Galliani. L’ultimo quinquennio fu malinconico, tra discorsi motivazionali alla squadra e video su Facebook come quello incentrato sulla figurina di un giovane e improbabile Silvio in maglia rossonera per un presunto provino. Riaffioravano perfide leggende del passato, dal presunto tifo infantile per l’Inter alla mitica Edilnord, la squadra che Berlusconi allenò in gioventù e il cui trofeo, una Coppa Disciplina, troneggia sulla libreria dello storico ufficio di via Rovani, accanto a due Telegatti. Lui se ne doleva, tacciando i miscredenti di irriconoscenza.
Alla fase crepuscolare, dopo la trattativa naufragata con l’ingegnere tailandese Taechaubol (mister Bee) e la cessione al misterioso Yonghong (mister Li, poi debitore insolvente del fondo americano Elliott), appartiene la nostalgia, con i tentativi di consigli telefonici agli allenatori del Milan, che sarebbe poi tornato a vincere il campionato senza di lui. Poi, però, nessuno aveva dubitato che con l’acquisto nel settembre 2018 del Monza, in Serie C, Re Mida si sarebbe portato a casa la Serie A. Così è stato e a poco a poco le partite del piccolo club brianzolo si sono trasformate nell’estrema celebrazione del patriarca: lo spot per lo stadio Brianteo rinnovato, le battute ammiccanti via social, le sporadiche interviste da saggio affabulatore. Che dal calcio aveva già ottenuto il suo vero scopo: diventare immortale.
Maurizio Crosetti intervista Arrigo Sacchi RepUn sospiro, un ricordo, un singhiozzo, una parola, una pausa, una frase, una lacrima.
Arrigo Sacchi, chi è stato per lei Silvio Berlusconi?
«Un amico. Una delle persone alle quali ho voluto più bene in vita mia. Il dolore è grande».
Quando vi siete sentiti per l’ultima volta?
«Verso Pasqua mi invitò a pranzo, io non potevo, rimandai. Credo che ne avrò il rimorso per sempre».
Come l’ha saputo?
«Dalla televisione, stavo guardando La7. Mi è preso un mezzo colpo.
Non ero pronto».
Ma non temeva anche lei che ormai non ci fosse più nulla da fare?
«No, l’ho cercato tre giorni fa, ho lasciato un messaggio alla segretaria. Però non mi ha richiamato, come invece faceva sempre. Mi sono un poco allarmato, tuttavia non immaginavo questo. Anche per me è impossibile collegare quest’uomo a qualcosa che finisce».
Cos’è stato Berlusconi per il calcio?
«Una slavina dentro uno stagno. Un visionario con gli occhi nel futuro e un coraggio smisurato. Il futuro non è un’ipotesi o un sogno, è una visione. In dieci anni, noi italiani abbiamo vinto più trofei che nell’intera storia di questo sport».
Ma è vero che voleva fare lui la formazione?
«Con me, mai. Anche perché sposava in tutto le mie idee: due punte, quattro difensori e non cinque, attaccare sempre, essere “noi” e non “io”. Silvio Berlusconi era un genio che amava il suo Paese, e che il suo Paese ha capito molto meno di quanto meritasse.
Perché l’Italia è un posto impossibile, dove vivono 60 milioni di individualisti e presuntuosi».
Ricorda il vostro primo incontro?
«Con il mio Parma avevo battuto il Milan in amichevole a San Siro. Il dottor Berlusconi aveva interrotto la villeggiatura in Liguria, eracurioso, venne negli spogliatoi, volle conoscermi e mi disse: “La seguirò”. Poi vincemmo altre due volte contro i rossoneri in Coppa Italia, e lui ribadì: “La seguirò in campionato”».
Insomma, lo conquistò battendolo.
«Il capo dei servizi sportivi di Mediaset, Ettore Rognoni, era un mio amico. Un giorno mi chiamò per dirmi: “Martedì sei invitato dal Cavaliere”. Cenammo ad Arcore, parlammo per ore, mi sembrava di conoscerlo da una vita. Sapeva che il venerdì avevo un appuntamento con un club di A e mi chiese dirimandarlo. Non potevo farlo, per correttezza, e glielo spiegai. Il giorno dopo mi telefonò di nuovo Rognoni: “Ma tu sei matto! Vieni stasera, lui non ci sarà ma il fratello Paolo sì, con Galliani e Confalonieri. C’è qui pronto il tuo contratto di allenatore del Milan”.
Allora pronunciai quella famosafrase: o siete pazzi, o siete geni.
Firmai in bianco, e quel birbante di Galliani scrisse una cifra inferiore a quanto guadagnavo a Parma».
Il vostro Milan: è esistita una squadra migliore?
«Quando il presidente diceva “diventeremo il club più forte al mondo”, io ne vedevo sorridere parecchi. Poi però accadde, ma non fu facile. Dopo una sconfitta a Milano contro l’Espanyol, Berlusconi scese negli spogliatoi e disse: “Ho totale fiducia in Arrigo.
Chi lo seguirà, resterà con noi. Chi non lo seguirà, andrà via”. Fu grandioso. Gli bastarono ventiseisecondi di discorso. Due anni più tardi lo ripagammo con la Coppa dei Campioni. Dopo che la vincemmo, venne da me e mi confidò: “Non ho mai speso meglio i miei soldi”».
Come riusciva a motivarvi?
«Possedeva una tale passione, una tale carica contagiosa che ti portava a tirar fuori anche l’energia che avevi nell’alluce».
Non vi siete mai scontrati?
«Una volta sì: quando rifiutai un giocatore che a lui piaceva moltissimo, l’argentino Borghi.
Berlusconi cercava a tutti i costi un altro Maradona o qualcosa del genere, ma io gli spiegai che al mondo non esisteva una risposta a Maradona, se non mettendo in campo la forza e la coesione di una squadra intera. A quel punto, lui mi abbracciò, aggiungendo: “Sacchi, lei ha una fortuna, è il più bravo di tutti”. Non mi bastava. Gli risposi che gli restava una sola alternativa: licenziarmi, oppure tornare a fare il presidente. Tornò a fare il presidente».
Quanto era logorante, tutto questo?
«Mi ero ripromesso: alleno il Milan per un anno e poi smetto, avevo una gastrite che già girava in ulcera... Mi trovarono un professore bravissimo che risolse il problema, così rimasi».
Non crede che il calcio sia stata la migliore riuscita di Silvio Berlusconi?
«Non sta a me giudicare l’imprenditore o l’uomo politico, ma so che da quando non governa più lui, non si sa bene cosa fare.
Silvio Berlusconi è una delle persone più oneste e corrette che io abbia mai conosciuto: con me ha mantenuto tutte le promesse, mi ha messo nelle migliori condizioni e non c’era bisogno di scrivere nulla, non servivano i contratti, bastava la sua parola che era una soltanto».
Sacchi e il Cavaliere: che coppia è stata?
«Ce l’abbiamo messa tutta, ci siamo voluti bene, abbiamo vinto e vissuto tanto. Siamo andati oltre il sogno, forse neppure lui ci credeva fino a questo punto. Mi ha insegnato un sacco di cose. La più importante: chi dà tutto, è già un vincitore».
Cosa le lascia Berlusconi?
«Due idee grandi: amare quello che si fa, e sapere che si poteva fare meglio».
Gigi Garanzini per StaEra ad un passo dai libri in tribunale il Milan di quel febbraio 1986, quando la mattina del 20 suonò il telefono in redazione. Ciao, sono Cesare Cadeo, un’ora fa il dottor Berlusconi ha comprato il Milan. O forse lo disse meglio di così, povero Cesare che non c’è più nemmeno lui, ma quella era la sostanza e per un giornale del pomeriggio che allora andava via come il pane alle fermate dei tram e si leggeva tra un sobbalzo e l’altro voleva dire edizione straordinaria. Ce ne fu un’altra il 18 di luglio, quando il neo-presidente che già allora amava il basso profilo, atterrò in elicottero all’Arena, colonna sonora la Cavalcata delle Valchirie. Aveva appena comprato Donadoni, Galli, Bonetti, Massaro e Galderisi: applicando l’inedita formula del moltiplicato tre, nel senso che se la concorrenza offriva 5 lui rilanciava a 15, per risparmiare tempo. Non per niente l’Avvocato, la prima volta che se lo trovò a tiro in tribuna, arrotò più del solito la sua erre e tendendogli la mano disse, eccolo, il calmieratore. Ma quello era già l’autunno. In piena estate, dopo il colpo degli elicotteri e la vacanza allora di rito alle Barbados, si presentò a Barcellona dove il Milan era stato invitato al trofeo Gamper. All’incontro della vigilia disse che il percorso era soltanto all’inizio: e che per l’estate successiva aveva già prenotato un gran centravanti, mi pare si chiami (testuale) Fon Basten. Perplessità. A maggior ragione due sole sere più tardi, quando, incassate le sconfitte con Barça e Tottenham, diede il là alla confessione notturna della squadra. Il barone Liedholm a fare quattro chiacchiere con noi al bar del Princesa Sofia. Lui, il dottore, a portarsi a spasso i giocatori uno per uno, fino all’alba. Partendo ad ogni buon conto da una rivoluzione alimentare, quella tecnica era prematura, che le cronache del tempo rubricarono come patto della crostata. Giusto a Barcellona tornò meno di tre anni più tardi, a giocarsi la Coppa dei Campioni: dopo un campionato d’assestamento, che era andato al Napoli di Maradona, uno vinto grazie alla scelta in una cena alla periferia di Parma di un neofita visionario a nome Sacchi, un altro perso dall’Inter di Trapattoni: ma sublimato, per l’appunto, dalla finale in Catalogna. Guidata, ipse dixit, dal dio degli eserciti, e stravinta proprio in quel Camp Nou dove 33 mesi prima il suo nuovo Milan aveva soltanto balbettato. La prima di 5 Coppe dalle grandi orecchie.
Da presidente del Milan la rivinse subito l’anno successivo. Quella del ’94 invece fu la prima da presidente del Consiglio, perché nel frattempo c’era stata la discesa in campo, cui a stretto giro di posta seguirono il partito-azienda e, perché negarsela, pure la squadra-partito visti gli appelli elettorali di molti dei giocatori più illustri. Tutto davvero si teneva, in quegli anni. A cominciare dal fiuto del dottore ormai diventato cavaliere, che il suo vero capolavoro l’aveva compiuto nell’estate del ’91 quando Sacchi, ormai con la mano infilata nel panciotto alla maniera di Napoleone gli annunciò un o io o lui, e il lui era Van – da tempo non più Fon – Basten. Non solo Berlusconi scelse il centravanti. Ma scelse soprattutto Capello, e il Milan che di scudetti con Arrigo ne aveva incredibilmente vinto solo uno cominciò a vincerne a grappoli con una squadra che, a sentire il profeta, era praticamente al capolinea. E se la scelta di Sacchi era stata la scommessa geniale di un rampante, quella di Capello fu la mossa del cavallo di chi ormai un impero lo aveva creato: e doveva badare innanzitutto a conservarlo. Seguirono stagioni in altalena, poi venne il tempo di Ancelotti e di un’altra caterva di trofei, un po’ più diluiti nel tempo. Ma la dimensione di Berlusconi era ormai diventata tutt’altra. E con la destra a sua volta infilata nel panciotto, le planate in elicottero su Milanello erano diventate meno festose e quasi sempre più critiche: il modulo, le due punte di rigore, sembrava di sentire Jannacci e quel Milan che non mi vince più. Comunque mai abbastanza. Sino al declino finale, alla resa.
Restava forse lo spazio per un’ultima avventura, romantica, ispirata dall’antico sodale Galliani. E poiché il forse è avverbio che dalle parti di Arcore non ha mai allignato, ecco il Monza, ecco la Brianza per la prima volta in serie A. Altro che ultima ganassata di un cumenda in disarmo.
Ma il vero Berlusconi calcistico era quello, geniale e alluvionale, che solo da presidente del Milan si decise a debuttare sulle sue reti televisive. In sala regia l’intero stato maggiore, Confalonieri, Dell’Utri, Galliani, Foscale. Di fronte a lui, dopo ampio spareggio, chi scrive. Mi raccomando, lei mi lasci parlare, ovviamente, ma m’incalzi, che non sembri una conferenza stampa. Quand’è la pubblicità? Presidente, ogni 12 minuti. Benissimo, quando ne mancano un paio mi faccia un cenno. Ormai con un crampo alla mano destra, la prima volta che respirò io esalai pubblicità, lui mi guardò storto e voltandosi verso la regia chiese com’era andato. Fu Confalonieri a osare: benissimo Silvio, proprio bene. Ma i minuti sono 31. —