Corriere della Sera, 13 giugno 2023
In morte di Berlusconi. Varie
Filippo Ceccarelli Rep
Per metterla giù con solenne e sproporzionata gravità: il berlusconismo, da considerarsi come una vera e propria età storica pari a quella giolittiana, al ventennio fascista o all’era cosiddetta democristiana, fu un grande esperimento sociale e di potere. Punto. Se poi, deposti i ridicoli paramenti storiografici, detto esperimento sia riuscito o meno esula da questo ricordo che, detto in sincerità, preferisce rovistare alla periferia degli eventi, molti dei quali spesso bizzarri e, dato il soggetto da cui ha tratto il nome, altamente imprevedibili.Durato almeno un quarto di secolo, a occhio il berlusconismo ha certamente contribuito a far perdere all’Italia un bel po’ di tempo, pure generando epigoni di gran lunga inferiori alla statura del fondatore, oltre che avversari e nemici che lo hanno contrastato ciecamente e a volte fanaticamente al punto da introiettarlo. Fino a che il cerchio della maledizione emulativa e concorrenziale si è chiuso non solo nel peggiore dei modi, ma anche con esito infruttuoso, se non catastrofico.
In compenso il ciclo di comando del Cavaliere ha recato in dote e per certi versi addirittura in omaggio al gentile pubblico di questa nazione qualcosa – un quid, un senso, un gusto, una passione – che gli italiani desiderano sommamente: il divertimento, specie quando assume le forme e la sostanza dell’eccesso vistoso, tale da generare emozioni e sentimenti, quindi faziosità, astio, sberleffi, lacrime, sorpresa, meraviglie e incredulità, dalla discesa in campo al bunga bunga, dai boati degli stadi ai servizi sociali presso la Sacra Famiglia di Cesano Boscone, dai tanti malori alle altrettante resurrezioni, fino a questo giorno che ci fa tutti più vecchi anche se non più consapevoli.
Sembra anzi di poter riconoscere in questo scambio tra un uomo e il suo Paese un che di magico e di folle, che peraltro Berlusconi stesso, a suo tempo imboccato prefatore di Erasmo, ha sempre pubblicamente rivendicato, per quanto aggiustandoselo, dialogando con la folla, nel senso soggettivo ed esclusivo della sua propria lungimiranza. In realtà era un tratto di pazzia del genere istrionico, buffonesco e melodrammatico, che sta dentro i cromosomi del comando all’italiana, a partire da Cola di Rienzo – “et in sua bocca sempre riso appariva in qualche modo fantastico” – ma forse anche prima, vedi Nerone, evocazione che a proposito di Berlusconi si deve a Umberto Eco, forse in un giorno di cattivo umore.
Sembra improprio, e tanto più in questa circostanza, diffondere qui degli esempi. Nel corso degli anni d’altra parte si è venuta a formare una così ampia e variegata biblioteca da rendere vano ogni repertorio, ogni elencazione, ogni casistica dell’acclarata dismisura berlusconiana, dall’autoglorificazione spinta al turbo-vittimismo, passando per i miracoli, le gaffe, la scenotecnica, le adorazioni, le gag, la megalomania, la chirurgia, la magnificenza, le baracconate, l’assegnazione di una parte a chi gli si avvicinava anche solo per qualche secondo, e i giuramenti, la distribuzione dei destini e la moltiplicazione dei tradimenti, le allucinazioni e i travestimenti, la carne fresca e quella ormai flaccida, e ancora la generosità – che c’era, altroché! – la teologia del sole in tasca, le corna, la bandana, la meraviglia del bagno di folla, quando agguantava le mani con la destra e con la sinistra, l’improvvisazione cialtrona, la simpatia, le condanne e a un certo punto perfino gli animali.
Che un giornalista, appassionato d’accordo, metterebbe volentieri punto, ma non può, non ce la fa, a maggior ragione oggi che non c’è più, Berlusconi; e la memoria viva e insidiosa, ma pure decisamente onirica, alla rinfusa trova subito il modo di inseguire e insieme dribblare Veronica, Bondi& Cicchitto,Apicella, lo stalliere, il cuoco Michele, Mamma Rosa, don Verzè, il ragionier Spinelli, la Pitonessa Santanché, il dottor Zangrillo e prima ancora Scapagnini che dichiarò il Cavaliere “tecnicamente immortale”, povero lui, e l’igienista dentale e/o mentale, e Pascale, la Regina Fascina, un numero considerevole di cerchi magici, aiuto!
E mentre nella testa exeunt omnes, se ne vanno tutti, svaniscono dissolvendosi nel Grande Nulla, ecco che il ricordo dei ricordi finalmente approda al vivente non umano, a Dudù, il barboncino psicopompo a cui Putin, sulla copertina di “Chi”, tirava la palletta, seguito da una quantità di altri cani in vetrina su magnifici prati di magnifici parchi in magnifiche foto magnificamente somministrate a tutti e a nessuno nel tempo ultimativo della democrazia del pubblico.
Va da sé che nel frattempo quest’ultimo, meno innocente e passivo di quanto avrebbe voluto sembrare, si è beccato Berlusconi anche in forma di processi, iper-gossip, romanzi, saggistica noir e criminale, inni politici e canzonette, tatuaggi. Una tempesta di imitazioni e di satira, qualche censura, una dozzina almeno di film, altrettanti documentari e opere teatrali, un paio di musical all’estero, un’intera pinacoteca, da ritratti in costume alla street art, oltre a diverse statue, tipo lui in costume da Superman appeso con un corda a un elicottero per far divertire i nipotini, sempre lui iper realisticamente e precocemente disteso era il 2012: aveva ciabatte a forma di Topolino e mano nella patta – dentro una teca di cristallo.
Allo stesso modo è impossibile contare le installazioni d’arte contemporanea, teste sgretolate, ritratti a mosaico realizzati con coriandoli di giornaletti porno e altre opere dell’ingegno compresa una saponetta spacciata come figlia del grasso tratto da una liposuzione.
Converrà aggiungere che in questa ventata di immaginaria però anche piuttosto concreta fantasmagoria, in parte grazie a Berlusconi, in parte a prescindere, le istituzioni hanno cessato di essere quelle che erano state per le ultime generazioni: anche un modo per contenere la volontà di potenza e quindi pure le mattane dei governanti. Forse è per questo che il Cavaliere le ha considerate, a cominciare dal Parlamento, un impiccio, un impaccio, una perdita di tempo e, personalmente, un mistero e una fonte di dispiacere.
Ma a pensarci bene la stessa democrazia è rimasta travolta sotto la pressione del regime degli spettacoli per poi finire seppellita – non suoni troppo irrispettoso – dalla messa in scena, dalla finzione, dalla simulazione e giù, giù, a palate, dal raggiro clownesco, dalla sòla piagnucolosa, dalla frode e dall’impostura, che in Italia sanno farsi creative come in nessun altro luogo, prossime come sono al genio.
Beato chi oggi riesce a dire qualesia stata la politica di Berlusconi, a meno di non intenderla come una sottospecie di cultura totalitaristicamente liberaloide che in ogni caso s’identificava e s’immedesimava in lui stesso, nella sua visione auto- replicatissima, nelle continue peripezie del suo corpo, dei suoi quattrini di cui tutti volevano impossessarsi, compresi quanti possono a buon titolo essere considerati comprimari della sua rovina politica. Più una politica, forse, si è trattato di una specie di sensibilità post-politica, vissuta e sfruttata dai suoi amici e adulatori, e magari patita dalla sua stessa famiglia che egli, offuscato dai successi, ha sempre considerato una stirpe, un casato, una royal family.
Perché nei simboli della sua maestà Berlusconi non è stato per tre o quattro volte un semplice presidente del Consiglio, come tutti gli altri, ma sempre ha vissuto il suo comando come un sovrano, un re, un monarca all’inizio aziendale, poi non più solo come attestato dai palazzi, le ville, la corte con ciambellano, maggiordomo, cuoco, preparatore atletico, giardiniere, cuoco, musico, avvocati legislatori, poeti encomiastici, ruffiani, cortigiane, guardie, servi e buffoni.
Puro e vertiginoso spettacolo di potere, insomma, per giunta consumatosi fino alle estreme conseguenze come accade di solito quando si è compiuta una vera conquista, solo che qui ancora non c’è modo di definirla tale; e se proprio bisogna, tocca rifugiarsi con nostalgia in un’intuizione di Edmondo Berselli secondo cui l’esperienza berlusconiana s’identifica l’espressione del dadaismo, una specie di vendetta postuma delle avanguardie artistiche del secolo scorso ai danni del sistema o di quel che ne rimane, fino al prossimo giro di giostra.
Senza Berlusconi non ci sarebbe stato Renzi, non ci sarebbe stato Grillo, non ci sarebbero Salvini, né Meloni, da lui ribattezzata in pubblico “la Trottola”. Senza Berlusconi non ci sarebbero stati, sia pure sagomati alla rovescia, né Prodi, né Monti, né Letta e in qualche misura nemmeno Mattarella e Draghi. Senza Berlusconi, molto probabilmente, non ci sarebbe stato Trump. E qui ci si fermerebbe: ancora una volta l’Italia laboratorio di forma e sostanza politica. E tanto, troppo si è già detto oltrepassando la soglia del sensato, del ragionevole, ma osando l’inosabile vale la pena azzardare che senza Berlusconi non ci sarebbe un pezzettino di tutti noi.
E come congedo, tra milioni di stimoli e sbigottimenti, immagini tristi e liete memorie, con temerario arbitrio pare di vederlo ancora, piccoletto e pieno d’energia, dirigere l’orchestra che intona “Fratelli d’Italia”, e a quel verso fatale – “siam pronti alla morte” – Silvio Berlusconi sorride e fa così così con la mano, calma, un momento, siamo pronti fino a un certo punto, anzi non siamo pronti, nessuno è mai pronto, mai, però mannaggia succede a tutti, e così sia.
Gabrilele Romagnoli per StaVerso la fine ha chiuso il cerchio comprandosi Radio Città del Capo, l’emittente storica della sinistra bolognese. L’ultimo scacco del re nel campo dismesso dall’avversario. L’ultima mossa di un’avventura mediatico/politica.
Non c’è mai stato confine: il programma era la comunicazione, la comunicazione il programma. Di qui la campagna elettorale delle utopie, il governo degli annunci, i sorrisi, le canzoni, la televisione.
Ripartiamo proprio da lì, per riassumere la storia del rapporto tra Silvio Berlusconi e i media, dal mezzo che più di ogni altro lo ha rappresentato: il settimanale Sorrisi e Canzoni Tv, appunto, con le sue copertine garrule, il logo su quel fondo azzurro che ha sempre raccomandato. Al direttore di un suo tg (5 e/o 1, a seconda del momento) suggerì: «Tanto azzurro sugli schermi, eh, rilassa la gente, evoca le vacanze, l’assenza di preoccupazioni». Guarda, poi, i cieli alle sue spalle nei manifesti di Forza Italia.
I programmi della tv come quelli di governo, la seduzione istantanea, con un gesto di inaudita cortesia, accompagnato da un assegno di uguale portata o in bianco (come quello che offrì a Sandra e Raimondo o a certi senatori per defezionare in suo favore).
Ciò che non si aspettava è che qualcuno potesse non ricambiare, che qualcosa potesse non essere comprato. Lo presero di sorpresa l’indisponibilità di Indro Montanelli (altroché Rosy Bindi) quando lasciò il «suo» Giornale per fondare la Voce e, ancor più, quella della stampa intera a portarlo in trionfo sulle ginocchia dopo la vittoria elettorale del ’94. «Ma non erano, per definizione, governativi?» si chiese stupito. L’avviso di garanzia consegnato in pieno G7 a mezzo stampa lo sbalordì: più i modi che la cosa in sé. D’altronde, se un capo di governo è nei guai ma la tv e i giornali non lo raccontano, è davvero nei guai?
Il fatto gli parve contraddire la storia. Quale? La sua. «La mia storia» era il titolo dell’indimenticabile opuscolo spedito nelle case degli italiani alla vigilia del voto. Trasudava fiducia, successo e, va da sé, azzurro. Non c’era autore, come nella Bibbia. Tramandava una vicenda esemplare. Avendo fede, poteva salvare anche te: bastava credere, nelle tue forze, nella sua venuta e nel milione di posti di lavoro.
Rispetto ai media Berlusconi ha praticato (senza perdere tempo a teorizzarla) la disintermediazione. Ha eterodiretto i suoi giornali e telegiornali (fino al punto in cui alcuni esecutori lo hanno scavalcato, avvolti nelle bandiere, piantando le bandiere, facendosi bandiere al vento). Ha compilato le scalette dei varietà domenicali (intuite come le autentiche fabbriche del consenso). Ha fatto il regista delle proprie apparizioni, curandone il dettaglio, rendendo ogni cosa illuminata: un effetto cross screen dai denti e dagli occhi, il resto perfettamente ammorbidito dalla calza sull’obiettivo. Alle spalle, la libreria levigata e marmorea. Non era l’epoca digitale, non si poteva bloccare e zoomare, ma si può stare certi che non si sarebbe trovato un libro sbagliato. O sfogliato.
Nei salotti televisivi altrui conduceva lui, sempre e comunque. Nessuno, neppure i più scafati, gli è stato al passo. Basti pensare a come Beppe Grillo è affondato nelle sabbie mobili di Bruno Vespa e come invece Berlusconi lo abbia circoscritto e coinvolto mentre firmava il contratto con gli italiani. Il vero blob era lui. Lui la gelatina che ha avvolto in un gommoso fascio parole e musica. Quel che non poteva comprare ha cercato di toglierlo dal mercato. Ha usato volonterosi sicari per «character assassination» che non si è mai intestato.
È stato, anche, un continuo bersaglio, ma faceva parte del gioco. L’ha capito troppo tardi, pensava bastasse darsi le carte, ma anche un solitario ha le sue regole. «Unfit» a chi? È stato l’ossessione dei suoi avversari, l’oggetto di nomignoli più o meno azzeccati e feroci che svaniscono con lui. Ha offerto il proprio corpo allo scrutinio, facendone fiction dai capelli al fondo delle scarpe. Si è sempre esibito, tranne una volta. Risulta ancora incredibile che non abbia accettato un duello tv. Non è possibile abbia mai dubitato di vincere, anche perché il più delle volte ci è riuscito. Gli bastava lasciar perdere i numeri, i fogli ripiegati, le penne, quel grande ingombro che è la storia e fare quel che meglio gli riusciva: teatrino. Magari ripulendo la sedia su cui era stato seduto l’avversario, prima con foga, poi con attenzione, con una mimica che poté più d’ogni offesa.
È stata mai comunicazione di regime? Soltanto per quelli che non la conoscono. Nel 2003 fece un viaggio in Medio Oriente. Al Cairo, dopo l’incontro con il rais Mubarak, venne organizzata una conferenza stampa congiunta. I due si presentarono petto in fuori, inorgogliti dai giubbotti antiproiettile. Le domande erano concordate, ma lo sgangherato cerimoniale egiziano permise a una free-lance di infilarne una a sorpresa. Per tutta risposta Mubarak si voltò e lasciò la sala, andando probabilmente a licenziare il capo del protocollo. Berlusconi attese qualche istante, poi scese dal podio, venne verso la giornalista, le si sedette di fronte, sguainò il sorriso artificiale e gorgheggiò il suo refrain: «Mi consenta...». Disse poi qualcosa che assomigliasse a una verità, raschiò un fondo di sincerità? No, mai, quello mai, era inadatto. Unfit for the truth. —
Massimiliano Panerari per Sta«Parla come mangi» (o, per meglio dire, fai in modo di simularlo). La politica orizzontalizzata e l’antipolitica hanno un precursore fondamentale in Silvio Berlusconi. E pure per ragioni linguistiche, poiché dagli anni Novanta molti elettori italiani si ritrovano a voler votare qualcuno che, tanto per cominciare, «parla come loro». Difficile sostenere che il «presidente operaio» fosse precisamente equiparabile ai suoi votanti nei ceti popolari, ma all’insegna di una formula che ha mescolato storytelling, pubblicità elettoral-commerciale e marketing politico (fortemente debitrice della lezione del reaganismo) con uno spiccato talento individuale per la comunicazione (anche interpersonale), il fondatore di Forza Italia sfonderà anche mediante la modificazione dei registri linguistici della politica. In un Paese che, nell’immediato post-Tangentopoli, non ne voleva più sapere dei codici oscuri ed esclusivi del «politichese»; ed è proprio per questo che, nel clima d’opinione del periodo, la «lingua da bar sport» di Umberto Bossi (sodale, nelle differenze, di Berlusconi) si rivelò uno dei fattori del successo della Lega Nord.
Il linguaggio del tycoon milanese si intreccia strettissimamente con la sua parabola esistenziale (tra economia, sport e politica), e costituisce una rilevante pagina a tutti gli effetti del postmoderno all’italiana. Alle radici del berlusconismo, difatti, c’è molto del fastoso spirito dei tempi (e dell’ubriacatura) degli anni Ottanta – riflesso nella vetrina sociale della Milano da bere, costellata di yuppies e con la Borsa immersa in una corsa a perdifiato – che sgocciolerà in parole chiave del suo vocabolario come quelle del «sogno» e del «nuovo miracolo italiano». Come pure, sotto il profilo della genealogia, un certo ambiente lombardo dell’avanspettacolo e del cabaret, che Berlusconi ha respirato a pieni polmoni, e da cui gli veniva una forma mentis rivolta all’intrattenimento quale filosofia di vita (e di profitto), destinata a tradursi anche, molto concretamente, nella sua predisposizione a mettersi al centro di un palcoscenico e nella sua versatilità nell’attirare un pubblico. Il «Silvio» barzellettiere e chansonnier sulle navi da crociera: quella propensione indomabile che gli ha procurato svariati guai – e alcuni guasti d’immagine per il Paese – quando, da presidente del Consiglio, ha continuato a sfoggiarla nei consessi internazionali. Ma che, al medesimo tempo, ha costituito un suo formidabile asset di costruzione del consenso in patria, nel nome di una sintonia quasi antropologica con una «certa idea dell’Italia» e dell’attuazione del paradigma del rispecchiamento. Giocati, di frequente, a colpi di un’empatia personale (sovente riconosciuta dai suoi avversari) dove trovava spazio anche la volgarità, considerata alla stregua di un elemento di rottura e di “autenticità” rispetto alle consuetudini del buon costume e della morale istituzionale.
Un linguaggio immediato – perché Berlusconi è stato il primo campione nazionale della disintermediazione populista – e rivolto all’«uomo qualunque» e all’«italiano medio». E una neolingua intrisa di «aziendalese» (a testimonianza del suo essere un «uomo del fare», proveniente dal «Paese reale», in contrapposizione con i «palazzi» della politica) e di gergo sportivo, in particolare calcistico. Quella berlusconiana, infatti, è sport politics, con il presidente di Forza Italia che, all’insegna di una metonimia, è stato, indissolubilmente, quello del Milan, e colui che indossava i panni dell’allenatore, del coach, del motivatore e del primo tifoso della nazione come squadra. Svolgendo tutte le parti in commedia, nelle vesti di salvatore e giustiziere-vendicatore dell’Italia, «il Paese che amo», come recitava nel video in cui annunciava, a fine gennaio 1994, la sua celeberrima «discesa in campo» (altra espressione centrale del suo lessico).
A minacciare il florido sistema-Paese erano la «sinistra» e i «comunisti» (etichetta passepartout e sinonimo di un male quasi metafisico), che si annidavano dovunque, specialmente nei poteri e nei gangli vitali dello Stato, ribadendo così la sua narrazione come outsider e – un tipico paradosso politico postmoderno – figura antisistema e antiestablishment. Il suo anticomunismo – accanto alla componente puramente propagandistica – conteneva l’idea populista della rottura irrimediabile dell’unità del popolo, che Forza Italia partito pigliatutto e il suo leader, amatissimo dagli italiani, intendevano ricomporre.
Il Berlusconi introduttore delle metodologie della campagna elettorale permanente in Italia è, infatti, lo Zelig dello slalom tra innovazione e tradizione, e del «doppio elettorato» (come sottolineato da alcuni studiosi, fra cui Marc Lazar), vale a dire quello degli insoddisfatti degli assetti esistenti e degli arrabbiati antipartiti a cui rivolge annunci e promesse spesso mirabolanti, ma pure uno più tradizionale, al quale si indirizza con un linguaggio persuasivo moderato e conservativo (compendiabile nella proverbiale locuzione del «mi consenta»).
Naufragata – anche piuttosto rapidamente – la spinta verso la «rivoluzione liberale», il berlusconismo ha lasciato come eredità perenne una «rivoluzione linguistica» e un immaginario che si è sostanziato anche di parole – ovvero di atti linguistici (come direbbero i filosofi analitici) che esercitano un’influenza e cambiano il contesto circostante. Arrivando – anche attraverso la potenza della logica mediale della sua neotelevisione – a creare, per una lunga stagione, un’autentica egemonia culturale (e sottoculturale...). Che ha provato pure a dare l’assalto alle piattaforme, con lo sbarco su TikTok prima delle politiche del 2022: un’operazione dall’esito cringe (come direbbero gli utenti del social), in cui il Berlusconi barzellettiere si reinventò storyteller finto-giovanilistico. Ottenendo comunque, prima della dolorosa “fine delle trasmissioni” di ieri (e del prossimo possibile “finale di partito"), il suo obiettivo di sempre: bene o male, l’importante è che se ne parli. —