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 2023  giugno 13 Martedì calendario

Intervista a Sara Simeoni


L’intervista a Sara Simeoni, oro all’Olimpiade di Mosca: «Io e mio marito da 50 anni una squadra affiatata. Non c’era ricerca scientifica, saltavi e basta, non potevi parlare del ciclo. Il mio mal di schiena di oggi dipende da allora»
Sara Simeoni: «Vinsi l’oro, poi mi misero in un angolo. Le atlete donne erano viste come perdita di tempo»
Sara Simeoni (Ansa, Afp)
Da bambina le piaceva disegnare, scommettevano su di lei come futura artista?
«Di certo nessuno immaginava che un giorno sarei diventata un’atleta. Lo sport, per una donna nata nel 1953, al massimo poteva essere un passatempo. E da coltivare con moderazione».
E però, la piccola Sara, nata a Rivoli Veronese, sulle rive dell’Adige, si divertiva a correre sul prato della casa-azienda agricola di famiglia.
«Tutto cominciò per caso, con una insegnante di educazione fisica che convinse i miei genitori a iscrivermi a una scuola di atletica leggera. Prima gara: saltai un metro e 25, stile frontale, palestra di campagna. Prima competizione vera al campo scuola nel 1966. Non c’era la cordicella ma un’asta. Mi spaventai e dissi “Come si fa?”. Non so come, ma saltai. E da allora per tutto il gruppo diventai quella del salto in alto. Oplà».
«Capitana» senza volerlo.
«Il punto è che all’epoca non c’era tutta questa ricerca scientifica intorno allo sport. Spesso saltavi e basta, correvi e basta. Oggi il mio mal di schiena perenne è dovuto anche al fatto che alcuni movimenti forse erano sbagliati ma non lo sapevi. Tutto era rudimentale, pensi che quando veniva il ciclo si faceva fatica anche a parlarne, lo chiamavano “il carattere delle donne”, era una specie di incidente increscioso mensile».
Nella sua autobiografia (Rai Libri) «Una vita in alto», lei racconta che lo stile ventrale, con la pancia in sotto, era quello dominante. Ci si trovava bene?
«No, mi faceva paura, io preferivo lo stile a forbice. Gli allenatori poi vedevano le donne atlete come una perdita di tempo e allora ci caricavano di fatica fisica assurda, convinti che avremmo mollato dopo un po’ per metterci a ricamare e a far da mangiare».
Lei, però, non mollò.
«No e, anzi, osai saltare nello stile Fosbury, in dorsale. Il problema è che non eravamo attrezzati: ad ogni caduta prendevamo botte terribili».
Cominciarono le gare vere: gli juniores a Parigi, quindi Helsinki, giusto?
«Conobbi Mennea, eravamo un’Italia agguerrita anche se le mie scarpe erano un disastro, le attrezzature non erano adatte. Non so come, arrivò l’Olimpiade di Monaco 1972. Migliorai il record italiano, finii sesta nella classifica finale e mentre mi preparavo a festeggiare, nel villaggio olimpico calò la morte. Un commando terroristico sequestrò atleti e allenatori israeliani, ci arrivò la notizia dei morti. E pensare che in quell’anno io e Erminio ci eravamo innamorati».
Erminio Azzaro, che divenne il suo allenatore.
«Stiamo insieme da mezzo secolo, abbiamo un figlio, non abbiamo mai smesso di fidarci l’uno dell’altra. Erminio mi prendeva sul serio, cosa che pochi facevano con le atlete. Oggi è diverso, si allenano come macchine programmate per vincere. All’epoca era tutto più improvvisato e la fiducia faceva la differenza. I miei erano contrari al fatto che fosse lui ad allenarmi: si fidavano di Bragagnolo, come tutta la squadra. Io puntai i piedi: o lui o lascio l’atletica. Nessuno replicò».
Eccola, la capitana.
«Javier Sotomayor, primatista del mondo con 2 metri e 45 centimetri, che dichiarò pubblicamente di aver “studiato i salti della Simeoni”».
Prima medaglia vera?
«Il bronzo a Roma nel 1974. Poi venne l’Olimpiade di Montreal del ‘76: argento, unica medaglia italiana nell’atletica in quella competizione. Ma le racconto un dettaglio: nonostante la mia carriera fosse in ascesa e i successi, anche se lentamente, si accumulavano, non mi sentivo sicura. Mi iscrissi all’Isef: non si sa mai, pensavo. Oggi le atlete sono molto più incoraggiate, vedono la competizione come una vera carriera professionale. Per noi, c’era sempre un orizzonte incerto. Sì, oggi vinco, ma poi, che succederà?».
Se le dico Brescia, 4 agosto 1978?
«Le rispondo con una parola magica: due-zero-uno, il nuovo record del mondo nel salto in alto femminile, quei due metri che cambiarono la mia vita. Cominciò anche la pressione mediatica: pensi che mi chiedevano di inventarmi qualche love story così, per farmi pubblicità. Io strabuzzavo gli occhi: e se poi nelle interviste sbaglio nome perché mi confondo?, dicevo. Follia. Io non riuscivo a saltare senza la solida certezza della mia famiglia, di mio marito accanto a me. Non so come facciano certe atlete di oggi, piene di tormenti sentimentali. Quando saltavo, non saltavano solo le gambe e il dorso, ma saltava Sara, con la sua vita, i suoi affetti, le sue ansie. In quell’anno ho fatto il record del mondo per due volte. Le riprese della gara di Brescia mi arrivarono, pensi, trent’anni dopo, girate da un trentino sugli spalti».

E il bello doveva ancora venire: Mosca, 1980.
«Quella Olimpiade per me voleva dire una cosa sola: oro. Ero determinata ma spaventata. Una strizza che non le dico, forse perché per la prima volta chiedevo tanto a me stessa. Quando arrivò l’oro pensai che da qualche parte ero arrivata e finalmente mi convinsi che tutti quei sacrifici erano valsi la pena. Però poi, ad Atene, mi feci male e imparai, con amarezza, che quando vinci ricevi grandi telegrammi e la volta che non porti la medaglia d’oro a momenti manco ti salutano».

Oggi si guarisce in fretta?
«Noi perdevamo mesi prima di rimetterci completamente in sesto per traumi da cui oggi si guarirebbe in qualche settimana. Però a Los Angeles, nel 1984 portai a casa un bell’argento. Ma poi dissi addio alle gare, lo feci in Sardegna, quasi sottovoce, d’istinto. E fu allora che imparai che lo sport non è una bella favola dove tutti si vogliono bene. La Federazione mi chiamò per collaborare, divenni responsabile del “Club Italia”, un laboratorio dove aiutavamo i ragazzi e le ragazze più promettenti. Poi, però, un giorno mi misero da parte».
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E fu così che lei tornò a insegnare?
«Per quindici anni ho insegnato nella facoltà di Scienze Motorie di Chieti. Poi nel 2017, a sessantaquattro anni compiuti, tornai nella mia scuola di Garda. Avuta la cattedra di educazione fisica nel 1984, tra un distacco e l’altro non ero mai riuscita a fare i centottanta giorni continuativi di prova richiesti dalla burocrazia scolastica per essere a tutti gli effetti un’insegnante di ruolo e accedere alla ricostruzione della carriera ai fini della mia futura pensione».
E iniziò un’altra «gara»?
«Cavilli, codici, domande, iscrizioni. Risultato: finalmente venni assunta, ma quella che doveva essere la mia cattedra era occupata, per cui, trentasette anni dopo aver vinto la medaglia d’oro all’Olimpiade di Mosca, indossai panni della “professoressa di potenziamento”. Ossia, diventai una supplente».
Ma perché la Federazione o il Coni non le hanno assegnato incarichi più prestigiosi, secondo lei?
«Boh, forse perché non ho mai coltivato le amicizie giuste. Ma va bene così, da un po’ è iniziata la mia terza vita».
In televisione. I Mondiali commentati da lei sono stati uno spasso.
«Di calcio non capisco nulla, ma so riconoscere lo sport fatto bene. Il Circolo degli Anelli prima e il Circolo dei Mondiali dopo mi hanno dato una grande opportunità, quello di mostrarmi in una veste inedita, una capitana più spiritosa, diciamo. Mi sono divertita e ho imparato tanto. Ringrazio dunque la Rai. Non ho rimpianti. Ho un figlio meraviglioso e un marito che amo come il primo giorno. Quando mi chiedono come si fa a stare mezzo secolo assieme, rispondo che bisogna pensarsi sempre come una squadra affiatata».