Corriere della Sera, 13 giugno 2023
Su "Il giorno in cui finì la Grande guerra. Losanna, 24 luglio 1923: i civili ostaggio della pace" di Jay Winter (il Mulino)
Nel 1927 Thornton Wilder diede alle stampe un libro destinato a grande successo, Il ponte di San Luis Rey (Mondadori), che prendeva a pretesto il crollo, nel 1714, di un importante viadotto peruviano per ricostruire e raccontare le storie di cinque persone che si trovarono lì nell’istante di quella tragedia e persero la vita. Jay Winter, ispirandosi all’opera di Wilder, ha compiuto un’operazione analoga in Il giorno in cui finì la Grande guerra. Losanna, 24 luglio 1923: i civili ostaggio della pace, un prezioso saggio che esce il 16 giugno dal Mulino. Winter racconta quel che fecero le varie delegazioni che parteciparono alla Conferenza di Losanna del 1923, delegazioni che, come i personaggi di Thornton Wilder «incarnavano storie differenti e differenti aspettative». Storie differenti e differenti aspettative che non dissuasero i delegati, tutti i delegati, dal ritrovarsi uniti a firmare quel trattato. Oppure, come nel caso della Società delle Nazioni, dallo svolgere un ruolo importante nel concepirlo. Le loro firme predisposero il terreno per il crollo del ponte, vale a dire per le catastrofi che sarebbero seguite.
Perché Winter sceglie la città svizzera e quell’anno specifico? Per il fatto che la Grande guerra — secondo Winter — durò in realtà dieci anni, cinque in più della conclusione ufficiale e terminò con la Conferenza di Losanna del 1923. La Prima guerra mondiale, scrive lo studioso, «non finì, come i manuali si ostinano a ripetere, l’11 novembre 1918 con l’armistizio sul fronte occidentale, né il 28 giugno 1919 con la firma del trattato di pace a Parigi». Su questo ormai concordano molti storici, primo tra tutti Robert Gerwarth con La rabbia dei vinti: la guerra dopo la guerra, 1917-1923 (Laterza) e Guerra in pace: violenza paramilitare in Europa dopo la grande guerra (Mondadori). Nell’ultimo anno il conflitto mondiale si era frammentato in una serie di guerre decentrate che tra il 1919 e il 1923 avrebbero prodotto una devastazione non minore di quella del quinquennio precedente. Devastazione aggravata, con la sanguinosa contesa greco-turca, da un processo di «civilianization». Civilianization? Questo termine in passato stava ad indicare il «ritorno alla vita civile» o addirittura un processo di «incivilimento». Da una decina d’anni è entrato invece nel lessico specialistico per fotografare qualcosa di senso assai diverso: «il passaggio», scrive Winter, «dalle guerre dirette da comandi centralizzati contro eserciti nemici» a «conflitti, con o senza centri di comando formali, in cui il bersaglio primario è costituito da civili». Qualcosa del genere si era già intravisto nel corso della Prima guerra mondiale come hanno messo in luce Stephane Audoin-Rouzeau e Annette Becker in La violenza, la crociata, il lutto (Einaudi).
La guerra ai civili ha una lunga storia che risale a tempi precedenti al 1914. Una tappa fondamentale di questa storia sarebbe stata, a partire dal 1915, l’uccisione in massa della popolazione armena ad opera dell’Impero ottomano, raccontata già nel 1933 da Franz Werfel in I quaranta giorni del Mussa Dagh (Mondadori) e oggi accuratamente documentata da Marcello Flores in Il genocidio degli armeni (il Mulino) e da Marco Impagliazzo in Il martirio degli armeni. Un genocidio dimenticato (editrice La Scuola). Armeni che, a dispetto dell’instancabile attivismo del loro rappresentante Boghos Nubar, proprio a Losanna avrebbero visto svanire il loro sogno di autodeterminazione. Nubar si batté con tutti i mezzi a disposizione. Sciaguratamente per lui, scrive Winter, «la forza militare non era tra questi». Il genocidio aveva ridotto il popolo rappresentato da Nubar a una «nazione di rifugiati» e dopo la presa del potere dei bolscevichi nell’Armenia russa (dicembre 1920), quel popolo era stato «abbandonato dagli occidentali proprio nel momento in cui avrebbe avuto più bisogno del loro sostegno».
Nel 1923 sulle rive del lago Lemano la guerra ai civili fece però un passo in avanti decisivo e terribile. Quando i delegati alla conferenza di Losanna accettarono di pagare, come prezzo di una possibile pace, la deportazione forzata di oltre un milione e mezzo di civili — spiega Marco Mondini in un’attenta postfazione al libro di Winter — «stabilirono un precedente che avrebbe tormentato da allora in avanti ogni tentativo di risolvere un conflitto». Da Losanna in poi milioni di civili divennero «ostaggi, scambiati nell’interesse della pace». Andò così — restando nel nostro continente — per l’annientamento dopo il 1945 delle comunità tedesche nell’Europa centro-orientale, per il trasferimento di popolazioni in Unione Sovietica, per le terribili campagne di pulizia etnica dei Balcani. Popolazioni inermi vennero private di voce, sradicate dalle loro case, lasciate a pagare il prezzo delle sofferenze postbelliche. Sofferenze per certi versi peggiori di quelle inflitte nel corso della guerra vera e propria. Una lezione da tenere viva nel ricordo, puntualizza opportunamente Mondini. Soprattutto «quando si invoca la pace ad ogni costo».
I conflitti precedenti erano stati caratterizzati da una tradizione onorata per secoli che prevedeva, come «clausola automatica dei trattati di pace siglati al termine delle ostilità», lo scambio dei prigionieri di guerra. Nel 1923 accadde invece «qualcosa di nuovo e terrificante»: la condizione per la cessazione del conflitto fu «uno scambio forzato di civili». Coloro che vennero sradicati dalle proprie abitazioni — in Grecia come in Turchia — erano «non combattenti», identificati in base all’appartenenza religiosa e non alle idee politiche, all’identità linguistica e culturale. Il precedente stabilito a Losanna, secondo Winter, fu «tossico».
Certo, ammette lo studioso, «c’è una differenza fra il modo in cui a Losanna fu cancellato il diritto alla cittadinanza di comunità umane ritrovatesi in una zona di guerra, e le azioni che avrebbero compiuto in tempi successivi i nazionalsocialisti». A Losanna si usò la religione e non la razza come requisito per determinare la cittadinanza. Ed è «una distinzione importante», concede ancora Winter. Eppure «sancire nel diritto internazionale la definizione di nazionalità su base religiosa — ovvero che l’essere greco-ortodosso rendesse quasi sempre impossibile essere cittadino turco, o che l’essere musulmano precludesse la cittadinanza greca — fu il primo passo di una discesa agli inferi. Discesa agli inferi che, come ha ben spiegato Mark Mazower — in Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo (Garzanti) — trasformò l’Europa in un «continente oscuro».
Il paradosso — agli effetti di quello di cui stiamo parlando — fu che il 1924, l’anno successivo a quello della conferenza di Losanna, fu il primo (dopo dieci) in cui non si registrò alcuna guerra su vasta scala sul continente europeo. Ciò fu considerato come un benefico effetto proprio del vertice di Losanna. La Spagna era ancora impegnata in combattimenti contro le tribù berbere nella regione marocchina del Rif, ma lo scontro si svolgeva sull’altra sponda del Mediterraneo. Qualche eco di scontri giungeva dalla Cecenia, dall’Hegiaz, dall’Iran, dall’Afghanistan, dall’Honduras. Ma almeno per un po’, scrive Winter, «l’Europa, dall’Irlanda alla Russia, fu un luogo di pace, in cui parve imporsi la distensione». Nel 1924 non venne nemmeno assegnato il Nobel per la pace.
Altro paradosso (quantomeno oggi appare tale) fu che a proporre la «soluzione di Losanna» fu proprio l’alto commissario della Società delle Nazioni per i rifugiati, lo scrittore, esploratore, scienziato e politico norvegese Fridtjof Nansen. Beneficiando del sostegno di tutti i governi coinvolti, Nansen elaborò con grande cura la proposta di uno scambio tra Grecia e Turchia di «popolazioni minoritarie». Senza ricorrere a giri di parole, disse ai delegati che solo se si fosse riusciti a «non mescolare» i popoli del Vicino Oriente si sarebbe «assicurata una reale pacificazione» nell’intera area geografica. Questa misura — sostenne — rappresentava «la maniera più rapida ed efficace di affrontare le pesanti e inevitabili conseguenze sul piano economico dei massicci movimenti di popolazione» che già avevano avuto luogo. Il suo prestigio fu offerto a garanzia dell’esito pacifico di una micidiale sperimentazione.
Nansen sapeva che sia la delegazione greca che quella turca erano pronte ad accettare il suo piano e «si fece avanti in modo da farlo approvare con rapidità sufficiente per salvare la vita di centinaia di migliaia di esseri umani in fuga dal teatro di guerra». Una motivazione che lì per lì convinse tutti. Chi poteva dubitare della bontà di quell’intenzione? In fondo, i delegati delle nazioni presenti alla Conferenza cercavano solo una qualsiasi via per lasciarsi alle spalle le guerre. Ma l’operazione aveva un prezzo: la violazione dei diritti umani di coloro che — tanto in Grecia quanto in Turchia — non avrebbero voluto abbandonare le proprie case. A loro non fu concesso di esprimersi in merito a quella «benefica operazione». Per «salvare delle vite», vennero sacrificati i loro diritti. E quel sacrificio fu la pietra miliare di operazioni dall’intento altrettanto benefico che, però, nel secolo successivo provocarono infiniti lutti. Lutti uguali, talvolta peggiori di quelli causati dai conflitti in armi.
Il 1924, come si è detto, fu, quantomeno in Europa, un anno di pace. L’ombra della guerra andava dissolvendosi. Ma, fa osservare Winter, «non era del tutto svanita». Milioni di famiglie erano ancora in lutto per i propri cari o si trovavano a gestire gli invalidi. L’instabilità economica era meno acuta che in precedenza, però esistevano ancora «eserciti di disoccupati senza voce politica e privi di risorse». I militanti dei movimenti fascisti e comunisti andavano rafforzando i propri arsenali «ma si trovavano ancora, eccezion fatta per l’Italia, costretti ai margini della scena politica». Una specie di pace era arrivata per l’Europa e Losanna «si era lasciata dietro una qualche speranza che tale pace potesse essere duratura». Sensazione a cui si aggrapparono in molti in quell’estate del 1923.
Sedici anni più tardi la guerra sarebbe tornata, prima su scala continentale e poi in tutto il mondo. Si deve però affermare, scrive Winter, che «questo ritorno non ebbe nulla di inevitabile». Allora come oggi «si trattò di una scelta». Una scelta riconducibile al fatto — ai tempi (e ancor oggi) poco percepito — che tra il 1914 e il 1923 era profondamente cambiata la natura stessa della guerra.
Il lato peggiore di questa trasformazione fu, secondo lo studioso, il modo in cui la violenza delle armi finì per colpire soprattutto i civili, quello che nel libro è definito, appunto, il processo di civilianization della guerra.
Il trattato di Losanna mise in risalto questo mutamento. L’elemento chiave del compromesso fu come si è detto l’accordo sullo scambio forzato di popolazioni che Grecia e Turchia raggiunsero il 30 gennaio 1923. Da allora in poi numerose guerre su vasta scala si sono concluse non solo — come accadeva già prima di allora — con scambi di prigionieri, ma con espulsioni e fughe in massa di civili. Nel secolo che ci separa da quel 1923 è accaduto in Spagna, Grecia, Russia, Germania, Polonia, Palestina, in molte parti dell’Africa, Cina, Ucraina. Nel 1923 lo scambio coatto fu «animato dall’intenzione di offrire una soluzione rapida a una specifica emergenza che riguardava i rifugiati». Ma finì per diventare soprattutto «un presagio di ciò che sarebbe accaduto in futuro». Presagio di devastazioni umane di grandi proporzioni. Da allora la guerra, con tutta la sua terrificante violenza, non è più stata un affare esclusivo dei soldati: si è trasformata in un’occasione in cui eserciti di non combattenti, fra cui uomini, donne e bambini, vengono espulsi dalle loro case e spediti, se sono fortunati, a vivere la propria vita altrove. Anche se spesso, sempre più spesso, li attendeva un destino di morte.