La Stampa, 12 giugno 2023
La storia di Omar Favaro
Una storia universale è quella di Omar Favaro. Può sembrare paradossale non considerare un’eccezione il caso di un ragazzo che uccise a 17 anni e 22 anni dopo, libero da 13, viene accusato di violenze contro la ex moglie. Eppure ci sono elementi che riguardano tutti: il marchio del passato, il rapporto con il perdono e la redenzione, la fiducia nei tempi e modi della giustizia. Fors’anche, lo dovranno chiarire i giudici, il richiamo del male, che sa essere banale soltanto nella sua ostinata coazione a ripetere.
Omar è stata una delle figure oscure all’alba del nuovo millennio. Sette mesi prima dell’attacco alle Torri Gemelle, quando ancora non avevamo incubi su scala globale, apparve sulla scena, indissolubilmente legato alla fidanzata, Erika, di un anno più giovane. I loro nomi sarebbero rimasti a lungo nell’immaginario collettivo come una minaccia, di certo da non dare ai neonati. Massacrarono a coltellate la madre e il fratellino di lei. Erika spaventava perché era al tempo stesso mandante ed esecutrice, custodiva dentro di sé il movente, era stata capace di una ferocia adolescenziale sproporzionata. Eppure si poteva arrivare a comprenderla elevando all’ennesima potenza un sentimento che in tanti giovani passa come una nube nera, si esprime in una frase avventata, poi se ne va. In lei si era addensato, fino a diventare tempesta. Ma Omar? È sempre più complicato capire il complice, quello che viene trascinato in un gorgo e non agisce per ritrarsi. Nella scala delle responsabilità viene messo a seguire, senza considerare che a lui, non accecato, è consentito salvare e salvarsi. Perché non lo fa? Omar è rimasto un enigma. La sudditanza psicologica nei confronti della femmina che gli imponeva il delitto «anche mentre facevano l’amore» è una soluzione facilitata, da lui stesso offerta. E contraccambiata con una condanna minore che gli ha aperto le porte del carcere nel 2010, 9 anni dopo l’assassinio.
Viene in mente Sibora Gagani, giovane italo-albanese scomparsa 9 anni fa, il cui cadavere è stato ritrovato, murato, in un appartamento a Torremolinos, in Spagna. L’ha uccisa l’ex fidanzato. A lui si è arrivati perché ha ammazzato anche la nuova compagna, a coltellate. Il marchio del passato, la coazione a ripetere, il richiamo del male. E, soprattutto, questa frase pronunciata dalla madre della vittima: «Spero lo tengano nella prigione spagnola, perché se lo estradano in Italia finisce male: domiciliari, sconti, permessi e dopo poco è libero».
Nove anni e Omar Favaro, in regola per la giustizia, era pronto per il rito di purificazione. Non si celebra in un luogo sacro, né pubblico, ma a un pubblico destinato: la televisione. A dieci anni dal delitto è apparso nel programma di Canale 5 Matrix, per un’intervista esclusiva condotta da Alessio Vinci. Riguardarla oggi è al contempo facile (basta una veloce ricerca su internet) e difficile (bisogna allontanare la tentazione del senno di poi). Le stonature nella partitura tuttavia risaltano. Cerca i tasti troppo battuti con cui viene creata una colonna sonora compassionevole della nostra realtà. Per l’inaccettabile si invocano due rimedi: il perdono e la redenzione. Non sono retaggi cristiani, ma affrettati riti laici, consumati in favore di telecamera, sanciti da una didascalia virgolettata che corre a farsi spazio nei notiziari e ricade nei discorsi, tra scetticismo e voglia di chiudere una vicenda. E così Omar racconta le urla della madre di Erika morente, ma dalla gola le fa uscire la frase: «Ti perdono, ti perdono». L’inseguimento mediatico che dura dal primo microfono davanti alla bocca dei parenti a questa rievocazione postuma può considerarsi concluso. Manca ogni spiegazione dell’accaduto («Non so perché lei odiasse così tanto la sua famiglia», «Non so perché non ho avuto la forza di aiutarla nel modo giusto»), ma questo è scalpore superabile in nome del passo successivo: la redenzione. «Oggi non sono più quel ragazzo. Ora so che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. Chiedo la possibilità di poter tornare a vivere, ma temo il pregiudizio».
Lui teme il marchio del passato, gli altri il richiamo del male. Quest’ultimo si manifesta nei precedenti, in analogie che riaffiorano come il sapore di un cibo che ha prodotto danni eppur si rivede nel piatto. Ecco l’immagine di Angelo Izzo, uno degli autori del massacro del Circeo nel 1975 e recidivo (ancora ai danni di due donne) trent’anni dopo, mentre era in semilibertà. O di Pietro Maso, che nel 1991 ammazzò i genitori per averne l’eredità. In apparenza poi pentito, redento, consigliere di giovani arrabbiati con la famiglia, destinatario di corrispondenza ecclesiastica, liberato nel 2013. Nel 2016 minacciò le sorelle: «Finisco il lavoro di venticinque anni fa». Ha pubblicato un libro sul suo delitto, castigo e riscatto. Titolo: Il male ero io. Il verbo è all’imperfetto in ogni possibile senso.
Non si può generalizzare, ma la maggior parte dei percorsi di giovani assassini borghesi ha punti in comune. Compresa la compulsione di molti per incontrarli, affiancarli, convertirli o piuttosto provare il brivido di scoprirne il lato oscuro.
Omar resta un passo indietro agli altri per la presunta caratteristica di succube, quasi strumento di un’altrui volontà omicida. Più che il pregiudizio da lui denunciato, dovrebbe temere il post-giudizio perché l’eventuale verità delle accuse della ex moglie, la prova degli abusi e delle minacce («Ti sfregio», «Ti mando in sedia a rotelle») cambierebbero anche la percezione del suo passato, del suo ruolo in quel delitto di 22 anni fa. Non è solo la vicenda di un matrimonio finito male ad aspettare un verdetto. Quel che riguarda tutti e che anche in questo caso rimane in ombra è l’inefficacia del proposito rieducativo della pena, la lettera, se non morta agonizzante, del penultimo capoverso dell’articolo 27 della Costituzione, il perdurante affidamento del capovolgimento delle coscienze al mistero dei destini individuali. —