La Stampa, 12 giugno 2023
La Romagna un mese dopo l’alluvione
Mi chiedi di fare il punto, ormai è passato un mese, come vanno le cose lì? Ah, è passato un mese? Perché un paio di giorni fa è piovuto, è piovuto per qualche ora, una quieta pioggia di tarda primavera e era come se fossimo tornati al giorno dopo, la città ridiventata d’argilla, il fango ritornato vivo e plastico, il fango che pensavi di aver pulito via e invece è ancora insediato in ogni cosa, quell’argilla finissima che andrebbe bene per modellarci dei vasi. Ora che è tornato il sole, l’argilla si è di nuovo seccata, di nuovo siamo lì a scrostarla via e è tornata polvere che si leva dalle strade, dalle case e grava nell’aria, entra nei polmoni, secca le mani, brucia negli occhi. Vista da un elicottero Faenza si intravvede sotto una cortina di quella tonalità marroncina che la luce alta di giugno marezza di sfumature dorate, è il colore della nostra primavera, il colore di ogni cosa, il colore di tutti noi.
Mi chiedi di fare il punto? Non c’è nessun punto, non c’è nessun calendario, siamo ancora dentro l’alluvione, ci siamo fino al collo. Tutti, anche noi che siamo asciutti. Non ci sono più orologi che funzionino, il tempo va per la sua strada e noi andiamo per la nostra. E la nostra strada si ferma su una frana che ieri non c’era, la mia bicicletta su un coccio di vetro che è riemerso nella notte, le intenzioni del sindaco sui soldi che ieri, il governo l’ha giurato, c’erano e ora non ci sono più. Già, le strade, le strade di tutti, le nostre strade di città che non si finisce mai di pulire, di sgombrare, di disinfettare, e continuano a emanare un odore, un tanfo, che sale dalle cantine e dai fondi e non si sa decifrare, come un sentore di profondità telluriche che non ha mai visto la luce fino a ieri. Le nostre strade di campagna che strisciano via lungo gli acquitrini che ieri l’altro erano i frutteti e i coltivi, e ora che il fango ha preso a seccarsi sotto il sole sembrano essere fatti di uno strato di acciaio brunito. Le nostre strade di montagna invece non ci sono più, semplicemente, e se qualcuna è rimasta si è fatta tratturo.
Certo, quello che poteva essere rimesso in funzione funziona, chi ha ancora un lavoro lavora e poi chi ha ancora una casa va a casa, ma per nessuno le cose funzionano davvero, perché i segni della catastrofe sono ancora tutti lì, ovunque nelle Romagne, e non c’è posto dove trovare rifugio dalle evidenze, non c’è discorso in cui alienarsi, se siamo spariti dai tg non vuol dire che ora siamo altrove. Delle due famiglie che ospitiamo, una è riuscita a ripulire la sua casa e ad arredarla con l’essenziale, l’altra non ha il denaro per mettere alla sua una porta e le finestre, una lavatrice e un frigorifero. Moltiplicato per quanto? Per tremila, cinquemila? Per quanto moltiplicare il deserto di argilla cristallizzata che vedo ogni giorno subito dopo il Ponte Rosso, quell’allucinazione lunare che il 15 di maggio era ancora una piantagione di peonie in piena fioritura, mezzo milione di peonie, la più grande coltura d’Europa. E i milioni di ore di lavoro delle ruspe che stanno riparando gli argini e dando una parvenza di transitabilità alle strade delle terre basse e delle terre alte, per quanto ancora dovremo moltiplicarle? Non abbiamo il conto preciso di quanto è stato salvato e dunque nemmeno di quello che è andato perso, ma quello che vediamo con i nostri occhi è una voragine senza possibile conteggio. Contare in che modo, poi? Come contiamo il Truba, ventitré anni, che innamorato perso si è sposato con la Gloria e iperattivi come sono tutti e due hanno messo su un’aziendina tutta per conto loro, e assieme hanno perso casa e aziendina? Li conteggiamo tra quelli che hanno un filo di speranza o nessuna speranza? Come possiamo sapere di quanta speranza saranno capaci e di quanta ne verrà loro sottratta per come andranno le cose?
Ma qualcosa sappiamo per certo. Sappiamo per certo dalla voce degli scienziati delle acque che quello che è accaduto, che venti fiumi abbiano esondato in contemporanea in un unico e circoscritto territorio, non ha riscontro in tutta la storia, almeno quella scritta, d’Europa. Per certo sappiamo che metà della Romagna ha ripreso l’aspetto che aveva al tempo dell’ultimo disgelo quindicimila anni or sono, quella parte della Romagna edificata, creata, con le grandi bonifiche durate un secolo; un’opera di ingegneria collettiva che ha generato un delicatissimo equilibrio tra acqua, terra e nutrimento, e quella intrinseca fragilità si è retta su un patto tra uomo e natura rinnovato anno per anno, e disdetto, tradito, dalla folle illusione dello strapotere e dell’immunità di un sistema predatorio che si è dissolta in una notte. Questo sappiamo, e sappiamo di sicuro che ora in Romagna non ci sono case da poter affittare per gli sfollati, non una sola casa o appartamento; a meno che non ci si rivolga al mercato informale, e allora si trovano interessanti opzioni di camere singole o doppie per studenti fuorisede. E di sicuro sappiamo che il governo per il momento ha preso una sola risoluzione, tenerci per il collo, schiacciarci nel fango. Ah, la golosa, succulenta preda dell’Emilia Romagna, che un destino cinico e baro ha sottratto alle giuste ambizioni di Matteo Salvini, ora è lì, cotta per bene, spadellata e pronta per essere buttata giù in un solo, delizioso boccone. Temiamo, no, abbiamo paura, non tanto di quello che faranno, ma di quello che troveranno il modo di non fare, di non dare, di non rendere, perché la locomotiva d’Italia diventi la loro locomotiva lanciata verso il Grande Slam. E una cosa ci è chiara, chi aveva molto ha perso molto, chi aveva poco ha perso tutto.
Quale è il punto? No, il punto non c’è. Ma almeno, come state? Questo posso dirlo, non stiamo bene. È che la turgida, traboccante adrenalina romagnola ha seguito il suo naturale corso e ora è tutta assorbita e metabolizzata. Ce ne resta ancora un filo per “andarci su dietro”, lo faremo finché le forze ci sosterranno per non passare dall’afflizione, costernazione, frustrazione, desolazione, alla depressione. No, ancora non siamo depressi, e neppure incazzati neri se proprio lo vuoi sapere. Anche se questo è il momento d’oro per le regine del tua culpa, tua culpa, tua massima culpa, e i leghisti si portano i loro in consiglio comunale per fischiare chi ci governa e ha fatto di tutto, ma proprio di tutto, credimi, per evitare che ci fosse anche solo una vittima per mancato allarme, disattenzione, noncuranza dei responsabili della nostra comunità, e così è stato. Ma tutto il resto lo siamo, e i nostri medici ora soccorrono i più fragili tra noi, e non sono pochi, che già chiedono aiuto segnati dagli esiti di un trauma che il bromozepan può forse lenire ma non curare. Dovresti venire anche solo un giorno a vivere con noi, passare da Lugo, finire a Conselice e poi tornartene a Faenza, e vedere alla fine come ti suppurino di argilla le mani anche se non hai toccato niente. A Lugo c’è un libraio che ha perso tutti i libri, ne ha fatto delle grandi mucchie e li vende a offerta, portatene a casa uno, non riuscirai a leggerlo, ma terrai con te una piccola parte di quello che siamo rimasti.
E sono io invece a chiedermi cosa potrà accadere e cosa andrà fatto perché ci possa essere ancora una Romagna. Ci penso, chiedo, ci penso ancora, ma l’unica cosa che mi viene in mente è che non potrà mai essere quella che era il 15 di maggio. O ci sarà una nuova Romagna o non ce ne sarà nessuna. Voglio sperare in una Romagna riedificata, e così come accadde nel XIX° secolo creata su un rinnovato equilibrio tra le intenzioni umane e la loro casa, retta da un nuovo patto tra gli umani e la terra che abitano. E proprio non so chi potrà mai avere tanto sapere, tanta fantasia, tanto coraggio e tante risorse per mettercisi su dietro. Comunque sia sarà un’impresa di vastità eroica, un capovolgimento delle logiche e degli interessi che hanno portato a tradire l’antico patto. E allora non so che pensare ai ragazzi che fino a ieri hanno spalato merda, la nostra merda sia chiaro, senza chiedere, senza risparmiarsi, senza porre condizioni. Solo loro hanno la forza e il candore dell’eroe, solo in loro possiamo confidare con un po’ di decenza e un grano di speranza, consegnando alle loro intenzioni ciò che resta di quello che abbiamo portato alla rovina. La mia generazione e la generazione dei miei figli è stata risparmiata dalla guerra, la loro no, a loro abbiamo gettato addosso questa catastrofe, e questa catastrofe è la nuova guerra. E sanno benissimo che non è una guerra romagnola, ma una guerra mondiale. O un nuovo mondo o nessun mondo. —