la Repubblica, 12 giugno 2023
Intervista a Tony Hadley
Per lanciare il nuovo disco, al quale sta lavorando, Tony Hadley, 63 anni, deve prima risolvere un problema: «Ho bisogno di dimagrire. Sono sempre lì a strizzarmi le guance...».
Oggi, però, non è cosa: dopo l’intervista si rifugerà in una trattoria romana per una pasta al pomodoro con una “valanga di peperoncino” e una frittura di paranza. «Come sta? Ho saputo del nubifragio. È terribile» dice, premuroso come un amico. Sembra sinceramente colpito da quanto successo in Emilia-Romagna. D’altronde è dai tempi del Live Aid – era il 1985 – che fa beneficenza. E, ora, ha cantato un pezzo scritto dai giovani pazienti dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano con la musica di Faso degli Elii. Altissimo, giacca blu, camicia rosa, un paio di Ray-Ban aviator infilati in un’asola, sarà in tour in Italia dal 25 giugno, partenza dal Teatro Romano di Ostia Antica.
Ogni tanto un filo di capelli gli cade sulla fronte e all’improvviso lo vedi con gli Spandau Ballet. Prima dei litigi e delle separazioni.
Lavorava prima di diventare un cantante?
«Dai 13 anni. A 17 ho incontrato il mio migliore amico di sempre, Pete Hillier, che oggi è un top tour manager. Insieme abbiamo deciso: “Basta con gli studi”. Non lo dicemmo ai nostri genitori, finché il preside mandò una lettera: “‘Perché i vostri figli non stanno frequentando la scuola?”. Così trovai lavoro in un quotidiano: facevo fotocopie, preparavo pacchi, servivo il tè…».
Suo padre era impiegato al Daily Mail.
«Era ingegnere elettrico. I miei volevano andassi all’università. Inizialmente intendevo diventare chirurgo ma dentro di me sognavo di fare musica.
Facevo lavoretti part time, penso di aver visto il mondo reale. Gli altri nella band avevano già mollato i loro, ma io dissi: sgobberò finché non avremo un contratto, perché nessuno aveva i soldi per le corde della chitarra e del basso. Pagai tutto io all’inizio».
Il punk l’ha influenzata?
«Molto. Andavo a tre concerti a settimana: Sex Pistols, Vibrators, Siouxsie and the Banshees. I Generation X (la prima band di Billy Idol,ndr )e i Clash erano tra i miei preferiti. Joe Strummer era poco più grande di me. Ero sempre in prima fila a pogare...».
Però non è diventato un punk.
Anzi, nel 1977 portò sua mamma a vedere Frank Sinatra.
«I miei erano estimatori del genere: Sinatra, Tony Bennett, Ella Fitzgerald, Mario Lanza. Un giorno mamma mi fa: “Ami tutto quel punk ma se vuoi cantare dovresti ascoltare i crooner”. Presi lezioni per due anni con una cantante d’opera, Pamela Dodds, che Dio la benedica. Prima di salire sul palco faccio ancora gli esercizi che m’ha insegnato».
Ha detto che David Bowie l’ha molto ispirata ma che Freddie Mercury è stato il frontman più grande di sempre: esiste l’amicizia a quel livello?
«Incontrare Bowie fu grandioso.
Prima al Live Aid, poi al matrimonio di Bob Geldof con Paula Yates. Era carino. Mi aggiravo sul palco del Live Aid strabiliato: “Ma quello è Ringo Starr! E lì c’è Paul McCartney!”. Con Freddie diventammo amici. Fu lui adarmi fiducia come giovane cantante. Ad Auckland, in Nuova Zelanda, cantammo Jailhouse rockdavanti a 40 mila persone. Eravamo entrambi ubriachi: non so chi abbia dimenticato di più il testo. Era un ragazzo straordinario e lo adoravo».
Non c’è gelosia tra star?
«Non da parte mia. Cosa posso dire, erano i miei eroi quando da bimbo guardavo Top of the pops pensando: voglio essere così».
Cosa ricorda del debutto al Blitz Club, il locale simbolo della scena new romantic?
«Era il 1978, diventammo la band di casa. Steve Strange (frontman dei Visage e fondatore del club, ndr )stava alla porta; una volta mandò via Mick Jagger perché non era abbastanza “eccessivo”. Mi disse: “Non sembrava proprio a posto”».
È vero che Boy George era l’addetto al guardaroba?
«Sì, raccoglieva le giacche all’ingresso. Nel club ho conosciuto anche George Michael, arrivava con Midge Ure».
Eravate la nuova generazione, senza riguardo per le vecchie.
«Quando abbiamo avuto successo rilasciavamo interviste del tipo: “Gli Stones, McCartney e tutti quei vecchi, dovrebbero ritirarsi”.
Avevamo 20 anni e loro poco più di 30. Abbiamo detto delle tali stronzate! Però prima che te ne accorga hai la loro età e a quel punto sei tu che non vuoi mollare».
Durante i tour succedono cose folli: sua nonna le fece giurare di non drogarsi.
«Mia nonna Rose era adorabile: glielo promisi. Sono stato con alcuni artisti enormi ed era come essere inScarface, con Al Pacino: pile di coca sul tavolo e tutti attorno a sniffare. Io non mi facevo coinvolgere».
Gli Spandau Ballet non si riformeranno più: parla ancora con qualcuno di loro?
«L’unico è Steve Norman, il sassofonista. Non è cattivo. Un paio di loro, sì. Il grande litigio è stato con Gary (Kemp, chitarrista e tastierista,ndr).Steve ha perso la sorella, la conoscevo fin da bambina, così abbiamo riallacciato i contatti. Con lui sono stato schietto: “Ragazzi, mi avete trattato così male. È imperdonabile”».
Erano tre contro uno?
«A volte. È davvero triste e lo è per i fan. Non sono stato io il problema».
Pensa di cantare per sempre?
«Finché morirò, sul palco. La mia voce funziona ancora bene. Non voglio arrendermi. Cosa potrei fare altrimenti? Andare in pensione?».
Come vorrebbe essere ricordato?
«Maledizione (ride e ci pensa, ndr).
Come qualcuno che ha fatto un po’ la differenza. Che è stato abbastanza caritatevole. Non a tutti piace come canto. Ho fatto della buona musica e altra di merda. Ma finché ci sarà chi la apprezza, sarò soddisfatto».