Corriere della Sera, 12 giugno 2023
L’arte per tutti al tempo degli Nft
Gli Nft (Non-Fungible Token) rappresentano l’atto di proprietà, e al contempo il certificato d’autenticità, di un prodotto digitale. Funzionano attraverso la blockchain, una sorta di registro informatico che memorizza ogni transazione senza il rischio di manipolazioni. E l’arte ne è forse il veicolo principale, o almeno il più discusso. Perché in questo campo l’esperienza degli Nft è spiazzante, come e più di ogni altra esperienza che deriva dalla realtà virtuale.
Gli Nft mettono infatti in discussione la differenza tra arti riproducibili e non riproducibili, teorizzata da Walter Benjamin nel lontano 1935. Lui diceva: se un dipinto viene duplicato, smarrisce la propria autenticità, e con essa ogni pregio artistico. Smarrisce l’aura, che a sua volta deriva dalla originaria destinazione magica o religiosa del manufatto artistico, che gli conferiva i caratteri di unicità e inaccessibilità. Ma un’immagine realizzata al computer è riproducibile in milioni di esemplari, che non si distinguono l’uno dall’altro. E che tuttavia, attraverso gli Nft, muovono un mercato colossale: 17,6 miliardi di dollari nel 2021, con un incremento di 21 mila volte rispetto all’anno precedente. E con il picco raggiunto attraverso la vendita all’asta di un’opera di Beeple, per la cifra stratosferica di 69,3 milioni di dollari.
In secondo luogo, questa tecnica è spiazzante perché divarica proprietà e possesso: c’è un solo proprietario, ma chiunque può possedere la sua opera, basta uno screenshot al computer. È come se la casa di cui sono proprietario fosse abitata da milioni di persone. Se acquisto un Nft potrò dire che è mio, tutto qui: un esercizio onanistico, e anche un controsenso rispetto alla passione del collezionismo. Ma questi sono temi da lasciare alla competenza dei critici d’arte, o forse anche degli psichiatri. Poi ci sono i nodi del diritto, che hanno a che fare con le regole, anche (forse soprattutto) con le regole costituzionali. Quale priorità tra obiettivi economici e culturali? La Costituzione italiana chiede di bilanciarli, e il bilanciamento passa attraverso la valorizzazione dei beni culturali. È la valorizzazione la cerniera tra le ragioni del profitto e quelle espresse dall’esperienza artistica.
Di che si tratta? La parola esordisce nel nostro ordinamento con l’istituzione del ministero dei Beni culturali e ambientali, nel 1975, su impulso di Giovanni Spadolini. Ma la cosa c’era già, perché la valorizzazione è figlia dell’articolo 9 della Costituzione: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura». Questo significa che occorre favorire il godimento pubblico dei beni culturali, per metterli al servizio dello sviluppo intellettuale di ciascun cittadino; significa, perciò, che occorre allargarne la fruizione. Ma la maggior fruizione dei beni culturali ne incrementa,al contempo, il valore economico: se estendo il pubblico dei visitatori di un museo, gli assicuro maggiori entrate finanziarie.
Qui allora s’affaccia un altro attributo dei beni culturali: la pubblicità. «Il bene culturale è pubblico non in quanto bene di ap partenenza, ma in quanto bene di fruizione», diceva Massimo Severo Giannini. Perché ogni opera d’arte, e in generale ogni bene culturale, è per vocazione destinato alla generalità dei cittadini. Da qui la compressione dei poteri spettanti al proprietario, quantomeno nell’ipotesi in cui il bene venga vincolato. Tanto che la proprietà dei beni culturali è stata descritta come «una disgrazia costituzionalmente sancita». Tuttavia la pubblicità, la fruizione pubblica del bene culturale, viene garantita per definizione dagli Nft. Non c’è bisogno che il ministero apponga un vincolo, il vincolo in questo caso è fisiologico, circonda la natura stessa dei Non-Fungible Token: ogni Nft è di un solo proprietario ed è di tutti.
Così come gli Nft espongono con la massima evidenza un ulteriore attributo dei beni culturali: l’immaterialità. Questo concetto è stato messo in luce, negli anni Settanta, da Sabino Cassese. Lui si riferiva alla qualità di bene culturale di un’opera teatrale o musicale, e alla necessità di rafforzarne la tutela. Ma l’immaterialità, a ben vedere, non s’accompagna unicamente alle cosiddette “attività culturali”. Ogni opera d’arte costituisce un bene immateriale, nel senso che il suo valore non s’esaurisce affatto nel valore della cosa materiale – la tela, il marmo, la tavola – usata dall’artista per crearla. E negli Nft (che sono immagini virtuali, segni che galleggiano sullo schermo di un computer) l’immaterialità del bene culturale raggiunge la massima espansione.
Immaterialità, valorizzazione, pubblicità: sono i tre attributi costituzionali dei beni culturali, e sono anche gli specifici attributi degli Nft. Significa che la tecnologia si è messa al servizio della Costituzione? Che quest’ultima invenzione realizza la promessa dell’articolo 9 (la «promozione dello sviluppo culturale»)?
Può darsi, così come i social network potenziano come mai in passato la libertà di manifestazione del pensiero, nonché la libertà d’informazione, garantite dall’articolo 21. Però sui social la libertà spesso degenera in arbitrio, nell’insulto, nell’offesa alla dignità delle persone; e l’informazione ospita altrettanto spesso le fake news. È l’alternativa che ci sottopone ogni avanzamento della scienza: l’energia nucleare può illuminare le città, ma può anche distruggerle. I Greci avevano una parola per esprimere questo concetto: pharmacon, ciò che salva ma anche ciò che condanna. E del resto ogni farmaco ha controindicazioni, effetti nocivi. Se il successo degli Nft sancisse il trionfo del falso sull’originale, lo sviluppo culturale di cui parla l’articolo 9 verrebbe depresso, non promosso.