Corriere della Sera, 12 giugno 2023
Intervista a Johnny Dorelli
Johnny Dorelli non parla da molti anni. La sua ultima apparizione televisiva credo sia stata nel programma di Fabio Fazio, era il 2018. Fu un’intervista molto dolce, piena di immagini del tempo in cui Johnny viveva «all’incrocio dei venti», travolto da un successo senza confini: musica, televisione, radio, teatro. E poi un bel libro, «Che fantastica vita», scritto con Pier Lugi Vercesi.
Discreto, elegante, misurato, Johnny ha attraversato decine di anni nel rutilante mondo dello spettacolo senza perdere la sua caratteristica principale: la gentilezza.
Audrey Hepburn, che se ne intendeva, diceva: «Per avere labbra attraenti pronuncia parole gentili».
Virtù in via di estinzione, la gentilezza confina spesso con un altro atteggiamento encomiabile: il senso dell’umorismo e l’autoironia.
Qualsiasi italiano che lo abbia conosciuto vedendolo nei suoi anni ruggenti credo abbia conservato proprio questa sensazione di Dorelli. Certo un bravo cantante, un bravo attore, un bravo presentatore. Ma, soprattutto, una persona che ha frequentato il sorriso e ha regalato sorriso agli altri.
Gli ho chiesto se sa quanto gli italiani gli vogliano bene. Una domanda inutile, una non domanda. Era solo un modo per dirglielo, per ricordarlo a questa persona di ottantasei anni che da molto tempo si è ritirato, con discrezione, e condivide con la sua meravigliosa moglie, Gloria Guida, e con i figli che ama questo tempo di riposo e di riflessione.
«Anche io voglio bene agli italiani, mi hanno dato molto, mi hanno colorato la vita» dice, ed è sincero. «Sono nato a Milano ma vivevo a Meda. Era il 1937. Ero troppo piccolo e non posso ricordare la guerra. Però ho memoria che a Meda si combattevano i nazisti e i partigiani, questo sì. Dopo la liberazione mio padre, che faceva il cantante, partì per l’America. Come tanti italiani, in quel periodo. Lui era un cantante all’italiana, pensava che quella musica universale sarebbe piaciuta nella terra delle promesse. E partì.
Ce la fece e noi lo raggiungemmo. Fu un lungo viaggio su una nave di cui ancora ricordo il nome, la Sobietski. Eravamo in cabina con la mamma e il tempo non passava mai. Finché arrivammo al porto di New York e io la vidi, l’America. Sulla banchina c’era mio padre, con i suoi capelli di brillantina e il suo sorriso rassicurante. Lì iniziò una nuova vita, lì feci tutte le scuole, lì ho imparato la musica, lì ho cominciato a cantare. Feci tanti concorsi canori e li vinsi tutti».
Cantare in napoletano
Gli chiedo quale fosse allora il suo cavallo di battaglia. Mi risponde, ridendo, che era «Oje marì».
In realtà il titolo del brano era «Maria Marì», canzone scritta da Edoardo di Capua e Vincenzo Russo quando l’ottocento stava per finire. L’anno dopo, quello dell’inizio del secolo breve, fu pubblicato il primo disco a 78 giri in Italia. Era proprio «Maria Mari», la canzone che il piccolo Johnny cantava, in napoletano – lui che era milanese – e, nella parte finale, in americano.
D’altra parte quel brano piacque tanto agli americani che poi lo eseguiranno Dean Martin e Ray Gelato e persino Louis Armstrong in coppia, inopinata, con Claudio Villa.
«Quando scadde il permesso di soggiorno tornammo in Italia. Era destino che fossi legato a Napoli e allora con Bideri, grande uomo di musica, feci il festival di Piedigrotta. Mi notarono, avevo una bella voce e fui chiamato al Musichiere di Mario Riva. Feci solo tre puntate. Ero con Nuccia Bongiovanni uno dei cantanti giovani del programma. Ma Ladislao Sugar, il fondatore dell’etichetta, mi disse che dovevo fare un’altra cosa, per lui più importante: andare al festival di Sanremo. Aveva ragione.
Il pezzo che dovevo eseguire non era male, forse ne hai sentito parlare: “Volare”. Io non capii subito cosa sarebbe stato quel brano nella storia della musica, quando lo ascoltai ero giù di voce e questo mi preoccupava. Modugno era un buon collega e un grandissimo autore.
Con lui vinsi anche l’anno dopo con “Piove”. La musica italiana stava cambiando e noi demmo una bella spinta. Ma l’edizione che ricordo più delle altre è quella del 1967. Per due ragioni: ho cantato una delle canzoni che più ho amato eseguire: “l’Immensità” scritta da Don Backy e poi, al contrario, per la morte di Luigi Tenco. Quando lui è morto noi non sapevamo se fosse stato ucciso o si fosse suicidato. Ricordo che più le ore passavano più i dubbi crescevano. Io non mi sarei mai aspettato che si togliesse la vita. Era una persona piacevole e aveva scritto delle bellissime canzoni».
«Galbani vuol dire fiducia», per sei anni Johnny Dorelli è entrato nelle case degli italiani pronunciando, immancabilmente, la stessa frase.
Per la mia generazione, quella che andava a letto dopo Carosello, la pubblicità di quel programma non erano «consigli per gli acquisti»; erano puro, esaltante, spettacolo. Ogni prodotto, ogni marchio era identificato con personaggi e storie che venivano interpretate dagli attori più famosi del momento. «Il logorio della vita moderna» che sarebbe stato risolto da un liquore al carciofo – ah saperlo! – e un dentifricio che, sui denti della splendida Virna Lisi, faceva sì che lei, e noi, potessimo «con quella bocca» dire quello che volevamo.
Dorelli in quel tempo è sulla cresta dell’onda. Alla fine degli anni cinquanta, mentre giravano insieme «Tipi da spiaggia» di Mario Mattoli, incontra Lauretta Masiero, ottima attrice che avrebbe conosciuto una grande popolarità nei panni dell’investigatrice Laura Storm.
«Con lei ho fatto un figlio che amo, come gli altri, Gianluca. Credo, se ho fatto bene i conti, che sia il prodotto di una notte in cui mi arrampicai su un terrazzo dell’albergo e penetrai, non respinto, nella stanza di Lauretta. Era una gran donna, molto simpatica».
Parodia di successo
Mentre Johnny racconta questo episodio non riesco a non immaginare che in quella scena avesse i panni di uno dei personaggi più famosi e amati della storia televisiva degli anni sessanta: Dorellik.
Versione comica di Diabolik, con Margaret Lee nei panni di Eva Kant, il personaggio interpretato da Johnny divenne in poco tempo un successo nazionale.
«Fu anche un film con la regia di Steno. Il personaggio lo inventarono Castellano e Pipolo, allora ogni parodia funzionava. Dorellik era geniale, sfortunato e vanesio».
Non diverso da Gatto Silvestro o da Wil il Coyote, altri eroi di un tempo in cui non era politicamente scorretto tifare per la genialità dei cattivi di fantasia.
Ora ce ne sono troppi, di cattivi veri.
Chiedo a Johnny come nacque la celeberrima risata, un ghigno che nelle scuole di allora era il suono più frequente.
«Ero al Grand Hotel e la notte provavo il personaggio. Avrò fatto cento varianti di quella risata satanica. Ricordo che una volta mi telefonò il portiere di notte perché i miei vicini di stanza protestavano...».
Ho fatto teatro con quei geni di Garinei e Giovannini, ho cantato i brani di un musicista come Armando Trovajoli, ho girato con dei registi immensi. Il film di cui sono più orgoglioso è «State buoni se potete...» di Gigi Magni. Ho girato «Cuore» con Comencini e non rinnego le commedie che ebbero, a cavallo degli anni settanta e ottanta, un grande successo. Erano prodotti ben scritti, con cast di qualità. Ricordo con affetto Laura Antonelli, persona semplice e attrice di vaglia. Un’estate venne in vacanza in Sardegna con Jean Paul Belmondo. Noi lavoravamo e lui andava pesca con la barca mia... È stato tutto molto bello. Anche la radio. “Gran varietà” fu un successo incredibile, la radio era divertente.
Non posso davvero lamentarmi della vita che ho vissuto. Se me l’avessero detto, mentre arrivavo con i calzoni corti e il cuore stretto al porto di New York...
Anche nella vita privata. Fortuna aver incontrato Catherine Spaak, con la quale sono stato undici anni e ho fatto un figlio che si chiama Gabriele. Era una donna di grande intelligenza, carattere non facile... Ma importante.
Una donna formidabile
E poi è arrivata Gloria. Stiamo insieme dal 1979. È una persona formidabile. È intelligente, disponibile, gentile in ogni cosa che fa, ha una grazia rara. È bello vivere ogni giorno della vita con lei».
Chiedo a Johnny se ha una speranza per il futuro.
«Che finisca la guerra in Ucraina. Mi dà un grande dolore. Non capisco Putin. Non voglio capirlo. Distruggere una diga. Ma come si fa?».
Gli chiedo con chi, delle persone che ha conosciuto, vorrebbe passare delle ore a parlare. La risposta mi sorprende e mi intenerisce: «Fausto Cigliano, era un mio grande amico. Una volta la polizia ci fermò in macchina e lui reagì male. Ci misi otto ore a tirarlo fuori da quel guaio. Ora non so che faccia...».
Cigliano, chitarrista e cantante di vaglia, interpretò «E se domani» nel 1964 a Sanremo.
Ho il dovere di dirgli – la sua era una domanda, non un’affermazione – che Cigliano se ne è andato l’anno scorso...
«Mi dispiace tanto. Ci stavo bene insieme».
Gli chiedo di scegliere un momento, uno solo, della sua spettacolare esperienza umana, immaginando di poterla rivivere.
«Quando in uno studio di New York, al termine di un’audizione, tutti andarono via. E io restai solo al pianoforte. Suonavo per me, passata l’emozione. Non mi ero accorto che alle mie spalle c’era l’autore della colonna sonora di Scandalo al Sole. Mi disse di andare avanti. È quello che ho fatto, sempre. Ho girato quaranta film, calcato il palcoscenico per venti anni, inciso centinaia di canzoni, riempito tante serate televisive degli italiani.
Ora, a ottantasei anni, mi riposo, guardo il mondo e non ho nessun rimpianto. E, se è vero quello che mi dici: che gli italiani mi vogliono bene... allora sì, grazie, sono proprio contento».