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 2023  giugno 12 Lunedì calendario

Le colpe dell’alluvione


In Romagna dall’1 al 17 maggio sono caduti 5 miliardi di metri cubi d’acqua, con 32 mila sfollati, 15 morti, 8 miliardi i danni quantificati finora. Sulle colline argillose dell’Appennino si sono aperte 936 frane, e a oggi 31 frazioni sono isolate con 331 abitanti raggiungibili solo con mezzi pesanti. I modelli climatici stabiliscono che un evento di questa portata si verifica ogni 200 anni. Ce ne sono stati 2 nel giro di 15 giorni. Vuol dire che la difesa del territorio andrà interamente riprogettata perché non sappiamo cosa ci attende. L’area colpita vale 10 miliardi di export, 130 mila imprese, 443 mila occupati, e 38 miliardi di valore aggiunto. Ma il disastro è solo la conseguenza di un fenomeno estremo, o ci sono altre responsabilità?
Le opere fatte e quelle da fare
In Romagna l’enorme quantità d’acqua è caduta in poche ore, in due eventi ravvicinati, sulle colline e su decine di torrenti e piccoli fiumi, con difficoltà di deflusso in pianura e le onde dell’Adriatico alte 3 metri a fare da diga. E su un terreno che era diventato cemento dopo due anni di siccità. Quante opere idrauliche servivano, e quante erano operative? Nella provincia di Forlì-Cesena: 2 casse di espansione sul Fiume Savio, 8 sul Ronco. 4 vasche di laminazione nel punto di confluenza del Montone e del Rabbi. Sul Montone 4 casse in progettazione e non ancora finanziate dallo Stato. In provincia di Ravenna: 2 casse sul Fiume Senio, e su una il proprietario ha fatto ricorso. Delle 14 opere realizzate a 6 mancano i lavori che consentono la fuoriuscita nei periodi di siccità, ma comunque in grado di accogliere acqua. «Se anche le vasche in progettazione fossero state operative, forse avrebbero un po’ contenuto i danni, ma non trattenuto quelle quantità», sostengono tutti i geologi e ingegneri idraulici sentiti. Sempre in provincia di Ravenna, sul Lamone e Santerno, si sta cercando invece di capire dove fare queste opere perché sono aree completamente insediate, e sia le vasche che le casse occupano spazi che vanno dai 10 ai 30 ettari. Vuol dire espropri di terreni, di attività e indennizzi. Chi decide cosa? La Regione programma, il Ministero dell’Ambiente dà i soldi, poi l’attuazione passa all’Agenzia Sicurezza Territoriale e Protezione Civile, che delega il suo ufficio provinciale, che a sua volta deve avere l’ok dal Comune interessato. E qui dipende dagli interessi che ci sono in ballo, e dal gradimento dei comitati.
Sviluppo, abusi e condoni
Dagli Anni 40 in poi, su una ex palude si è costruito lo sviluppo: ogni metro quadrato si è trasformato in attività agricola, allevamenti, capannoni e abitazioni. Attorno un reticolo di canali e 26 torrenti che si riempiono quando piove e poi vanno in secca. L’ultima grande alluvione risale al 1939, quando esondò il fiume Senio. Nessuno se la ricorda più, e si è costruito anche dove non si doveva. Il cemento è da sempre il motore dell’economia, sostenuto dai condoni sugli abusi. Il governo Berlusconi ne ha fatti ben due, nel 1994 e nel 2003. Nel 2018 il governo Conte 1 ( M5S – Lega) vara un altro condono in una zona fragilissima, Ischia, che nel novembre 2022 subisce un frana devastante che provoca 12 vittime. Funziona così su tutto il territorio italiano, e quando si verifica un evento drammatico, la corsa è a scaricare le colpe su qualcun altro.
La visione unitaria
Nel 1989, dopo tante alluvioni finalmente una legge nazionale (la 183): il territorio viene diviso in 13 grandi bacini idrografici, ognuno con il proprio Piano, in modo da avere una visione unitaria dei corsi d’acqua e loro affluenti dalla sorgente alla foce. Controllo e interventi sono affidati alle Autorità di bacino, Ministeri dei lavori pubblici e Ambiente. Il principio è questo: la difesa del suolo è compito dello Stato, ed è l’Autorità di bacino a stabilire quanta acqua si può prelevare per uso agricolo, quanto e dove cavare sabbia e ghiaia, e dove non si può costruire. Alle Regioni resta la competenza per i loro fiumi interni. Contro la parte urbanistica hanno fatto ricorso tutte le Regioni, respinti dalla Corte Costituzionale, ma la sentenza è stata totalmente ignorata. Com’è noto nelle elezioni degli enti locali non c’è arma più potente del piano urbanistico.
Fiumi: il federalismo non funziona
Nel 2001, con la modifica del titolo V Regioni, Province e Comuni si prendono progressivamente la gestione del territorio e la dividono lungo i confini amministrativi, e la visione unitaria si perde. Il risultato è che se una Regione, per evitare allagamenti, deve rompere un argine che sta su un confine, l’altra Regione si oppone perché ritiene che i suoi campi siano più utili di quelli della Regione adiacente. All’interno di una stessa Regione le competenze vengono poi a loro volta spezzettate. Quindi nel caso della Romagna per esempio, l’ufficio della provincia di Ravenna si occupa del tratto del fiume ravennate, quello di Forlì del tratto di Forlì, quello che va a verso Bologna l’ufficio di Bologna. Tutti questi uffici però sono inquadrati dentro l’Agenzia Sicurezza Territoriale e Protezione civile Regionale, che essendosi sempre occupata di emergenza fa fatica a fare anche prevenzione, e la figura del sorvegliante ambientale è stata abolita. Considerata la portata dell’evento, non c’è dubbio che in Romagna gli uffici preposti abbiano operato al massimo delle loro possibilità. La sostanza del problema però è che ogni Regione si preoccupa del suo territorio, fregandosene dei danni che può provocare alla Regione confinante, e in questo quadro di disonestà politica e culturale avvengono le tragedie evitabili e si amplificano quelle provocate da eventi estremi.
La legge sul consumo di suolo
Dopo Lombardia e Veneto, Ispra mette l’Emilia Romagna al terzo posto per consumo di suolo. Una legge nazionale sulla sua riduzione ancora non c’è. L’Emilia Romagna si fa la sua nel 2017, ed è la prima Regione a darsi un limite massimo del 3% della superfice urbanizzata. La legge prevede un periodo transitorio di 5 anni, che diventano 6 grazie a un emendamento del consigliere leghista Pompignoli. Il 30 maggio scorso, alla Camera, 14 deputati della Lega presentano un emendamento dal titolo: «Disposizioni urgenti per la mitigazione del rischio alluvioni». La sostanza è questa: i presidenti delle Regioni e i sindaci possono autorizzare in via d’urgenza soggetti pubblici e privati a estrarre sedimenti, sabbia e ghiaia dal letto dei fiumi e torrenti fino al ripristino del livello storico dell’ alveo (e quale sarebbe?). L’emendamento viene dichiarato inammissibile, ma probabilmente verrà ripresentato. Il prof. Roberto Passino, fondatore dell’Istituto ricerca sulle acque del Cnr, nonché segretario generale dell’autorità di bacino del Po dal 1991 al 2002, dichiara: «Questa è un’attività rigidamente normata, perché l’alveo dei fiumi, privi di ghiaia e sabbia a causa dei continui prelevamenti, aumenta la velocità dell’acqua e il pericolo. Ne emerge che lo scopo non sia quello di pensare alla sicurezza, ma di aumentare il potere delle Regioni».
Il Commissario che non c’è
E ora c’è da ricostruire la Romagna. È evidente che non si potrà fare tutto negli stessi luoghi: la natura ha dimostrato che non può essere piegata alla volontà dell’uomo. Per fare queste operazioni ci vuole un Commissario, e quello naturale sarebbe il Presidente della Regione Bonaccini, proprio perché il suo territorio lo conosce bene. Salvini è contrario ma non spiega il perché. Sta di fatto, che la Presidente del Consiglio ha messo la questione in stand by. Chiunque arrivi, a operare saranno i funzionari dei Comuni e delle Province, insieme a quelli regionali. Quindi si va alla duplicazione dei centri di responsabilità rallentando il processo. Suona come una cinica rivalsa politica mentre un’intera regione sta soffrendo.