Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  giugno 11 Domenica calendario

Un lunga intervista a Nicola Piovani

Bisognerebbe scegliere lo spartito. Per esempio “Quanto t’ho amato”. Al genio struggente di Nicola Piovani si sommano la poesia di Vincenzo Cerami e la voce di Roberto Benigni. “Mi perdo nel tuo sguardo colossale. Nell’amore le parole non contano, conta la musica”. Fidandosi dell’orchestra in sottofondo tutto sembra più facile. Persino il racconto di questo Paese pieno di luci fioche e di ombre scure. Nulla è più democratico di sette note, se si è capaci di ascoltare. Soprattutto quando a parlare è un Maestro.
Nicola Piovani, esiste il pensiero unico in Italia?
«Ma certo che no, le sfumature del pensiero non hanno mai tenuto banco come ai nostri tempi. Il rischio semmai è l’opposto».
Una scomposta torre di Babele?
«Uno stato confusionale fatto di pensieri segmentati, di enunciati spray, di slogan, di naufragi nei distinguo e nelle battute spiritose».
Che cosa non le piace delle battute spiritose?
«In verità mi piacciono molto. Amo l’umorismo, l’ironia e anche i giochi di parole. Ma trovo cinico usare battute per semplificare, minimizzare, ridicolizzare problemi drammatici».
C’è qualcosa di peggio del pensiero unico?
«Sì: la religione unica».
Il cattolicesimo apostolico romano?
«No. La RMP, la Religione del Massimo profitto. Non del profitto, attenti, ma del massimo profitto. Sull’altare dello 0,5% di guadagno in più vengono sacrificate istanze sacre, le vite degli uomini, il futuro di un pianeta, l’aria, l’acqua, il grano, l’arte. È una fede con un’allarmante vocazione al collasso».
Le daranno del comunista.
«Pazienza. Mi hanno detto di peggio».
Per esempio?
«Mi hanno dato del buonista, squallido aggettivo. Non so chi l’abbia inventato ma gli auguro, quando avrà mal di denti, di incappare in un dentista cattivista».
Perdoni se insisto con la sinistra. Orienta o no, da sempre, il pensiero culturale (il famoso patto De Gasperi-Togliatti, a me la politica a te la cultura)?
«Se non ricordo male, la linea di Togliatti sulla spartizione della cultura fu suggerita da Stalin. Ma non credo che sia merito dell’egemonia culturale della sinistra se hanno fatto carriera artisti e intellettuali come Abbado, Fellini, Piano, Eco o Benigni. E potrei continuare».
Continui.
«Morricone, Dario Fo, Suso Cecchi-D’amico, Pollini, Morante».
Un elenco di intellettuali di destra?
«Mi riesce più faticoso. Ma il maestro Muti, artista di livello planetario, non milita certo a sinistra».
Patria, nazione e razza sono parole molto di moda.
«Se è così, appartengo a un pensiero démodé».
Una moda che non passa mai è quella del governo che occupa la Rai.
«Occupazione militare, è stato detto. È una vecchia frase fatta. Bisognerebbe invece pesare bene le parole prima di usarle. Dosare i superlativi, soprattutto in un tempo come il nostro in cui il chiasso mediatico moltiplica gli equivoci. La politica fuori dalla Rai è il refrain di una vecchia favola a cui non crede neanche chi la racconta. Certo, c’è modo e modo».
Come lo definirebbe questo modo?
«Totò direbbe: qui si esagera!».
Fazio ha lasciato la tv pubblica dopo 40 anni
«Per me si tratterà soltanto di pigiare un altro pulsante sul telecomando».
Anche Lucia Annunziata ha mollato.
«Non mi intendo di logiche Rai, non ne ho competenza e non la considero una lacuna».
Le piace il ministro Sangiuliano?
«Da un ministro della cultura mi aspetto che metta mano al disordine sclerotizzato di tanti istituti culturali».
Non mi è chiaro.
«Penso agli enti lirici, ai teatri pubblici, alle associazioni culturali. I soldi del contribuente che vengono spesi per la cultura, anzi direi meglio per l’arte, devono servire a diffondere gli spettacoli d’arte a tutti. Distribuzione agile, prezzi bassi, agevolazioni per giovani e studenti, pubblicità sulla Tv di stato; anche per formare il pubblico del futuro».
Sembra un mondo destinato alle élite.
«Al contrario. Mi piacerebbe, per esempio, che si sganciasse l’idea del teatro lirico dall’idea del lusso. Una prima all’Opera, sia chiaro, può essere un bell’evento mondano, perché anche le mondanità ingioiellate e le toilette costose hanno i loro diritti. E se il prezzo di una poltrona di gala fosse anche diecimila euro non mi scandalizzerei».
Intendevo esattamente questo.
«Aspetti. Perché dopo la prima di gala dovrebbero esserci decine e decine di repliche a prezzi più che popolari, per dare accesso a un pubblico che ora ne è escluso: non è accettabile che nei paesi europei i capolavori di Verdi siano più conosciuti che in patria, tanto per usare un termine di moda. Ecco: per me, coniugare la cultura musicale e teatrale con il lusso è un atteggiamento che chiamerei di destra. Ma nella pratica è condiviso a molte latitudini politiche».
Che giudizio dà di Giorgia Meloni?
«Chi vince democraticamente le elezioni, raccogliendo consenso personale, ha il diritto-dovere di governare secondo il proprio programma elettorale e di scegliere i suoi collaboratori, contando su una maggioranza parlamentare robusta».
Non è un giudizio, è un’analisi.
«Per vedere i frutti di un governo bisogna aspettare, ci vuole tempo: e allora aspettiamo. (A Roma stiamo fiduciosamente aspettando anche i frutti del lavoro del nuovo sindaco). Io, si sa, ho idee lontanissime da quelle dichiarate dalla presidente in carica, ma non è certo la prima volta che mi capita. Di alcuni politici mi piacciono poco le parole, ma, ancor di più, mi inquieta la musica del loro parlare».
Usano spartiti bugiardi?
«Usano quella modulazione retorica per cui si inizia un intervento a voce moderata, cordiale, e poi, fingendo di infiammarsi, si alza il tono in un crescendo tutt’altro che rossiniano, fino ad arrivare all’urlo sgangherato che mima un’indignazione etica, e che a volte prevede il rigonfiamento calcolato della giugulare».
Yo soy Giorgia?
«Non voglio personalizzare. La modulazione retorica a cui faccio riferimento non è un’esclusiva degli oratori di destra. Si va diffondendo molto in televisione e sui social. Fortunatamente c’è il tasto off per spegnere».
Piovani, esiste il pericolo fascismo?
«Più che i governanti fascisti, mi preoccupano i governanti orecchianti».
Che cosa significa?
«Suonare a orecchio va bene fra dilettanti».
Per questo l’astensionismo è a livelli record?
«L’astensionismo disfattista e qualunquista è un pericolo serio. Nell’animo di troppi giovani si va diffondendo l’idea che votare è inutile, che “tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera”, come cantava ironicamente Francesco De Gregori. Oggi un cantante idolo dei giovani può tranquillamente dirci che non sa chi è Sergio Mattarella (Rosa Chemical, ndr) e magari poi nelle sue canzoni lanciare una visione etica del mondo. Questo trionfo del qualunquismo consumista mi sconcerta».
I ragazzi tirano vernice lavabile sui muri dei Palazzi sognando un mondo migliore. Negli Anni 70 si “sprangavano” in piazza. Alcuni di loro hanno importanti ruoli istituzionali.
«I ragazzi che dimostrano le loro idee sulle catastrofi ambientali lanciando vernice solubile sui monumenti compiono un gesto illegale; un gesto forse nobile, ma certamente illegale. E le autorità hanno il dovere far rispettare la legge. Sull’utilità di quei gesti giovanili ho molti dubbi. Ma quelli che fanno raduni col saluto romano, con l’effige del duce, con le svastiche, quelli commettono un’illegalità ben più grave: e le autorità non dovrebbero restare inerti».
La Russa presidente del Senato lo promuove?
«Non devo promuoverlo io, l’ha promosso il parlamento italiano che lo ha votato. Come ci spiegò il giorno della sua elezione Liliana Segre, la Resistenza si è fatta anche perché potesse accadere questo, il verdetto delle urne è sacro, e va rispettato. Continuando naturalmente ognuno di noi a esprimere e proteggere le proprie idee».
Quali sono le sue?
«Le mie sono radicalmente cristiano-socialiste. Può chiamarle serenamente di sinistra».
Parliamo del ruolo degli intellettuali?
«Intellettuale è una di quelle tante parole che si sono logorate, sciupate con l’uso e l’abuso. È un termine che è ormai difficile da pronunciare».
Perché?
«Molti guai sono cominciati quando la parola “intellettuale” per qualcuno è diventata un insulto, un dileggio. L’analfabetismo è più o meno sempre esistito ma oggi c’è in più l’orgoglio dell’analfabeta, l’elogio dell’ignoranza, il plauso all’incompetenza. Il ruolo di un artista è difficile da definire: ma per me fondamentale è da sempre saper scegliere fra la convenienza e la convinzione. Quando mi è capitato di dover scegliere e ho scelto la convinzione, ne sono sempre stato felice».
Meloni, in un comizio a Catania, ha detto: le tasse le devono pagare le big company, no al pizzo di Stato sui piccoli commercianti.
«Il pizzo lo riscuotono gli evasori e lo pagano i contribuenti, non ci piove. Chi evade, usufruisce dei beni sociali a spese di chi paga le tasse. Mi sembra un concetto basilare, banale: se un evasore – che qualcuno chiama furbo – si cura in un pronto soccorso pubblico, la spesa gliela paga il cittadino virtuoso – che qualcuno chiama fesso».
Il governo strizza l’occhio ai furbi?
«O forse sono i furbi che strizzano l’occhio al governo?».
La destra in Europa può vincere ormai ovunque.
«Diciamo che in Europa non tira un buon vento: ma proprio in questi momenti sarebbe importante l’unità nell’opporsi alla destra, la capacità di fare fronte. Marx diceva “unitevi”, Gramsci fondava “L’Unità”. E invece, mentre i conservatori si compattano, i progressisti si sparpagliano, si smarcano, modulando l’arte della scissione fino al virtuosismo farsesco».
Le piace Elly Schlein?
«Elly Schlein rappresenta in questo momento una speranza di rinascita del campo progressista, avvilito dalle ultime batoste prese ma, soprattutto, dalla perdita progressiva di identità: l’identità deve venire prima della vittoria. Se per provare a vincere perdi di identità, fai come il tifoso che per vincere lo scudetto cambia squadra. La segretaria ha davanti un lavoro lungo e difficile, e merita i nostri auguri».
Dagospia l’ha ribattezzata ZtElly.
«Sul piano delle battute da bar sport andiamo forte».
Lei ce l’ha l’armocromista?
«Appunto, a proposito di battute».
La sinistra parla troppo di diritti civili e troppo poco di diritti sociali?
«Per me diritti civili e sociali viaggiano insieme. E devono coniugarsi con i doveri civili e sociali. Il dovere di chi governa è garantire la dignità a chi lavora e alle minoranze».
Giusto mandare le armi in Ucraina?
«Il tema è complesso, e non ho competenza sufficiente per parlarne».
Svicola?
«Ci ho provato. Va bene. Premessa: io sono da sempre pacifista, cromosomicamente, fisiologicamente pacifista e non violento: se vedo due in strada che litigano e a uno gli cola il sangue dal naso, non ci dormo per due notti. Nel linguaggio maschilista si direbbe che sono una femminella. Il mio animo ripudia la guerra, come l’articolo undici della Costituzione. La guerra mi fa orrore come quasi a tutti, credo e spero».
Dunque niente aiuti a Kiev?
«E no! Sono pacifista, ma non mi piace che di questo termine si approprino i disarmisti, quelli che sono contrari all’invio delle armi agli Ucraini: un’opinione rispettabile che non condivido affatto. Chi è invaso si deve difendere. I disarmisti non hanno il copyright del pacifismo. Da ragazzo manifestavo contro l’invasione del Vietnam e della Cecoslovacchia. Sono stato contro l’invasione dell’Iraq, retroattivamente contro quella dell’Ungheria: e ora come posso non essere contro l’invasione dell’Ucraina?».
Non sarebbe solo.
«Me ne rendo conto. Ma come posso non sapere che la propaganda putiniana in Italia è molto attiva? Stiamo attenti, però: questa guerra è tragica ed è stolto farne un pretesto di dibattito da derby politico».
Maestro, qual è la cosa più bella che ha scritto?
«Quella che sto scrivendo ora, o forse la prossima che scriverò. Ma, se proprio devo risponderle, sono orgoglioso di una rapsodia per violoncello e orchestra che ho scritto una decina d’anni fa, intitolata Il canto dei neutrini, che quasi nessuno conosce».
Detesta ancora la musica passiva?
«Anni addietro ho scritto articoli sul fenomeno della musica passiva, cioè quella musica che noi non scegliamo di ascoltare, ma che ci viene imposta al supermercato, o al bar, o in un negozio di abbigliamento o addirittura al ristorante. Quella musica che passa a un volume medio basso, spesso indecifrabile, e che si infila come un blob negli ambienti della nostra esistenza, rispondendo forse a un horror vacui sonoro sempre più diffuso».
Non esagera?
«No, anzi! Ne subisco la presenza ormai ovunque, perfino nei raduni di ambientalisti, i quali sono giustamente attentissimi a proteggerci da cemento, cartacce, ciminiere, inceneritori; ma sono insensibili alla protezione dell’ambiente fonico, anzi inclini a musichette di sottofondo da insinuare fra prati, alberi e boschetti, secondo un imperante diffuso costume – vorrei chiamarlo malcostume ma, siccome sono in netta minoranza, desisto da questa battaglia persa».
È persa anche la battaglia del cinema con le piattaforme?
«Forse questa battaglia non è mai cominciata. Da un po’ di tempo mi dedico pochissimo al cinema e molto al teatro, ai concerti, alle opere. Nel passato ho musicato più di duecento film, trascurando il resto. Ora voglio provare a riequilibrare».
Tornando in sala o restando comodamente sul divano?
«Innanzitutto non demonizzerei il divano: sul divano ho letto libri magnifici, ascoltato tanta bella musica e fatto altre belle cose. Detto questo, io ho lavorato nel cinema quando ancora il cinematografo – la sala cinematografica – aveva un potente ruolo di fruizione sociale. Oggi il grosso della fruizione si è spostato sui video privati: Tv, tablet, telefono. Ho visto in aeroporto uno che guardava un film sull’orologio da polso. E la visione da polso non ha la stessa valenza del film in sala».
Sull’orologio quel passeggero ha visto un film che probabilmente non avrebbe mai seguito al cinema.
«Contento lui! Ma è vero che ci sono ambiti nuovi che sicuramente ci daranno in futuro grandi opere d’arte, in un campo percettivo ancora da sperimentare. Fare musica in teatro in termini quantitativi, di successo, di guadagni dà meno gratificazioni del cinema, della Tv; ma in termini di emotività artistica è un’esperienza molto vitale, forse la più potente».
Si emoziona ancora?
«Moltissimo. Grazie al cielo non mi ha ancora colpito il virus del disincanto. Al “chi è di scena” il batticuore condiviso con tutti i miei musicisti e tecnici è lo stesso di sempre. Le assicuro che stare in un bel teatro della provincia italiana – ne abbiamo tanti, meravigliosi – suonare dal vivo per un pubblico attento nel buio della sala, senza telecomando, senza mouse, è un’esperienza artistica seconda a nessun’ altra. E non cambia se suoniamo a Siena o a Teheran o a Parigi o a Novi Ligure, a Toronto o a Mola di Bari».
Esperienza democratica.
«Se la chiama così non mi offendo. Ricordo una notte insonne, negli anni Ottanta, avevo la Tv accesa, e c’era una lunga trasmissione con l’onorevole De Michelis il quale, nei suoi interventi, ripeteva quasi ossessivamente “bisogna pensare in grande, bisogna pensare in grande”. La mattina dopo, al risveglio, ebbi un’illuminazione che mi avrebbe guidato per gli anni a venire, e ancor oggi mi guida: “Voglio pensare in piccolo!”. Ecco, la qualità viene prima della quantità. La mia musica vive felice nella preziosa intimità di una sala teatrale».
Che cos’altro definirebbe prezioso nel suo lavoro?
«Beh, quando ogni tanto mi propongono una sceneggiatura che è davvero affascinante, non resisto alla tentazione e mi prendo il lusso di tornare in moviola (io la chiamo ancora moviola). Per me, la magia del lavoro che coniuga musica e immagini, partiture e sequenze, è rimasta intatta, è un vizio che non perdo».
Maestro, se chiude gli occhi e pensa a Fellini qual è la prima immagine che vede?
«Lui che mi aspetta al caffè Canova di piazza del Popolo, per andare insieme con la mia macchina a Cinecittà».
Le manca Fellini?
«Risposta semplice: ovviamente sì. Soprattutto nella quotidianità e nello scambio di pensieri, nelle telefonate».
Se pensa a Benigni invece che cosa vede?
«Lo vedo sorridente accanto a Nicoletta, davanti alla gioiosa pizza che abbiamo condiviso pochi giorni fa».
Piovani, la vita è ancora bella?
«Può esserlo ancora molto. E potrebbe esserlo di più se ci concentrassimo su ciò che davvero conta, tralasciando un po’ il superfluo. Bisognerebbe viverla di più e consumarla di meno. E non bisognerebbe avere paura della bontà, un sentimento purtroppo fuori moda. Il grande Eduardo De Filippo diceva: l’uomo non è cattivo: ha solo paura di essere buono».
Ps. Se non avete ascoltato Il canto dei neutrini, rimediate adesso. Fa stare bene. —