Avvenire, 11 giugno 2023
Ricordo di Pontiggia
Era un lettore meraviglioso, acuto e sincero. Come non affidargli i nostri scritti più dubbiosi? Tanti di noi l’hanno fatto, trovando sempre accoglienza, buoni consigli, e la tessitura dei rapporti che fanno vivere gli scrittori: come quando mi fece incontrare Calasso per Yeats, ma io ormai avevo firmato con Guanda. E a questo proposito, credo che oltre a stupore ci sia stato un pizzico di orgoglio, quando mi scrisse la breve nota sul Corriere all’uscita di Anima mundi, i saggi di Yeats. I suoi libri ti giungevano con puntualità svizzera. Le dediche appropriate al momento. Per esempio su La grande sera – romanzo di sparizioni, inizio tra presunti poeti, che avrebbe vinto lo Strega battendo sul filo Cadmo e Armonia di Calasso – appose: «A Rosita con l’ammirazione del suo Peppo Milano, 18 aprile 1989»: penso si riferisse al mio Furore delle rose, uscito a gennaio. Per I contemporanei del futuro scrisse: «A Rosita e ai nostri classici Peppo 9.9.1998». Il 23 agosto 2000, quando mi giunse Nati due volte, inviato con la più consueta dedica «con il mio abbraccio», pensai che il Peppo avesse fatto lo sforzo più tremendo su di sé, che doveva a tutti a tre, Lucia, Andrea e sé stesso, perché era la restituzione di quel che avevano dato e ricevuto insieme. Se gli altri potevano estraniarsi dalle loro vite, lui no. Lui doveva riconoscere il figlio, come il figlio riconosceva lui, il padre. Ricordai l’incontro più divertente di anni prima, nella casa milanese di via Farneti 9. Io munita di registratore e cassette appena comprate, in quella fodera di Biblioteca che era la casa. Le cassette, o il registratore, o entrambi, non volevano saperne di assorbire coscienziosamente le nostre voci, come era loro dovere. Allora entrò in campo Andrea, il salvatore. Molto ironico e competente, preciso e affidabile, ci tirò fuori da ogni impaccio. Risolse i problemi di tutti, con la sua aria “superiore”. Perché un Ermes-Cristo è davvero superiore a tutti noi: così lo identificò Citati parlando di lui in Nati due volte: «Va oltre il dolore, diventa Ermes e Cristo; riesce a giungere nel punto dove gli opposti coincidono». Lo ricordava sui tredici anni. Quando si produsse in una intervista a Luciano Foà (allora amministratore delegato di Adelphi) che possedeva l’ironia, l’insensatezza, la demenza della grande letteratura comica. Si prendeva gioco di Adelphi, di Foà, di Calasso, della letteratura, dell’editoria, di sé stesso, del padre, della madre, dei libri e, naturalmente, dell’intera esistenza. Dopo averlo ascoltato, capivi che il mondo è una cosa di cui si può benissimo fare a meno. Peppo rispose alla mia ultima lettera poco prima di morire. L’avevo invitato a nome di Marcello Di Bella, direttore della Biblioteca Gambalunga di Rimini, a parlare di classici nel Festival del Mondo antico, “Antico presente”, che Di Bella aveva inventato e organizzava con grande successo dal 1999.
Rispose con la squisita, sincera cortesia di sempre, scusandosi. Anche l’appuntamento inesorabile era indistinguibile da una colpa.
Quella che portava attraverso il padre ucciso, quella che gli aveva fatto scrivere il libro terribile: Nati due volte, dove a tutti noi ha insegnato che l’inatteso è l’altro, dal quale impariamo appunto «il prossimo», lo sguardo del riconoscimento.