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 2023  giugno 11 Domenica calendario

Ennio Flaiano raccontato da Tommaso Pincio

Ennio Flaiano (1910-1972) è il maestro degli scrittori (non solo) satirici, l’autore di sceneggiature passate alla storia del cinema, lo scettico per eccellenza della letteratura italiana. Tommaso Pincio ha dedicato a Flaiano Diario di un’estate marziana (Giulio Perrone editore). Non è una biografia e neppure un romanzo. È un omaggio sul filo della memoria personale e collettiva allo scrittore che meglio ha saputo descrivere gli italiani (e la sotto-categoria dei romani). Oggi Pincio è ospite al Festival fiorentino «La città dei lettori» (ore 11, al Salone).


Che tipo di satira è quella di Flaiano?


«Non so se la chiamerei satira. Se vogliamo accettare questa definizione è una satira, per così dire, affettuosa. Tagliente, certo. Però mai cattiva».


La definisce «malinconica» nel libro.


«Malinconico è lo sguardo sul destino degli uomini. Non è un autore che si pone un gradino sopra gli altri e fa la morale, tentazione di molti attori e scrittori di satira. Tra le righe cogli sempre partecipazione alle miserie altrui».


Lei accosta Flaiano a Mino Maccari.


«Erano grandissimi amici. Le battute più velenose erano di Maccari. Flaiano le trascriveva nei suoi libri, attribuendole correttamente a Maccari. Le battute di Maccari sono caustiche, quelle di Flaiano giocano più con il paradosso, il surreale e il non sense. Altre battute credo siano anonime, ascoltate nei caffè o nelle notti romane. Flaiano se le appuntava».


«In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Di chi è questa battuta famosa?


«Flaiano la attribuisce a Maccari. Non penso però sia una delle sue, o loro, battute più famose. Troppo scomoda ora come allora. È una battuta rimossa».


A proposito di società dei caffè, quando si dice Flaiano vengono sempre in mente Via Veneto e la Dolce vita di Federico Fellini.


«Fellini non ha mai frequentato via Veneto. Quella del film è la via Veneto di Flaiano, prima metà anni Cinquanta. Fellini aggiunge i paparazzi, il divismo, il giornalismo. Tutte cose un poco posteriori, in realtà».


Che rapporto c’era tra Fellini e Flaiano?


«Fellini era più giovane di una decina d’anni e questo ha segnato in negativo la loro amicizia, perché quando i due si sono conosciuti, Flaiano era già quasi Flaiano e Fellini era un ragazzo arrivato dalla provincia. Poi Fellini è diventato Fellini e Flaiano è rimasto Flaiano, con il risultato che si è ritrovato ad essere quello che era da bambino, cioè il figlio minore trascurato, quello arrivato penultimo e quindi quello meno coccolato, più mortificato».


Apriamo una parentesi: «mortificato» è una delle parole chiave del libro. Da dove arriva?


«È una parola di Flaiano. Riteneva di aver avuto un’infanzia e una giovinezza mortificante perché era il figlio meno accudito. Ha visto nella giovinezza sotto il fascismo un prolungamento dell’infanzia mortificata. La sua opposizione al regime fu quella di uno scettico, che sceglie il silenzio. L’esilio e la lotta aperta non facevano per lui».


Si sentiva spremuto da Fellini?


«Fellini aveva qualche problema nel riconoscere il merito degli sceneggiatori. Diceva di presentarsi sul set con qualche appunto sul pacchetto di sigarette come copione. Magari era pure vero. Ma a monte degli appunti c’erano discussioni meticolose. La rottura avvenne per uno sgarbo. Quando volarono a Hollywood per Otto e mezzo, Fellini volò in prima classe. Flaiano si accomodò in seconda».


Perché Flaiano ha scritto un solo romanzo, Tempo di uccidere?


«Perché glielo ha commissionato Leo Longanesi, altrimenti non avrebbe scritto neppure quello».


Perché era così insoddisfatto?


«Perché era un vero scrittore».


Eppure Tempo di uccidere vinse il primo Premio Strega...


«Il Premio Strega si teneva sulla terrazza di un albergo. Flaiano rimase in camera a ricevere le notizie. Non era un rifiuto della mondanità. Si sentiva un impostore perché pensava di non di non meritare quell’eventuale premio. Diceva che Tempo di uccidere era da riscrivere».


Perché Flaiano ha scelto la forma breve, il racconto, l’aforisma, i taccuini, i diari e così via?


«La forma breve, forse, gli consentiva di sottrarsi all’autocritica. L’opera restava una promessa, qualche cosa di non definitivo su cui non aveva non aveva senso infierire».


Un’altra parola che ricorre spesso nel libro è «inutile». Cosa significa per Flaiano?


«È lo scetticismo come regola di vita. Ma è anche altro. Diciamo che Flaiano è stato il più importante dei nostri scrittori esistenzialisti. Ce ne sono altri. Accanto a Flaiano metterei Vitaliano Brancati e Dino Buzzati cioè quegli scrittori che hanno coniugato la fiaba trasognata e una lucidissima osservazione della realtà. Facevano questo in una società che prescriveva il realismo e l’impegno civile, ci voleva coraggio per uscire dagli schemi. Nella cultura c’erano la sinistra e la destra. In mezzo c’era Flaiano, che non a caso lavorava al Mondo di Pannunzio, un giornale che è un caso unico per la collocazione in campo liberale e radicale. Credo che Flaiano abbia pagato il suo voler restare sempre uno scrittore e basta».


Un marziano a Roma è un raro esempio di fantascienza italiana.


«Non è l’unica volta che Flaiano si è cimentato col genere, che conosceva soprattutto attraverso il cinema, e che trattava senza snobismi. D’altronde il marziano era lui. E alieni, per il marziano, erano anche tutti i terrestri. La fiera del disincanto...».