Domenicale, 11 giugno 2023
La cucina «liquida» finisce sulla brace
Una dopo l’altra le ideologie culinarie sono crollate, così come il muro di Berlino. Prima la nouvelle cuisine dei santoni francesi (Alain Chapel, Michel Guerard, Paul Bocuse, i fratelli Troisgros, Roger Vergè), poi lo spagnolo Ferran Adrià di elBulli di Roses e i suoi seguaci, quindi la cucina nordeuropea del Noma di Copenhagen di Renè Redzepi. La loro fine non è stata economica (basti pensare al numero di prenotazioni di elBulli, fino a pochi giorni dalla chiusura), così come invece sostengono le tesi più diffuse. Di certo ha influito il modello sul quale sono state create le filosofie gastronomiche di queste tre scuole, i cui principi sono scolpiti nei diversi “manifesti” della nouvelle cuisine, della cucina destrutturata di Ferran Adrià, del manifesto per la nuova cucina nordica, seguiti, per anni, da migliaia di cuochi, cucinieri e chef sparsi per il mondo. Filosofie culinarie, costrittive in alcuni casi, ossessive in altri, per la ricerca di un feticcio banalizzato come la creatività e l’innovazione, che ha bloccato e castrato i cuochi, attirati dal compiacimento delle guide gastronomiche, seguaci, a loro volta, degli stessi paradigmi dei diversi manifesti. Le tre scuole, in tempi diversi, hanno esaurito la spinta del nuovo; e non hanno avuto più la forza di sostenere un credo, basato sulla ricerca compulsiva, portatore di una pressione assurda. «Se l’eccellenza diventa inseparabile da questa cultura – come ha sostenuto Rezdepi – il lavoro non è sostenibile». L’uscita di scena, o quasi, di coloro che sono stati alla ribalta internazionale, ha lasciato il pianeta culinario senza icone e privato larga parte dei cucinieri di veri e propri dogmi a cui fare riferimento; così come la critica gastronomica. Per anni, infatti, molti chef sono stati gratificati perché parte di una cultura dominante, motivo di successi e notorietà.
Il vuoto pneumatico, formatosi dopo il crollo, ha generato una cucina libera, senza più i lacci e lacciuoli, quasi a validare il pensiero sulla società del sociologo Zygmunt Bauman. La sua metafora della liquidità descrive anche perfettamente la condizione nella quale si trova tuttora la cucina, una sorta di zona intermedia, transitoria, i cui approdi, una volta persi i valori, sono tuttora indefiniti. L’unica costante non è una nuova scuola di pensiero o un nuovo chef che promuova principi condivisi, bensì l’incertezza di un qualcosa che validi una scuola di pensiero. A riprova di quanto descritto, il termine «liquida», riferito alla cucina, non è nuovo: è stato impiegato da Henry Gault, creatore della nouvelle cuisine con Christian Millau, proprio per “notificare” la fine del movimento da lui stesso creato con un manifesto, allora «rivoluzionario». Così, in una intervista a questa testata del 1984, Henry Gault affermava: «Senza tradire le mie convinzioni devo ammettere che il termine (nouvelle cuisine) non è più appropriato, oggi bisogna parlare di open cuisine, di cucina libera».
Attualmente è un fiorire di “predicatori”, di cucine emergenti che non sono portatrici di innovazione, come invece lo sono stati i maestri francesi, Adrià e Rezdepi, ma il nuovo che avanza, occupa uno spazio appunto «liquido», temporaneo, che non lascerà tracce significative, fino a quando non apparirà un nuovo “signore” dei fornelli, in grado di cambiare i codici della cucina. In questo spazio «liquido» purtroppo i segnali che arrivano sono anche dai social, creatori di fenomeni da baraccone come Salt Bae, macellaio turco, che sparge sale sulle carni, con gesto scimmiesco.
Se il mondo piange l’assenza di riferimenti culinari, a cui rifarsi, l’Italia non ride. Così come non abbiamo mai avuto rivoluzioni sociali e politiche, ma solo tumulti, il faro continua ad essere la “sempreverde” dieta mediterranea, sebbene mai reputata come filosofia, al pari delle tre scuole, da chef e dalla critica internazionale. Qua e là nel tempo, abbiamo avuto tumulti, quali Gualtiero Marchesi con la «cucina totale», che ha generato una schiera di chef affermatisi nel tempo e capaci di elaborare un percorso personale. Negli spazi «liquidi» alcuni cuochi hanno certamente conquistato popolarità internazionale, come Massimo Bottura, grazie alle affermazioni nelle diverse classifiche mondiali, autore di certo di uno stile, ma non di un vero e proprio movimento. Lo spazio «liquido» in Italia è occupato da una ristorazione omologata di cotture tecnologiche (sottovuoto), arrivate da Oltralpe, da insopportabili e stucchevoli amuse bouche (che ho definito da tempo ex voto o santini), che necessitano di Gps per seguire le indicazioni del cameriere all’arrivo degli assaggi: si parte dal primo a destra, poi al centro eccetera. I menu degustazione, inoltre, privano la libertà di scelta, con la “giustificazione” di non spreco e sostenibilità, infarcita però di prodotti modaioli d’importazione. Il grande successo di revival di trattorie, di osterie, di bistrot è la conseguenza di una clientela che non apprezza condizionamenti di scelta, i menu che diventano racconti, eseguiti in canto gregoriano e i piatti rivestiti come nelle sfilate di moda.
La domanda scorre verso piatti veraci, ben cucinati con ingredienti di qualità stagionali, che non sono “pettinati” per i selfie e dove il locale non offre la vista di un set televisivo. Lo spazio liquido attuale offre qualcosa di nuovo, anzi di antico: un ritorno alla cucina del fuoco, a carbone e legno (tradizione di trattorie) e un revival del cibo selvatico: pesce, frutti e piante spontanee del bosco, soprattutto la cacciagione, prevista dalla legge 157 e quella di selezione. Chissà se Victor Argunizoniz, attualmente il più straordinario asador della cucina alla brace, del locale Etxebarri di Axpe, frazione di Atxordo, nei Paesi Baschi, non diventi il nuovo riferimento della cucina mondiale. Così è se mi piace!